Letteratura italiana
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Giovanni Boccaccio


Africo e Mensola
(Ninfale fiesolano, ott. 26-36)

La scena descrive il primo incontro tra i protagonisti del poemetto, ovvero il pastore Africo e la quindicenne ninfa Mensola, scorta dal giovane insieme alle compagne e alla dea Diana in un bosco e subito ammirata per la sua bellezza: nei giorni seguenti Africo si struggerà nel desiderio di rivedere la ragazza e, su consiglio di Venere, riuscirà ad avvicinarla e a sedurla, relazione dalla quale nascerà un bambino. Il passo è interessante per il tono narrativo che ha molto poco di poetico e per le molte reminiscenze classiche, fonte a sua volta di ispirazione per i poeti del Quattrocento tra cui soprattutto Poliziano nelle "Stanze".

► AUTORE: Giovanni Boccaccio


26
Africo stante costoro ascoltando,
fra l’altre una ninfa agli occhi li corse,
la qual alquanto nel viso mirando,
sentì ch’Amor per lei il cor gli morse
sì che gli fe’ sentir, già sospirando,
le fiaccole amorose: ché gli porse
un sì dolce disio, che già saziare
non si potea della ninfa mirare.

27
E fra se stesso dicea: «Qual saria
di me più grazioso e più felice,
se tal fanciulla io avessi per mia
isposa? Ché per certo il cor mi dice
ch’al mondo sì contento uom non saria;
e se non che paura mel disdice
di Diana, i’ l’arei per forza presa,
che l’altre non potrebbon far difesa».

28
Lo ’nnamorato amante in tal maniera
nascoso stava infra le fresche fronde,
quando Diana, veggendo che sera
già si faceva, e che ’l sol si nasconde
e già perduto avea tutta la spera,
con le sue ninfe, assai liete e gioconde,
si levâr ritte, ed al poggio salendo,
di belle melodi’ e canzon dicendo.

29
Africo quando vide che levata
s’era ciascuna, e simil la sua amante,
udì che da un’altra fu chiamata:
– Mensola, andianne –, e quella, su levante,
con l’altre tosto si fu ritrovata.
E così via n’andaron tutte quante:
ognuna a sua capanna si tornoe,
poi Diana si partì e lor lascioe.

30
Avea la ninfa forse quindici anni:
biondi com’oro e grandi i suoi capelli,
e di candido lin portava i panni;
du’ occhi in testa rilucenti e belli,
che chi li vede non sente mai affanni;
con angelico viso ed atti isnelli,
e ’n man portava un bel dardo affilato.
Or vi ritorno al giovane lasciato.

31
Il qual soletto rimase pensoso,
oltre modo dolente del partire
che fe’ la ninfa col viso vezzoso,
e ripiatando il passato disire,
dicendo: «Lasso a me, che ’l bel riposo
ch’ho ricevuto mi torna in martire,
pensando ch’ i’ non so dove o ’n qual parte
cercarmene giammai, o con qual arte.

32
Né conosco costei che m’ha ferito,
se non ch’io udi’ che Mensola avea nome:
e lasciato m’ha qui, solo e schernito,
sanz’avermi veduto; ed almen come
i’ l’amo sapesse ella, e a che partito
Amor m’ha qui per lei carche le some!
Omè, Mensola bella, ove ne vai,
e lasci Africo tuo con molti guai?».

33
Poi, ponendosi a seder in quel loco
ove prima seder veduto avea
la bella ninfa, e nel suo petto il foco
con più fervente caldo s’accendea;
così continovando questo gioco,
il viso bel nell’erba nascondea:
baciandola dicea: – Ben se’ beata,
sì bella ninfa t’ha oggi calcata. –

34
E poi dicea: «Lasso a me,» sospirando
«qual ria fortuna, o qual altro destino,
oggi qui mi condusse lusingando,
perché, di lieto, dolente e tapino
io divenissi una fanciulla amando,
la qual m’ha messo in sì fatto cammino,
sanz’aver meco scorta o guida alcuna,
ma sol Amore è meco e la fortuna!

35
Almen sapesse ella pur quanto amata
ell’è da me, o veduto m’avesse!
Ben ch’i’ credo che tutta spaventata
se ne sarebbe, sed ella credesse
esser da me o da uom disiata;
e son ben certo, in quanto ella potesse,
ella si fuggiria, sì come quella
c’ha ’n odio l’uomo ed a lui si rubella.

36
Che farò dunque, lasso, poi ch’io veggio
ch’a palesarmi saria ’l mio piggiore,
e s’io mi taccio, veggio ch’è ’l mio peggio,
però ch’ognor mi cresce più l’ardore?
Dunque, per miglior vita, morte cheggio,
la qual sarebbe fin di tal dolore:
bench’io mi credo ch’ella penrà poco
a venir, se non si spegne esto foco.»

Africo, mentre stava ascoltando le ninfe, ne notò una con lo sguardo e, ammirandola per un po' in viso, sentì che Amore gli punse il cuore grazie a lei, al punto che gli fece sentire tra i sospiri le pene amorose: infatti gli fece nascere un desiderio così dolce, che non si poteva saziare dal guardare la ninfa.




E diceva tra sé: «Chi sarebbe più fortunato e felice di me, se io potessi sposare una tale fanciulla? Infatti il cuore mi dice per certo che non ci sarebbe al mondo un uomo così contento; e se non fossi dissuaso dalla paura di Diana, io l'avrei già presa con la forza, poiché le altre non potrebbero difenderla».





