SCHEDA
Il De vulgari eloquentia e la questione della lingua
Nel Cinquecento il dibattito intorno alla questione della lingua fu notevolmente vivacizzato dalla "riscoperta" di un'opera dantesca di cui fino a quel momento si erano perse le tracce, vale a dire quel De vulgari eloquentia (► AUTORE: Dante Alighieri) che nel XIV-XV sec. era noto solo indirettamente e che nel 1529 fu riportato alla luce da Gian Giorgio Trissino (1478-1550), letterato vicentino al centro di un vero e proprio caso letterario nel Rinascimento. Trissino venne in possesso (non si sa come) di uno dei tre soli manoscritti che tramandano il trattato, il codice Trivulziano oggi conservato a Milano, e secondo una diceria forse non degna di fede lo avrebbe mostrato agli intellettuali riuniti agli Orti Oricellari di Firenze tra cui Machiavelli, che poi ne fece menzione nel Discorso intorno alla nostra lingua; di sicuro Trissino portò il manoscritto a Roma mostrandolo, tra gli altri, a Pietro Bembo che era ovviamente assai interessato alla questione linguistica, e poi ne pubblicò a Vicenza nel 1529 una traduzione in italiano senza mostrare l'originale latino, suscitando varie polemiche e sospetti circa la sincerità dell'operazione (ci fu chi mise in dubbio la paternità dantesca dell'opera e chi accusò Trissino di aver inventato di sana pianta l'esistenza del manoscritto, questo soprattutto per il giudizio negativo che Dante nel testo esprimeva contro il volgare fiorentino). Le polemiche circa l'esistenza del testo vennero sopite nel 1577 quando l'esule fiorentino Jacopo Corbinelli pubblicò a Parigi l'editio princeps del testo basandosi sul manoscritto di Grenoble, che tuttavia non fugò i dubbi circa l'autenticità dell'opera, mentre solo agli inizi del XX sec. fu scoperto il terzo manoscritto del trattato (il codice Berlinese, di gran lunga più corretto degli altri due), per cui si può ben comprendere la sorpresa dei letterati del Cinquecento quando Trissino riportò alla luce un'opera di cui fino a quel momento non si sapeva quasi nulla, per di più al fine di sostenere una sua particolare tesi linguistica che non solo si appoggiava all'autorità di Dante, ma contrastava con quella propagandata in quegli anni da Bembo e anche con le idee di Machiavelli, entrambi fieramente ostili verso la genuinità delle idee espresse nel testo latino (► PERCORSO: Il Rinascimento).
Trissino infatti intervenne nel dibattito sulla questione della lingua proponendo una sua personale soluzione, secondo cui il fiorentino non poteva vantare alcun primato sugli altri volgari d'Italia e la lingua letteraria doveva nascere da una sorta di koiné sovraregionale mettendo insieme i caratteri delle principali lingue di corte, dunque con una posizione molto simile (anche se non priva di forzature) con quella espressa da Dante nel trattato, che aveva duramente criticato i fiorentini come parlanti una lingua lontanissima dal "volgare illustre". Trissino sostenne le sue tesi anche in un dialogo, Il castellano (1529), ambientato a Roma nel 1521 e avente come interlocutori Giovanni Rucellai, comandante della fortezza papale di Castel Sant’Angelo (da cui il titolo dell'opera), lo scrittore napoletano Jacopo Sannazaro e il fiorentino Filippo Strozzi, dei quali il primo è portavoce delle idee dell'autore, il secondo lo appoggia e il terzo sostiene la posizione di Bembo, che qui risulta perdente. Trissino delineò anche, come nelle Prose di Bembo, una sorta di grammatica della lingua ideale e propose alcune innovazioni nell'ortografia, tra cui l'uso delle lettere greche ε, ω per indicare la "e" aperta e la "o" chiusa, nonché del grafema ʃ per esprimere la "s" sonora (lui stesso ne fece uso nella stampa di alcune sue opere, anche se la proposta suscitò varie critiche e venne poi sostanzialmente abbandonata). La stessa soluzione linguistica di Trissino era di fatto inapplicabile e venne ben presto soppiantata da quella di Bembo, che contrariamente alle idee di Dante nel De vulgari assegnava il primato al fiorentino e individuava in Petrarca e Boccaccio i modelli da imitare in poesia e in prosa, per cui nel Cinquecento si parlò di "bembismo" e alla lunga le proposte del vicentino vennero dimenticate, insieme alle polemiche suscitate dalla singolarità delle tesi dantesche del trattato.
