Letteratura italiana
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Lorenzo de' Medici


Il lamento di Corinto
(Corinto, 1-87; 139-193)

Protagonista di quest'egloga di argomento "bucolico" è il pastore Corinto, che si strugge d'amore per la bella ninfa Galatea (che non ricambia i suoi sentimenti, essendo votata al culto della casta dea Diana) e si abbandona a un lamento amoroso in cui dà sfogo alla propria pena, rifacendosi a una lunga tradizione risalente almeno alle "Egloghe" di Virgilio per giungere al "Ninfale fiesolano" di Boccaccio e alla poesia pastorale del Quattrocento, che vedrà la "Arcadia" di Iacopo Sannazaro tra le opere più significative. Interessante l'invito finale a "cogliere la rosa", ovvero ad approfittare della bellezza e della gioventù quando si è in tempo, che si rifà al "Trionfo di Bacco e Arianna" e a testi di Poliziano.

► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Lorenzo de' Medici





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La luna in mezzo alle minori stelle
chiara fulgea nel ciel quieto e sereno,
quasi ascondendo lo splendor di quelle:

e ’l sonno aveva ogni animal terreno
dalle fatiche lor diurne sciolti:
e il mondo è d'ombre e di silenzio pieno.

Sol Corinto pastor ne' boschi folti
cantava per amor di Galatea
tra' faggi, e non v'è altri che l'ascolti:

né alle luci lacrimose avea
data quiete alcuna, anzi soletto
con questi versi il suo amor piangea:

— O Galatea, perché tanto in dispetto
hai Corinto pastor, che t'ama tanto?
perché vuoi tu che muoia il poveretto?

Qual sieno i mia sospiri e il tristo pianto
odonlo i boschi, e tu, Notte, lo senti,
poi ch'io son sotto il tuo stellato ammanto.

Sanza sospetto i ben pasciuti armenti
lieti si stanno nella lor quiete,
e ruminando forse erbe pallenti.

Le pecorelle ancor drento alla rete,
guardate dal can vigile, si stanno
all'aura fresca dormienti e liete.

Io piango non udito il duro affanno,
i pianti, i prieghi e le parole all'ugge:
che, se udite non son, che frutto fanno?

Deh, come innanzi agli occhi nostri fugge,
non fugge giù davanti dal pensiero!
ché poi più che presente il cor mi strugge.

Deh, non aver il cor tanto severo!
Tre lustri giá della tua casta vita
servito hai di Diana il duro impero:

non basta questo? Or dammi qualche aita,
ninfa, che se' sanza pietate alcuna.
Ma, lasso a me! non è la voce udita.

Se almen di mille udita ne fussi una!
Io so che' versi posson, se li sente,
di cielo in terra far venir la luna.

I versi fêron giá l' itaca gente
in fère trasformar; ne' verdi prati
rompono i versi il frigido serpente.

Adunque i rozzi versi e poco ornati
daremo al vento; ed or ho visto come
saranno a lei li mia pianti portati.

L'aura move degli arbor l'alte chiome,
che rendon mosse un mormorio suave,
ch'empie l'aere ed i boschi del suo nome:

se porta questo a me, non li fia grave
portar mio pianto a questa dura femmina
per gli alti monti e per le valli cave,

ov'abita Eco, che i mia pianti gemina:
o questo, o il vento a lei lo portin seco:
io so che ’l pianto in pietra non si semina.

Forse ode ella vicina in qualche speco.
Non so se sei qui presso: so ben ch'io,
fuggi dove tu vuoi, sempre son teco.

Se ’l tuo crudo voler fussi più pio,
s'io ti vedessi qui, s'io ti toccassi
le bianche mani e ’l tuo bel viso, o Dio!

se meco sopra l'erba ti posassi,
della scorza faria d'un lento salcio
una zampogna, e vorrei tu cantassi.

L'errante chiome poi strette in un tralcio,
vedrei per l'erba il candido piè movere
ballando e dare al vento qualche calcio.

Poi stanca giaceresti sotto un rovere:
io pel prato correi diversi fiori,
e sopra il viso tuo li farei piovere:

di color mille e mille vari odori,
tu ridendo faresti, dove fôro
i primi còlti, uscir degli altri fuori.

Quante ghirlande sopra i bei crin d'oro
farei, miste di fronde e di fioretti!
Tu vinceresti ogni bellezza loro.

