Torquato Tasso
Erminia tra i pastori
(Gerusalemme Liberata, VII, 1-22)
Dopo aver assistito al duello fra Tancredi e Argante dalle mura di Gerusalemme, la principessa Erminia (segretamente e infelicemente innamorata del guerriero cristiano) esce dalla città con indosso l'armatura di Clorinda, nel tentativo di recarsi al campo crociato per curare il suo amato, ma viene avvistata dalle sentinelle e messa in fuga, mentre Tancredi la insegue credendo che si tratti della donna da lui amata. Dopo una fuga precipitosa che ricorda in parte quella di Angelica in apertura del "Furioso", Erminia capita in un villaggio abitato da pastori che vivono lontani dalla guerra in uno spazio idilliaco, dove chiede e ottiene di essere ospitata per qualche tempo nella speranza (vana) di dimenticare il suo amore infelice. La permanenza di Erminia tra i pastori non nasconde però le sue origini nobili, che traspaiono inevitabilmente anche sotto i rozzi panni che la fanciulla indossa mentre porta le bestie al pascolo e munge le capre, ciò che permette all'autore di esprimere la sua polemica contro la vita delle corti in cui la principessa, e lui stesso, sono imprigionati.
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
1
Intanto Erminia infra l’ombrose piante d’antica selva dal cavallo è scòrta, né piú governa il fren la man tremante, e mezza quasi par tra viva e morta. Per tante strade si raggira e tante il corridor ch’in sua balia la porta, ch’al fin da gli occhi altrui pur si dilegua, ed è soverchio omai ch’altri la segua. 2 Qual dopo lunga e faticosa caccia tornansi mesti ed anelanti i cani che la fèra perduta abbian di traccia, nascosa in selva da gli aperti piani, tal pieni d’ira e di vergogna in faccia riedono stanchi i cavalier cristiani. Ella pur fugge, e timida e smarrita non si volge a mirar s’anco è seguita. 3 Fuggí tutta la notte, e tutto il giorno errò senza consiglio e senza guida, non udendo o vedendo altro d’intorno, che le lagrime sue, che le sue strida. Ma ne l’ora che ‘l sol dal carro adorno scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida, giunse del bel Giordano a le chiare acque e scese in riva al fiume, e qui si giacque. 4 Cibo non prende già, ché de’ suoi mali solo si pasce e sol di pianto ha sete; ma ‘l sonno, che de’ miseri mortali è co ‘l suo dolce oblio posa e quiete, sopí co’ sensi i suoi dolori, e l’ali dispiegò sovra lei placide e chete; né però cessa Amor con varie forme la sua pace turbar mentre ella dorme. 5 Non si destò fin che garrir gli augelli non sentí lieti e salutar gli albori, e mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori. Apre i languidi lumi e guarda quelli alberghi solitari de’ pastori, e parle voce udir tra l’acqua e i rami ch’a i sospiri ed al pianto la richiami. 6 Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene, che sembra ed è di pastorali accenti misto e di boscareccie inculte avene. Risorge, e là s’indrizza a passi lenti, e vede un uom canuto a l’ombre amene tesser fiscelle a la sua greggia a canto ed ascoltar di tre fanciulli il canto. 7 Vedendo quivi comparir repente l’insolite arme, sbigottír costoro; ma li saluta Erminia e dolcemente gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d’oro: «Seguite,» dice «aventurosa gente al Ciel diletta, il bel vostro lavoro, ché non portano già guerra quest’armi a l’opre vostre, a i vostri dolci carmi.» 8 Soggiunse poscia: «O padre, or che d’intorno d’alto incendio di guerra arde il paese, come qui state in placido soggiorno senza temer le militari offese?» «Figlio,» ei rispose «d’ogni oltraggio e scorno la mia famiglia e la mia greggia illese sempre qui fur, né strepito di Marte ancor turbò questa remota parte. 9 O sia grazia del Ciel che l’umiltade d’innocente pastor salvi e sublime, o che, sí come il folgore non cade in basso pian ma su l’eccelse cime, cosí il furor di peregrine spade sol de’ gran re l’altere teste opprime, né gli avidi soldati a preda alletta la nostra povertà vile e negletta. 10 Altrui vile e negletta, a me sí cara che non bramo tesor né regal verga, né cura o voglia ambiziosa o avara mai nel tranquillo del mio petto alberga. Spengo la sete mia ne l’acqua chiara, che non tem’io che di venen s’asperga, e questa greggia e l’orticel dispensa cibi non compri a la mia parca mensa. 