L'amante innamorato se ne stava così nascosto tra il fogliame, quando Diana, vedendo che ormai si faceva sera e che il sole tramontava e aveva ormai oscurato tutta la sua sfera, si alzò con tutte le sue ninfe, molto liete e felici, e salendo al colle intonarono belle melodie e canzoni.





Africo, quando vide che ognuna di loro si era alzata e con esse la sua amata, sentì che fu chiamata da un'altra: - Mensola, andiamo -, e quella, alzatasi, raggiunse presto le altre. E così si allontanarono tutte quante: ognuna tornò alla sua capanna, poi Diana andò via e le lasciò.





La ninfa aveva forse quindici anni: aveva i capelli biondi come l'oro e folti, e indossava panni di bianco lino; aveva due occhi splendenti e belli, tali che non fanno provare mai affanno a chi li vede; aveva un viso angelico e atti aggraziati, e in mano reggeva una bella freccia acuminata. Ora torno al giovane che avevo lasciato.





Quello rimase solo e pensieroso, assai addolorato del fatto che la ninfa col viso delicato se ne era andata, e intento a rammaricarsi per il suo desiderio, dicendo: «Povero me, al quale il riposo è diventato una pena, pensando che non so dove o in quale luogo cercare [la ninfa], o con quali mezzi.





Non conosco questa fanciulla che mi ha ferito, tranne per il fatto che ho sentito che si chiamava Mensola: e mi ha lasciato qui, solo e deluso, senza nemmeno avermi visto; e almeno sapesse come io la amo, e con quale peso insopportabile Amore mi ha gravato le spalle qui per lei! Ahimè, bella Mensola, dove te ne vai, lasciando qui Africo con le sue pene?»





Poi, mettendosi Africo a sedere in quel luogo dove prima aveva visto che si era seduta la bella ninfa, nel suo petto il fuoco dell'amore si accendeva con un calore più fervido; continuando così questo gioco, nascondeva il bel viso nell'erba e baciandola diceva: - Sei proprio felice, perché oggi una bella ninfa ti ha calpestata. -




E poi diceva sospirando: «Povero me, quale malvagia fortuna o quale altro destino mi ha condotto qui oggi tra le lusinghe, perché diventassi, da lieto che ero, addolorato e misero amando una fanciulla, che mi ha messo in un cammino tale dove non ho con me alcuna guida o scorta, ma solo l'Amore e la fortuna sono con me!





Se almeno sapesse quanto è amata da me, o se mi avesse visto! Infatti credo che sarebbe spaventata, se credesse di essere desiderata da un uomo o da me; e sono certissimo che fuggirebbe quanto potrebbe, proprio come quella che odia l'uomo e si ribella a lui.





Che farò allora, povero me, poiché vedo che mostrarmi a lei sarebbe la cosa peggiore, ma lo sarebbe anche tacere, dal momento che l'ardore cresce sempre di più in me? Dunque, per avere una vita migliore, chiedo la morte, la quale porrebbe fine a un tale dolore: anche se credo che essa ci metterà poco tempo a venire, se questo fuoco non si spegnerà».



Interpretazione complessiva

  • La scena descrive il primo fortuito incontro tra il pastore Africo e la ninfa Mensola, scorta dal giovane insieme alle compagne e "spiata" da lontano, mentre egli è nascosto tra la vegetazione: l'episodio ricorda da vicino altri passi della poesia bucolica della letteratura latina e sarà a sua volta modello per descrizioni simili nella poesia colta del XV-XVI sec., a cominciare dalle Stanze di Poliziano in cui l'incontro tra Iulio e Simonetta avviene in circostanze analoghe (con la differenza che Simonetta parla a Iulio e si presenta, mentre l'analogia è che in entrambi i casi il giovane è colpito da amore e preso da passione per la fanciulla; ► TESTO: Iulio e Simonetta).
  • Il testo ricalca le forme e i modi della poesia amorosa del Due-Trecento, a cominciare dalla descrizione di Mensola che ha i classici attributi della donna-angelo stilnovista (ovvero i lunghi capelli biondi, la grazia dei modi, la lucentezza degli occhi), anche se la vicenda prelude ad un amore fisico e sensuale che porterà a una vera e propria relazione, dunque con uno sviluppo lontano da quello della letteratura cortese. La disperazione di Africo è dovuta al fatto che il giovane non sa come rivedere la ninfa e, soprattutto, che è consapevole della ritrosia delle ninfe all'amore, introducendo così la contrapposizione Diana-Venere che è al centro del poemetto e di altre opere di Boccaccio (alla fine Atlante, il mitico fondatore della città di Fiesole, libererà le ninfe dalla tirannia di Diana e le porrà sotto il "reggimento" di Venere, come nella Caccia di Diana). Di sapore già decisamente pre-umanistico il monologo amoroso pronunciato da Africo, incluso il particolare del pastore che "bacia" l'erba dove poco prima si era seduta la ninfa di cui è innamorato.
  • Il passo ha un'intonazione decisamente narrativa e dimostra la scarsa attitudine di Boccaccio alla versificazione, come conferma la struttura lineare degli endecasillabi e del periodo con scarso ricorso agli enjambements, nonché la presenza di alcuni versi "zoppicanti" o dalla scansione irregolare (es. vv. 26, 1-2, che presentano accenti in 4ª, 7ª, 10ª, oppure 36, 8 che ha una scansione fortemente atipica). Lo stile è ancora quello dei "cantari" trecenteschi, da cui Boccaccio riprende il metro (l'ottava di endecasillabi con rima ABABABCC) e che aveva già sperimentato nei due poemetti epici del periodo napoletano, il Filostrato e il Teseida.


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