Il mormorio di chiari ruscelletti
risponderebbe alla nostra dolcezza
e ’l canto di amorosi augelletti.

Fugga, ninfa, da te tanta durezza:
questo acerbo pensier del tuo cor caccia:
deh, non far micidial la tua bellezza!

Se delle fiere vuoi seguir la traccia,
non c'è pastor o piú robusto o dotto
a seguir fère fuggitive in caccia.

Tu nascosta starai sanza far motto
con l'arco in mano: io con lo spiedo acuto
il fèr cignale aspetterò di sotto.

[...]

S'io son ricco, tu ’l sai; ché in ogni lato
sonar senti le valle del muggito
de' buoi, e delle pecore il belato.

Latte ho fresco ad ognor, e nel fiorito
prato fragole colte, belle e rosse,
pallide ov' è il tuo viso colorito;

frutte ad ogni stagion mature e grosse;
nutrisco d'ape molte e molte milia,
né crederesti al mondo piú ne fosse;

che fanno un mèl sí dolce, ch'assimilia
l'ambrosia ch'alcun dice pascer Giove;
né sol vince le canne di Sicilia.

O ninfa, se ’l mio canto non ti move,
muovati almen quello d'augei diversi
che canton con pietose voci e nòve.

Non odi tu d'amor meco dolersi
misera Filomena, che si lagna d'altrui,
com'io di te, ne' dolci versi?

Questo sol sanza sonno m'accompagna.
Ma io ti credo movere a pietate;
tu ridi, se ’l mio pianto il terren bagna.

Dove somma bellezza e crudeltate,
è viva morte; pur mi riconforto:
non dee sempre durar la tua beltate.

L'altra mattina in un mio piccolo orto
andavo, e ’l sol surgente co' sua rai
apparia non ch' io ’l vedessi scorto.

Sonvi piantati drento alcun rosai,
a' quai rivolsi le mia vaghe ciglie,
per quel che visto non avevo mai.

Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega;
stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:

altra giovanetta si dislega
a pena dalla boccia: eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all'aer niega:

altra, cadendo, a piè il terreno infiora.
Così le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men d'un'ora.

Quando languenti e pallide vidi ire
le foglie a terra, allor mi venne a mente
che vana cosa è il giovenil fiorire.

Ogni arbore ha i sua fior: e immantenente
poi le tenere fronde al sol si spiegano,
quando rinnovellar l'aere si sente.

I picciol frutti ancor informi allegano;
che a poco a poco talor tanto ingrossano,
che pel gran peso i forti rami piegano,

né sanza gran periglio portar possano
il proprio peso; a pena regger sogliono
crescendo, ad or ad ora se l'addossano.

Viene l'autunno, e maturi si cogliono
i dolci pomi: e, passato il bel tempo,
di fior, di frutti e fronde alfin si spogliano.

Cogli la rosa, o ninfa, or che è il bel tempo.


La luna splendeva chiara
nel cielo quieto e sereno, in mezzo alle stelle minori, quasi offuscando la luce di quelle:


e il sonno aveva liberato ogni animale terreno dalle sue fatiche: e il mondo era pieno di ombre e di silenzio.

Solo il pastore Corinto nei fitti boschi cantava per amore della ninfa Galatea, tra i faggi, e nessuno lo ascolta:


e non aveva dato ancora tregua agli occhi bagnati di pianto, anzi tutto solo piangeva il suo amore con questi versi:


— O Galatea, perché disprezzi tanto il pastore Corinto, che tanto ti ama? Perché vuoi che il poveretto muoia?


I boschi odono quali siano i miei sospiri e il triste pianto, e tu, Notte, lo senti, poiché io sono sotto il tuo manto stellato.


Le greggi ben pasciute se ne stanno liete e senza timore nella loro quiete, e forse ruminano erbe pallide [alla luce lunare].

Le pecorelle stanno ancora dentro il recinto, custodite dal cane vigile, e dormono liete nell'aria fresca.


Io piango, non sentito da nessuno, per il mio duro affanno, per i pianti, le preghiere e le parole all'ombra: e che frutto danno, se non sono udite?


Ahimè, come [Galatea] fugge davanti ai nostri occhi, ma non fugge mai dal pensiero! Anzi, mi strugge il cuore più che se fosse qui presente.