11 Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro bisogno onde la vita si conservi. Son figli miei questi ch’addito e mostro, custodi de la mandra, e non ho servi. Cosí me ‘n vivo in solitario chiostro, saltar veggendo i capri snelli e i cervi, ed i pesci guizzar di questo fiume e spiegar gli augelletti al ciel le piume. 12 Tempo già fu, quando piú l’uom vaneggia ne l’età prima, ch’ebbi altro desio e disdegnai di pasturar la greggia; e fuggii dal paese a me natio, e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia fra i ministri del re fui posto anch’io, e benché fossi guardian de gli orti vidi e conobbi pur l’inique corti. 13 Pur lusingato da speranza ardita soffrii lunga stagion ciò che piú spiace; ma poi ch’insieme con l’età fiorita mancò la speme e la baldanza audace, piansi i riposi di quest’umil vita e sospirai la mia perduta pace, e dissi; `O corte, a Dio.’ Cosí, a gli amici boschi tornando, ho tratto i dí felici.» 14 Mentre ei cosí ragiona, Erminia pende da la soave bocca intenta e cheta; e quel saggio parlar, ch’al cor le scende, de’ sensi in parte le procelle acqueta. Dopo molto pensar, consiglio prende in quella solitudine secreta insino a tanto almen farne soggiorno ch’agevoli fortuna il suo ritorno. 15 Onde al buon vecchio dice: «O fortunato, ch’un tempo conoscesti il male a prova, se non t’invidii il Ciel sí dolce stato, de le miserie mie pietà ti mova; e me teco raccogli in cosí grato albergo ch’abitar teco mi giova. Forse fia che ‘l mio core infra quest’ombre del suo peso mortal parte disgombre. 16 Ché se di gemme e d’or, che ‘l vulgo adora sí come idoli suoi, tu fossi vago, potresti ben, tante n’ho meco ancora, renderne il tuo desio contento e pago.» Quinci, versando da’ begli occhi fora umor di doglia cristallino e vago, parte narrò di sue fortune, e intanto il pietoso pastor pianse al suo pianto. 17 Poi dolce la consola e sí l’accoglie come tutt’arda di paterno zelo, e la conduce ov’è l’antica moglie che di conforme cor gli ha data il Cielo. La fanciulla regal di rozze spoglie s’ammanta, e cinge al crin ruvido velo; ma nel moto de gli occhi e de le membra non già di boschi abitatrice sembra. 18 Non copre abito vil la nobil luce e quanto è in lei d’altero e di gentile, e fuor la maestà regia traluce per gli atti ancor de l’essercizio umile. Guida la greggia a i paschi e la riduce con la povera verga al chiuso ovile, e da l’irsute mamme il latte preme e ‘n giro accolto poi lo strige insieme. 19 Sovente, allor che su gli estivi ardori giacean le pecorelle a l’ombra assise, ne la scorza de’ faggi e de gli allori segnò l’amato nome in mille guise, e de’ suoi strani ed infelici amori gli aspri successi in mille piante incise, e in rileggendo poi le proprie note rigò di belle lagrime le gote. 20 Indi dicea piangendo: «In voi serbate questa dolente istoria, amiche piante; perché se fia ch’a le vostr’ombre grate giamai soggiorni alcun fedele amante, senta svegliarsi al cor dolce pietate de le sventure mie sí varie e tante, e dica: `Ah troppo ingiusta empia mercede diè Fortuna ed Amore a sí gran fede!’ 21 Forse averrà, se ‘l Ciel benigno ascolta affettuoso alcun prego mortale, che venga in queste selve anco tal volta quegli a cui di me forse or nulla cale; e rivolgendo gli occhi ove sepolta giacerà questa spoglia inferma e frale, tardo premio conceda a i miei martíri di poche lagrimette e di sospiri; 22 onde se in vita il cor misero fue, sia lo spirito in morte almen felice, e ‘l cener freddo de le fiamme sue goda quel ch’or godere a me non lice.» Cosí ragiona a i sordi tronchi, e due fonti di pianto da’ begli occhi elice. Tancredi intanto, ove fortuna il tira lunge da lei, per lei seguir, s’aggira. |
