Niccolò Machiavelli
L'evoluzione degli Stati
(Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 2)
Nell'analizzare la struttura politica della Repubblica di Roma antica, Machiavelli passa in rassegna le varie forme che il governo di uno Stato può assumere nel corso del tempo e ne sintetizza l'evoluzione da monarchia a tirannide, da aristocrazia ad oligarchia, infine da democrazia a oclocrazia, vale a dire il dominio della massa. Tale teoria, ripresa dalla storiografia di Polibio che l'autore conosceva forse indirettamente e a sua volta approfondita da Cicerone nei suoi trattati, dà modo a Machiavelli di teorizzare lo Stato romano come perfetto in quanto avente elementi di tutte e tre le forme "elevate" di governo ed è implicito un positivo raffronto con la Repubblica fiorentina di cui lo scrittore era stato un importante funzionario.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
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DI QUANTE SPEZIE SONO LE REPUBLICHE, E DI QUALE FU LA REPUBLICA ROMANA.
[...] Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini [1] della città di Roma, e quali accidenti alla sua perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto delle republiche dicono essere in quelle uno de’ tre stati, chiamati da loro Principato, Ottimati, e Popolare [2], e come coloro che ordinano una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi [3]: delli quali tre ne siano pessimi tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengono ancora essi a essere perniziosi. [4] Quelli che sono buoni, sono e’ soprascritti tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre dipendano; e ciascuno d’essi è in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall’uno all’altro: perché il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi [5]; il Popolare sanza difficultà in licenzioso si converte. [6] Talmente che, se uno ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio può farvi, a fare che non sdruccioli nel suo contrario, per la similitudine che ha in questo caso la virtute ed il vizio. Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini: perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono [7] un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere, cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo [8], e lo ubedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl’ingrati ed onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi contrafacessi [9]: donde venne la cognizione della giustizia. La quale cosa faceva che, avendo dipoi a eleggere uno principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che fusse più prudente e più giusto. Ma come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e non per elezione, subito cominciarono li eredi a degenerare dai loro antichi; e, lasciando l’opere virtuose, pensavano che i principi non avessero a fare altro che superare gli altri di sontuosità e di lascivia e d’ogni altra qualità di licenza: in modo che, cominciando il principe a essere odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto dal timore all’offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo nacquero, appresso, i principii delle rovine, e delle conspirazioni e congiure contro a’ principi; non fatte da coloro che fussono o timidi o deboli, ma da coloro che, per generosità, grandezza d’animo, ricchezza e nobilità, avanzavano gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo l’autorità di questi potenti, s’armava contro al principe, e, quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d’uno solo capo, constituivano di loro medesimi uno governo; e, nel principio, avendo rispetto alla passata tirannide, si governavono secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni loro commodo alla commune utilità [10]; e le cose private e le publiche con somma diligenzia governavano e conservavano. Venuta dipoi questa amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono che d’uno governo d’ottimati diventassi uno governo di pochi, sanza avere rispetto ad alcuna civilità, talché, in breve tempo, intervenne loro come al tiranno; perché, infastidita da’ loro governi, la moltitudine si fe’ ministra di qualunque disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori; e così si levò presto alcuno che, con l’aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie ricevute da quello, avendo disfatto lo stato de’ pochi e non volendo rifare quel del principe, si volsero allo stato popolare; e quello ordinarono in modo, che né i pochi potenti, né uno principe, vi avesse autorità alcuna. E perché tutti gli stati nel principio hanno qualche riverenzia, si mantenne questo stato popolare un poco, ma non molto, massime spenta che fu quella generazione che l’aveva ordinato; perché subito si venne alla licenza [11], dove non si temevano né gli uomini privati né i publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni dì mille ingiurie: talché, costretti per necessità, o per suggestione d’alcuno buono uomo, o per fuggire tale licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di grado in grado, si riviene verso la licenza, ne’ modi e per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi; perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d’uno stato propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni, e per la malignità che è ne’ tre rei. Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno che participasse di tutti, giudicandolo più fermo e più stabile; perché l’uno guarda l’altro, sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati, e il Governo Popolare. [...] Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perché, se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda [12]; perché i primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perché Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero: ma perché il fine loro fu fondare un regno e non una republica, quando quella città rimase libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E avvengaché [13] quelli suoi re perdessono l’imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de’ Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. [14] E così nacque la creazione de’ Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito [15] lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo de’ Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie; ne si diminuì l’autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato, come nei dua prossimi seguenti capitoli largamente si dimosterrà. |
[1] Quale fu la struttura politica. [2] Monarchia, aristocrazia e democrazia. [3] Pensano che siano governi di sei tipi diversi. [4] Pericolosi, nefasti. [5] Diventano oligarchia. [6] Si trasforma in dominio della massa (oclocrazia). [7] Vissero. [8] E lo elessero come capo. [9] A stabilire pene per chi contravvenisse alle leggi. [10] Mettendo ogni loro vantaggio dopo l'utilità di tutti. [11] Si giunse a una forma di governo della massa (oclocrazia). [12] Se Roma non ebbe la fortuna di avere un legislatore come Licurgo, fu però aiutata dalle circostanze. [13] E benché. [14] Che potessero mantenere la loro posizione in quello Stato. [15] Più solido. |
Interpretazione complessiva
- L'autore analizza le varie forme di governo che uno Stato può assumere nella sua storia e delinea una sorta di "evoluzione" politica che distingue tre "stadi" essenziali, ovvero il governo di uno solo (la monarchia, da lui definita "principato"), quello di pochi (l'aristocrazia, ovvero degli "ottimati") e infine quello del popolo (il "popolare", che noi diremmo "democrazia"), ciascuno dei quali rischia poi di degenerare in una forma deteriore, ovvero la tirannide, l'oligarchia (intesa come dominio tirannico di pochi nobili) e l'oclocrazia (il dominio anarchico della massa). Secondo Machiavelli questa evoluzione si snoda dalla monarchia sino all'ultimo "stadio" del regime oclocratico e trova la sua radice nell'opposizione tra chi detiene il potere, sia un solo uomo o un gruppo di uomini, e il resto della massa, dunque per lo scrittore la nascita dello Stato avviene per una sorta di conflitto sociale in cui si confrontano due diversi gruppi, di cui uno lotta per mantenere i propri privilegi e l'altro reclama diritti e partecipazione politica. Tale percorso "istituzionale" è continuo e ciclico, per cui dalla monarchia si scivola quasi sempre nel dominio della massa e da questa si ritorna fatalmente alla prima, benché molti piccoli Stati finiscano per perdere la loro indipendenza venendo sottomessi da nazioni più grandi. Machiavelli trae questa teoria dall'opera storiografica di Polibio (storico greco vissuto a Roma nel II sec. a.C.), il quale elogiava la forma di governo repubblicano di Roma come "mista" e avente elementi di tutti e tre gli Stati descritti, poiché i consoli avevano il potere dei re, il Senato quello dell'aristocrazia e i comizi popolari esercitavano una funzione parzialmente democratica. Lo scrittore moderno rielabora in parte questa teoria, che conosceva probabilmente in forma indiretta e che lo stesso Cicerone aveva trattato nel dialogo De re publica, ritrovato successivamente, riconducendo tutto al conflitto sociale tra patrizi e plebei nella Roma arcaica, che aveva portato il Senato a concedere parte del proprio potere ai tribuni della plebe e aveva creato il regime "misto" di cui parlava appunto Polibio nelle sue Storie (cfr. spec. il cap. VI). Non c'è dubbio che sullo sfondo ci sia la struttura della Repubblica di Firenze del XV-XVI sec. che Machiavelli vedeva come compromesso tra il potere "monarchico" dei Medici, rovesciati nel 1494, e quello del popolo minuto, attraverso un sistema di magistrature che venivano saldamente tenute nelle mani della media e grande borghesia cittadina.
- In tutta la sua riflessione politica Machiavelli concepisce lo Stato come dominio di pochi uomini sulla massa ed è quindi molto lontano da una visione del governo di tipo democratico, tuttavia la sua trattazione è moderna in quanto assegna alla legge una funzione di "coesione" sociale, per cui un sistema di punizioni è necessario per ordinare una città o uno Stato ed evitare che esso scivoli nella confusione, proprio come avvenne a Sparta con Licurgo e, in parte, a Roma con Romolo. È interessante osservare come in questo ragionamento l'aspetto religioso sia quasi del tutto estraneo e la legge venga vista come qualcosa di laico e terreno, come il mezzo con cui chi governa mantiene l'ordine e conserva saldo il governo, mentre in altri capitoli dell'opera la religione è descritta come instrumentum regni al pari delle altre strutture politiche, proprio come a Roma dove i rituali avevano funzione pubblica e politica (► TESTO: Religione e politica). L'autore è dunque ben distante dalla trattatistica medievale che vedeva la legge come espressione della volontà e della giustizia divina, per es. nella Monarchia di Dante (► TESTO: Papato e Impero), mentre d'altro canto egli anticipa analisi assai simili dello Stato e del governo come quella di Thomas Hobbes, che nel XVII sec. teorizzerà la necessità dello Stato assoluto quale unico mezzo per uscire dallo "stato di natura" e dalla guerra di tutti gli uomini contro tutti, per cui i sudditi sono sottomessi all'autorità del singolo.