Ahimè, non avere il cuore tanto crudele! Hai già servito per quindici anni della tua vita sotto le dure regole di Diana [nella castità]:


non è sufficiente? Ora aiutami in qualche modo, ninfa, che sei priva di qualsiasi pietà. Ma, povero me, la mia voce non è udita.

Se almeno una parola, delle mille che dico, fosse ascoltata! Io so che i versi possono far venire la luna da cielo in terra, se li sente.


I versi fecero un tempo trasformare gli uomini di Itaca [i compagni di Ulisse] in animali; nei verdi prati i versi fanno scoppiare il freddo serpente.

Dunque disperderò nel vento i miei versi rozzi e poco ornati; e ora ho visto come i miei pianti saranno portati da lei.


L'aria muove le alte chiome degli alberi, che, mosse, restituiscono un soave mormorio, che riempie l'aria e i boschi col suo nome [di Galatea]:

se l'aria porta questo a me, non le sarà fastidioso portare il mio pianto a questa dura donna per i molti alti e le valli curve,


dove abita Eco, che raddoppia i miei lamenti: o l'eco o il vento lo portino con sé a lei: io so che il pianto non si può seminare nella pietra.


Forse Galatea mi sente, vicina in qualche grotta. Non so se sei qua vicino: so bene che io sono sempre con te, ovunque tu voglia fuggire.


Se solo la tua crudele volontà fosse più favorevole, se io ti vedessi qui, se toccassi le tue bianche mani e il tuo bel viso, o Dio!


Se tu ti sdraiassi con me sull'erba, io con la corteccia di un morbido salice farei una zampogna e vorrei che tu cantassi.

Con le tue chiome ribelli strette in un tralcio, poi, ti vedrei muovere sull'erba col tuo candido piede, ballando e dando calci al vento.


Poi, stanca, ti sdraieresti sotto una quercia: io raccoglierei nel prato diversi fiori e te li farei piovere sul tuo viso:


tu ridendo ne faresti spuntare altri dove io ho colto i primi, di mille colori e mille profumi diversi.


Quante ghirlande intreccerei sopra i tuoi bei capelli d'oro, miste di fronde e fiorellini! Tu vinceresti ogni loro bellezza.


Il mormorio di ruscelli limpidi e il canto di uccellini in amore risponderebbero alla nostra dolcezza.

O ninfa, possa fuggire da te tanta crudeltà: caccia dal tuo cuore questo pensiero aspro: orsù, non rendere la tua bellezza mortale!


Se vuoi seguire le tracce delle fiere, non c'è pastore più robusto o più esperto nel seguire a caccia le belve in fuga.


Tu starai nascosta senza dir nulla, con l'arco in mano: io aspetterò al varco il fiero cinghiale, con la lancia aguzza.



Tu sai che sono ricco; infatti senti risuonare in ogni lato le valli del muggito dei miei buoi, e del belato delle mie pecore.


Ho sempre latte fresco e fragole raccolte nel prato fiorito, belle e rosse, che però diventan pallide a paragone del tuo viso colorato;


ho in ogni stagione frutti grossi e maturi; allevo molte migliaia d'api, né potresti credere che al mondo ce ne siano di più;


e producono un miele così dolce, che è simile all'ambrosia che, dicono, nutra Giove; e non vince solo la canna da zucchero [coltivata in Sicilia].


O ninfa, se il mio canto non ti smuove, possa smuoverti almeno quello di vari uccelli che cantano con voci nuove e pietose.

Non senti tu che la misera Filomena [l'usignolo], che si lamenta di altri, si duole con me d'amore, come io di te, nei dolci versi?


Solo questo mi accompagna senza sonno. Ma io credo di muoverti a pietà; tu ridi, se il mio pianto bagna il terreno.


Dove c'è una estrema bellezza e crudeltà, c'è una viva morte; ecco, mi riconforto: la tua bellezza non durerà per sempre.


L'altra mattina andavo in un mio piccolo orto, e il sole che sorgeva con i suoi raggi non appariva ancora, così che potessi vederlo chiaramente.


Lì dentro sono piantati alcuni roseti, ai quali rivolsi il mio sguardo avido, per quello che non avevo mai visto.