Intanto Erminia è condotta dal cavallo fra le piante ombrose di un'antica selva, e la sua mano tremante non governa più il freno, e lei sembra a metà tra la vita e la morte. Il cavallo che la porta a suo piacere si aggira fra tante e tante strade che alla fine sparisce dalla vista degli inseguitori, che desistono dal tenerle dietro. Come dopo una caccia lunga e faticosa i cani tornano mesti e affannati, avendo perduto la traccia della preda che si è nascosta dalla pianura in un bosco, così i cavalieri cristiani tornano stanchi e pieni d'ira e vergogna sui volti. Erminia intanto fugge e, timorosa e smarrita, non si volta a guardare se è ancora inseguita. Fuggì tutta la notte e tutto il giorno seguente vagò senza meta e senza guida, non sentendo o vedendo nulla intorno a sé che non fossero le sue lacrime o le sue grida. Ma nell'ora in cui il sole scioglie i cavalli dal suo carro dorato e si tuffa nel mare [al tramonto], Erminia giunse alle limpide acque del fiume Giordano e scese sulla riva del fiume, sdraiandosi. Non assume cibo, in quanto si nutre solo dei suoi mali e ha sete solo del suo pianto; ma il sonno, che è riposo e quiete per i miseri mortali col dolce oblio, assopì i suoi sensi e le sue pene, e spiegò sopra di lei le sue ali placide e calme; tuttavia Amore non cessa di turbare la sua pace, mentre dorme, con vari sogni. Non si svegliò finché non sentì gli uccelli cinguettare lieti e salutare l'alba, e [non sentì] il fiume e le fronde mormorare, e il vento scherzare con l'acqua e i fiori. Apre gli occhi intorpiditi e osserva quei luoghi solitari abitati dai pastori, e le sembra udire tra l'acqua e i rami una voce che la richiama ai sospiri e al pianto. Ma, mentre lei piange, i suoi lamenti sono interrotti da un suono chiaro che giunge a lei, che sembra e in effetti è di canti pastorali misto alla melodia di rozze zampogne pastorali. Si alza e si dirige a passi lenti in quella direzione e vede un uomo dai capelli bianchi che intreccia canestri alle ombre piacevoli, accanto al suo gregge, mentre ascolta il canto di tre fanciulli. Costoro, vedendo comparire qui all'improvviso quell'armatura insolita, si stupiscono; ma Erminia li saluta e li rassicura dolcemente, e scopre gli occhi e i bei capelli biondi: «Proseguite - dice - il vostro bel lavoro, fortunata gente amata da Dio, poiché queste armi non portano guerra alle vostre opere, ai vostri dolci canti». Poi aggiunse: «O padre, ora che tutt'intorno il paese brucia per il grande incendio della guerra, com'è possibile che voi stiate qui in questo pacifico luogo, senza temere gli oltraggi dei soldati?» Lui rispose: «Figlio, la mia famiglia e il mio gregge sono sempre state qui al riparo da ogni oltraggio e offesa, né lo strepito delle trombe militari ha mai turbato la pace di questo remoto angolo. Forse la grazia del Cielo salva e santifica l'umiltà degli innocenti pastori, o forse, come il fulmine non cade in pianura ma sulle cime più alte, così il furore delle spade straniere opprime solo le altere teste dei re, né la nostra vile e disprezzata povertà alletta gli avidi soldati al bottino. Povertà vile e disprezzata dagli altri, a me tanto cara, visto che non desidero ricchezze né scettro regale, né un desiderio ambizioso o avaro alberga mai nella tranquillità del mio petto. Mi disseto nell'acqua limpida [del fiume], che non temo sia intrisa di veleno, e questo gregge e l'orto producono cibi per la mia povera tavola, che non devo comperare. Infatti abbiamo pochi desideri e pochi bisogni per mantenerci in vita. Questi che ti indico e mostro sono miei figli, custodi del bestiame, e non ho servi. Così vivo qui, in questo luogo remoto e solitario, vedendo saltare i capri e i cervi snelli, e vedendo guizzare i pesci di questo fiume e gli uccellini spiegare le loro piume in cielo. Ci fu un tempo, quando l'uomo è più stolto nella giovinezza, in cui ebbi altri desideri e rifiutai di pascolare il gregge; e lasciai il mio paese natale, e vissi per qualche tempo a Menfi, e divenni anch'io uno dei ministri nella reggia, e anche se ero un semplice guardiano dei giardini vidi e conobbi la vita iniqua delle corti. Pure, lusingato da una grande speranza, sopportai per lungo tempo le cose più spiacevoli; ma quando insieme alla giovinezza venne meno la speranza e l'audace baldanza, rimpiansi la quiete di questa vita umile e sospirai la mia pace perduta, e dissi: 'O corte, addio.' Così, tornando ai miei amici boschi, ho condotto i miei giorni felici». Mentre l'uomo parla così, Erminia pende dalle sue labbra attenta e quieta; e quelle sagge parole, che le scendono al cuore, placano in parte le tempeste dei suoi sensi. Dopo aver pensato a lungo, decide di soggiornare in quel luogo remoto e solitario per qualche tempo, almeno finché la fortuna agevoli il suo ritorno [a Gerusalemme]. Allora dice al buon vecchio: «O fortunato, che un tempo hai sperimentato il male, ti auguro che il Cielo non ti privi di questa tua dolce condizione e ti prego di avere pietà delle mie sventure; e accoglimi in questo gradito albergo, così che possa giovami l'abitare con te. Forse accadrà che il mio cuore si sgravi in parte tra queste ombre del suo peso mortale. Infatti, se tu fossi desideroso di gemme e d'oro che il volgo adora come suoi idoli, potresti appagare pienamente il tuo desiderio, tante ne ho ancora con me». Quindi, versando dai begli occhi un liquido cristallino e bello a vedersi [piangendo], raccontò in parte le sue sventure, e intanto il pietoso pastore pianse insieme a lei. Poi la consola e la accoglie come se ardesse d'amore paterno, e la porta dove c'è l'anziana moglie che il Cielo gli ha data degli stessi suoi sentimenti. La fanciulla reale si veste di rozzi abiti e cinge i capelli con un ruvido velo; ma nel modo in cui guarda e in cui si muove non sembra certo un'abitante dei boschi. L'abito vile non copre la nobile luce e tutto ciò che c'è in lei di altero e cortese, e la sua maestà regia traspare fuori anche negli atti e nei gesti umili che compie. Porta il gregge al pascolo e lo riporta con la povera verga all'ovile, e spreme il latte dalle mammelle pelose [munge le bestie], e poi lo fa cagliare girandolo insieme [ne ricava il formaggio]. Spesso, quando le pecorelle giacevano sdraiate all'ombra nel caldo dell'estate, Erminia scrisse il nome amato [di Tancredi] in mille forme sulla corteccia dei faggi e degli allori, e incise su mille piante gli esiti negativi dei suoi infelici amori, e rileggendo poi le sue parole rigò di belle lacrime le guance. Quindi diceva piangendo: «Serbate tra voi questa dolorosa storia, amiche piante; perché se mai accadrà che qualche amante fedele soggiorni alla vostra piacevole ombra, senta svegliarsi in cuore una dolce pietà per le mie sventure così mutevoli e numerose, e dica: 'Ah, la Fortuna e l'Amore diedero una ricompensa troppo ingiusta e crudele a una fedeltà così grande!' Forse accadrà, se il Cielo benevolo ascolta con affetto le preghiere dei mortali, che capiti talvolta in queste selve anche colui [Tancredi] al quale ora forse non importa nulla di me; e rivolgendo gli occhi dove giacerà sepolto questo mio corpo malato e fragile, conceda quale premio tardivo alle mie pene poche lacrime e sospiri; per cui, se in vita il cuore fu infelice, possa almeno essere felice nella morte lo spirito, e le mie ceneri fredde possano godere delle sue fiamme [del suo amore] quello che ora non è lecito a me godere». Così parla ai tronchi che non possono udirla e fa uscire dai begli occhi due fonti di pianto. Intanto Tancredi, per seguire lei, si aggira dove la Fortuna lo attira lontano da lei. |
Interpretazione complessiva
- L'episodio rappresenta uno dei rari intermezzi narrativi del poema e dà modo all'autore di aprire una parentesi "idillica" tra gli orrori della guerra, attraverso la figura mitizzata dei pastori: essi vivono in uno spazio che pare fuori dalla storia e sono immuni dalla violenza del conflitto, tanto che la loro condizione sembra ad Erminia invidiabile e la fanciulla decide di trascorrere in mezzo a loro un periodo di tempo, nella speranza di dimenticare il suo amore infelice per Tancredi. L'intermezzo dà anche modo a Tasso di polemizzare con la vita di corte, che il vecchio pastore ha conosciuto in gioventù e che giudica negativamente, specie per gli odî e le invidie che dividono i cortigiani (la cosa è accennata in modo indiretto col riferimento all'acqua del fiume, che ora può bere senza timore che sia cosparsa "di venen", che sia avvelenata). La polemica di Tasso è autobiografica, in quanto anch'egli prova insofferenza per l'ambiente rigido e oppressivo della corte che non a caso contrappone al mondo idillico dei pastori, una sorta di mitica "età dell'oro" in cui non esiste il concetto di onore ed è possibile vivere liberamente, anche se qui è assente l'aspetto amoroso presente invece nell'Aminta (► TESTO: O bella età de l'oro). La critica alla vita di corte era già presente nell'opera di Ariosto, tanto nelle Satire (► TESTO: La vita del cortigiano) quanto nel Furioso (► TESTO: Astolfo sulla Luna).