Un interessante contributo alla questione linguistica venne offerto anche da Niccolò Machiavelli, autore (non senza qualche dubbio) di un Discorso intorno alla nostra lingua (1524-25) in cui l'autore del Principe sosteneva la necessità di adottare come lingua letteraria il fiorentino contemporaneo, dunque con una posizione antitetica sia a quella vincente di Bembo sia a quella "sovraregionale" di Trissino sostenuta poi nel Castellano. Machiavelli, che come detto partecipò forse alle discussioni con Trissino agli Orti Oricellari agli inizi del Cinquecento, nel Discorso inscena addirittura un dialogo ideale con Dante, che accusa con forza di aver infangato la reputazione di Firenze nel De vulgari eloquentia e le cui tesi vengono confutate, fingendo poi che lo scrittore del Trecento ammetta di avere detto cose inesatte e ne faccia in un certo senso la ritrattazione ("Udito che Dante ebbe queste cose, le confessò vere, e si partì; e io mi restai tutto contento parendomi di averlo sgannato"). È interessante il fatto che Machiavelli contesti le posizioni dantesche del De vulgari senza mettere in dubbio l'autenticità dell'opera, mentre anche la sua proposta linguistica, che pure presentava molti vantaggi rispetto a quella di Bembo, fu trascurata in quanto priva di quei modelli di autorità che erano ricercati dai letterati del Rinascimento, per cui il "bembismo" si impose come la soluzione comunemente accettata nella letteratura del Cinquecento e fu adottata dai principali scrittori non toscani del secolo, tra cui fu soprattutto l'emiliano Ludovico Ariosto a sancirne l'affermazione definitiva con l'edizione finale del Furioso.
Trissino infatti intervenne nel dibattito sulla questione della lingua proponendo una sua personale soluzione, secondo cui il fiorentino non poteva vantare alcun primato sugli altri volgari d'Italia e la lingua letteraria doveva nascere da una sorta di koiné sovraregionale mettendo insieme i caratteri delle principali lingue di corte, dunque con una posizione molto simile (anche se non priva di forzature) con quella espressa da Dante nel trattato, che aveva duramente criticato i fiorentini come parlanti una lingua lontanissima dal "volgare illustre". Trissino sostenne le sue tesi anche in un dialogo, Il castellano (1529), ambientato a Roma nel 1521 e avente come interlocutori Giovanni Rucellai, comandante della fortezza papale di Castel Sant’Angelo (da cui il titolo dell'opera), lo scrittore napoletano Jacopo Sannazaro e il fiorentino Filippo Strozzi, dei quali il primo è portavoce delle idee dell'autore, il secondo lo appoggia e il terzo sostiene la posizione di Bembo, che qui risulta perdente. Trissino delineò anche, come nelle Prose di Bembo, una sorta di grammatica della lingua ideale e propose alcune innovazioni nell'ortografia, tra cui l'uso delle lettere greche ε, ω per indicare la "e" aperta e la "o" chiusa, nonché del grafema ʃ per esprimere la "s" sonora (lui stesso ne fece uso nella stampa di alcune sue opere, anche se la proposta suscitò varie critiche e venne poi sostanzialmente abbandonata). La stessa soluzione linguistica di Trissino era di fatto inapplicabile e venne ben presto soppiantata da quella di Bembo, che contrariamente alle idee di Dante nel De vulgari assegnava il primato al fiorentino e individuava in Petrarca e Boccaccio i modelli da imitare in poesia e in prosa, per cui nel Cinquecento si parlò di "bembismo" e alla lunga le proposte del vicentino vennero dimenticate, insieme alle polemiche suscitate dalla singolarità delle tesi dantesche del trattato.
Un interessante contributo alla questione linguistica venne offerto anche da Niccolò Machiavelli, autore (non senza qualche dubbio) di un Discorso intorno alla nostra lingua (1524-25) in cui l'autore del Principe sosteneva la necessità di adottare come lingua letteraria il fiorentino contemporaneo, dunque con una posizione antitetica sia a quella vincente di Bembo sia a quella "sovraregionale" di Trissino sostenuta poi nel Castellano. Machiavelli, che come detto partecipò forse alle discussioni con Trissino agli Orti Oricellari agli inizi del Cinquecento, nel Discorso inscena addirittura un dialogo ideale con Dante, che accusa con forza di aver infangato la reputazione di Firenze nel De vulgari eloquentia e le cui tesi vengono confutate, fingendo poi che lo scrittore del Trecento ammetta di avere detto cose inesatte e ne faccia in un certo senso la ritrattazione ("Udito che Dante ebbe queste cose, le confessò vere, e si partì; e io mi restai tutto contento parendomi di averlo sgannato"). È interessante il fatto che Machiavelli contesti le posizioni dantesche del De vulgari senza mettere in dubbio l'autenticità dell'opera, mentre anche la sua proposta linguistica, che pure presentava molti vantaggi rispetto a quella di Bembo, fu trascurata in quanto priva di quei modelli di autorità che erano ricercati dai letterati del Rinascimento, per cui il "bembismo" si impose come la soluzione comunemente accettata nella letteratura del Cinquecento e fu adottata dai principali scrittori non toscani del secolo, tra cui fu soprattutto l'emiliano Ludovico Ariosto a sancirne l'affermazione definitiva con l'edizione finale del Furioso.