Vi erano rose bianche e rosse: alcune si aprono al sole nei loro petali; prima son chiuse, poi sembrano aprirsi e sgualcirsi:

altre, ancora giovani, escono a malapena dal bocciolo: altre ancora non aprivano i loro petali all'aria, erano chiuse:


altre, cadendo appassite, riempivano di petali il terreno ai piedi. Così le vidi nascere e morire, e vidi cessare la loro bellezza in meno di un'ora.


Quando vidi i petali cadere a terra appassiti e languidi, allora mi venne in mente che la bellezza giovanile è una cosa che non dura a lungo.


Ogni albero ha i suoi fiori: e subito poi le tenere fronde si aprono al sole, quando si sente che l'aria si rinnova [in primavera].

Portano i piccoli frutti ancora informi; ed essi poco alla volta ingrossano, piegando col loro peso i forti rami che li reggono non senza grande pericolo [di spezzarsi]; a malapena li reggono quando crescono, di momento in momento sentono che aumentano.




Viene poi l'autunno e si raccolgono i dolci frutti maturi: e, passata la bella stagione, gli alberi si spogliano infine di fiori, di frutti, di foglie. Cogli la rosa, o ninfa, ora che è la bella stagione.


Interpretazione complessiva

  • Metro: terzine di versi endecasillabi a rima concatenata, secondo lo schema dantesco. La rima ai vv. 50, 52, 54 è sdrucciola ("femmina", "gemina", "semina", leggermente imperfetta). La lingua ricalca il fiorentino letterario della tradizione e non presenta forme popolari, come nella Nencia, con la parziale eccezione di "cignale" ("cinghiale", v. 87), "drento" (metatesi per "dentro", v. 166) e alcune forme di plurale come "mia sospiri" (v. 16), "sua fior" (v. 181). Abbondante presenza di latinismi colti, ad es. "pallenti" (v. 21), "frigido" (v. 42), "speco" (v. 55), "arbore" (v. 181).
  • Il testo presenta la situazione classica della poesia bucolica in cui un pastore si strugge d'amore per una bellissima ninfa che non ricambia i suoi sentimenti, essendo votata al culto della casta dea Diana, motivo che Lorenzo riprende ampiamente dalla poesia latina (Virgilio, Ovidio...) ma anche da quella volgare del Trecento, a cominciare dal Ninfale fiesolano di Boccaccio in cui Africo ama la quindicenne Mensola e si rammarica che la ninfa faccia parte del corteo di Diana (► TESTO: Africo e Mensola). Una simile trama ricorre in tutta la poesia pastorale del XV-XVI sec., di cui si ha un esempio nell'Arcadia di Sannazaro (► TESTO: Selvaggio e Ergasto) e nell'Aminta di Tasso, una "favola boschereccia" in cui il protagonista ama, inizialmente senza fortuna, la ninfa Silvia che lo respinge per motivi assai simili a quelli di Galatea e delle altre "colleghe" della tradizione precedente. È appena il caso di osservare come la situazione sia in apparenza simile a quella presentata nella Nencia, con la differenza che qui il pastore Corinto si esprime in un linguaggio ben più elevato del rozzo Vallèra e senza alcun intento parodistico verso la letteratura cortese (► TESTO: Nencia da Barberino).
  • L'ultima parte dell'egloga presenta un invito a godere della bellezza e della gioventù prima che queste finiscano, con un richiamo evidente al motivo presente nel Trionfo di Bacco e Arianna (► VAI AL TESTO) e introducendo la descrizione delle rose nell'orto che è quasi identico nella forma alla celebre ballata di Poliziano, inclusa la presentazione dei fiori nei vari momenti del loro sviluppo (► TESTO: I' mi trovai, fanciulle): anche qui la rosa è simbolo evidente della gioventù destinata a sfiorire presto, tema ampiamente ripreso in tutta la letteratura del Cinquecento (inclusi Ariosto e Tasso nei rispettivi poemi), per cui il verso di chiusa riprende quasi letteralmente quello finale della ballata di Poliziano ("cogliàn la bella rosa del giardino") ed è un invito alla fanciulla a "farsi cogliere", con una prospettiva che qui è più convenientemente maschile. Inutile sottolineare che l'influenza di Poliziano sulla produzione di Lorenzo in questa fase è fortissima, testimoniata anche da questi rimandi testuali.


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