- Il personaggio di Erminia riveste un ruolo complementare a quello del pastore nella polemica contro la vita di corte, in quanto la fanciulla (nobile principessa e perciò parte integrante di quel mondo) può abbandonare momentaneamente il proprio ambiente sociale per una specie di "vacanza" tra i pastori, ma l'autore chiarisce che indossare panni rozzi e svolgere umili occupazioni non fanno di lei una vera pastorella, ciò che "d’altero e di gentile" c'è in lei traspare in ogni caso e ne rivela la reale natura. Tasso sottolinea che chi nasce e vive nella corte ne è in qualche misura prigioniero, non può dire "O corte, a Dio" come ha fatto il pastore, e la cosa vale naturalmente per lui stesso che, pur mal sopportando le restrizioni della vita nobiliare, non se ne può sottrarre. Erminia mostra oltretutto di non aver compreso sino in fondo le parole del vecchio, dal momento che gli offre oro e gemme a compenso della sua ospitalità, mentre lui ha appena detto di non avere alcun desiderio di tal genere (i due parlano linguaggi diversi, come diverso è il mondo cui appartengono).
- La permanenza di Erminia tra i pastori non lenisce affatto le sue pene amorose e la fanciulla passa il suo tempo incidendo il nome di Tancredi sulla corteccia degli alberi, come pure la storia del suo amore non corrisposto, con una ripresa dichiarata del passo del Furioso in cui Orlando legge i nomi di Angelica e Medoro sugli alberi e inizia a impazzire (► TESTO: La follia di Orlando). Tasso imita Ariosto anche quando attribuisce a Erminia una sorta di "madrigale" con cui si rivolge alle piante pregandole di offrire riparo ai viandanti e di raccontare la sua storia, fatto che ricorda i versi incisi da Medoro all'ingresso della grotta (con la differenza che in quel caso si trattava di un amore felice e il saraceno ringraziava gli elementi del paesaggio per aver accolto lui e Angelica quali amanti). Vi è poi una chiara imitazione petrarchesca allorché Erminia si augura di essere sepolta dopo la morte in quel luogo e che Tancredi possa piangere sulla sua tomba (► TESTO: Chiare, fresche et dolci acque), benché la situazione sia rovesciata rispetto alla canzone di Petrarca e qui l'autrice dei versi sia una donna, mentre è analogo il fatto che in entrambi i casi l'amore non è corrisposto ed è fonte di sofferenza.
- La fuga iniziale di Erminia ricorda volutamente quella di Angelica all'inizio del Furioso, con la principessa del Catai che giungeva anche lei in un locus amoenus dove, però, incontrava il re Sacripante e metteva in atto le sue astuzie amorose, mentre diverso è il destino del personaggio di Tasso. Erminia inoltre indossa l'armatura sottratta a Clorinda per lasciare Gerusalemme, che inizialmente spaventa i pastori, anche se la fanciulla mostra subito "i bei crin d’oro" e si dichiara del tutto inoffensiva; risulta strano, a questo proposito, che il pastore la chiami poi "figlio" (ott. 9, v. 5), anche se forse è solo un modo per rispondere all'epiteto "padre" che Erminia gli ha rivolto (a meno che il pastore continui a credere che lei sia un guerriero, cosa meno probabile).
- Le parole che Erminia rivolge al pastore (ott. 15) quando lo chiama "O fortunato" riecheggiano Virgilio, Ecl., I.46 (Fortunate senex! Ergo tua rura manebunt: "O vecchio fortunato, dunque i campi resteranno tuoi"), in cui Melibeo si rallegra con Titiro in quanto a lui è permesso restare sul suo podere e non è costretto ad andarsene; Virgilio è citato anche nell'ott. 10 (" l’orticel dispensa / cibi non compri a la mia parca mensa"), che si rifà a Georg., IV.133 (dapibus mensas onerabat inemptis: "riempiva la tavola con cibi non comperati"), nel quadro di una rappresentazione decisamente idilliaca della vita pastorale contrapposta a quella malsana delle corti (il poeta latino celebrava il vecchio di Corico, che viveva felicemente senza essere ricco). Il brano virgiliano viene citato anche nel dialogo Il padre di famiglia, in cui il gentiluomo piemontese che ospita Tasso sottolinea la povertà delle vivande della sua tavola che, tuttavia, sono frutto del lavoro e della coltivazione dei suoi campi, in un quadro fortemente idillico della vita in campagna (► TESTO: Il padre di famiglia). Cfr. anche Georg., II.458-459 (O fortunatos nimium, sua si bona norint, / agricolas: "O contadini fin troppo fortunati, se solo conoscessero i loro beni"), in cui la vita sana degli agricoltori è detta migliore di quella degli abitanti delle città.