Ludovico Ariosto
La felicità delle piccole cose
(Satire, III)
Scritta nel 1518 pochi mesi dopo essere passato dal servizio del cardinale Ippolito a quello del duca Alfonso d'Este, la satira (indirizzata ad Annibale Malaguzzi che gli chiedeva notizie) svolge una serie di riflessioni, ironiche fino a un certo punto, sull'ansia di molti uomini nel ricercare onori e ricchezze, salvo poi ritrovarsi col classico pugno di mosche in mano in quanto la "ruota di Fortuna" gira in modo instancabile e quasi mai compensa in modo adeguato chi spera in essa. Molto meglio una vita modesta che sa accontentarsi di piccole cose, foss'anche una "rapa" cotta in casa propria e preferibile a cibi raffinati ottenuti grazie al servizio dei potenti, perché (detto con mediocrità oraziana) le ricchezze non valgono la pena che danno per conquistarle.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
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A MESSER ANNIBALE MALAGUCIO
Poi che, Annibale, intendere vuoi come la fo col duca Alfonso, e s’io mi sento più grave o men de le mutate some; perché, s’anco di questo mi lamento, tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto, o ch’io son di natura un rozzon lento: senza molto pensar, dirò di botto che un peso e l’altro ugualmente mi spiace, e fòra meglio a nessuno esser sotto. Dimmi or c’ho rotto il dosso e, se ’l ti piace, dimmi ch’io sia una rózza, e dimmi peggio: insomma esser non so se non verace. Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio Daria mi partorì, facevo il giuoco che fe’ Saturno al suo ne l’alto seggio, sì che di me sol fosse questo poco ne lo qual dieci tra frati e serocchie è bisognato che tutti abbian luoco, la pazzia non avrei de le ranocchie fatta già mai, d’ir procacciando a cui scoprirmi il capo e piegar le ginocchie. Ma poi che figliolo unico non fui, né mai fu troppo a’ miei Mercurio amico, e viver son sforzato a spese altrui; meglio è s’appresso il Duca mi nutrico, che andare a questo e a quel de l’umil volgo accattandomi il pan come mendico. So ben che dal parer dei più mi tolgo, che ’l stare in corte stimano grandezza, ch’io pel contrario a servitù rivolgo. Stiaci volentier dunque chi la apprezza; fuor n’uscirò ben io, s’un dì il figliuolo di Maia vorrà usarmi gentilezza. Non si adatta una sella o un basto solo ad ogni dosso; ad un non par che l’abbia, all’altro stringe e preme e gli dà duolo. Mal può durar il rosignuolo in gabbia, più vi sta il gardelino, e più il fanello; la rondine in un dì vi mor di rabbia. Chi brama onor di sprone o di capello, serva re, duca, cardinale o papa; io no, che poco curo questo e quello. In casa mia mi sa meglio una rapa ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco e mondo, e spargo poi di acetto e sapa, che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio; e così sotto una vil coltre, come di seta o d’oro, ben mi corco. E più mi piace di posar le poltre membra, che di vantarle che alli Sciti sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre. Degli uomini son varii li appetiti: a chi piace la chierca, a chi la spada, a chi la patria, a chi li strani liti. Chi vuole andare a torno, a torno vada: vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; a me piace abitar la mia contrada. Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna, quel monte che divide e quel che serra Italia, e un mare e l’altro che la bagna. Questo mi basta; il resto de la terra, senza mai pagar l’oste, andrò cercando con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra; e tutto il mar, senza far voti quando lampeggi il ciel, sicuro in su le carte verrò, più che sui legni, volteggiando. Il servigio del Duca, da ogni parte che ci sia buona, più mi piace in questa: che dal nido natio raro si parte. Per questo i studi miei poco molesta, né mi toglie onde mai tutto partire non posso, perché il cor sempre ci resta. Parmi vederti qui ridere e dire che non amor di patria né de studi, ma di donna è cagion che non voglio ire. Liberamente te ’l confesso: or chiudi la bocca, che a difender la bugia non volli prender mai spada né scudi. Del mio star qui qual la cagion si sia, io ci sto volentier; ora nessuno abbia a cor più di me la cura mia. S’io fossi andato a Roma, dirà alcuno, a farmi uccellator de benefici, preso alla rete n’avrei già più d’uno; tanto più ch’ero degli antiqui amici del papa, inanzi che virtude o sorte lo sublimasse al sommo degli uffici; e prima che gli aprissero le porte i Fiorentini, quando il suo Giuliano si riparò ne la feltresca corte, ove col formator del cortigiano, col Bembo e gli altri sacri al divo Appollo, facea l’essilio suo men duro e strano; e dopo ancor, quando levaro il collo Medici ne la patria, e il Gonfalone, fuggendo del Palazzo, ebbe il gran crollo; e fin che a Roma se andò a far Leone, io gli fui grato sempre, e in apparenza mostrò amar più di me poche persone; e più volte, e Legato et in Fiorenza, mi disse che al bisogno mai non era per far da me al fratel suo differenza. Per questo parrà altrui cosa leggiera che, stando io a Roma, già m’avesse posta la cresta dentro verde e di fuor nera. A chi parrà così farò risposta con uno essempio: leggilo, che meno leggerlo a te, che a me scriverlo, costa. Una stagion fu già, che sì il terreno arse, che ’l Sol di nuovo a Faetonte de’ suoi corsier parea aver dato il freno; secco ogni pozzo, secca era ogni fonte; li rivi e i stagni e i fiumi più famosi tutti passar si potean senza ponte. In quel tempo, d’armenti e de lanosi greggi io non so s’i’ dico ricco o grave, era un pastor fra gli altri bisognosi, che poi che l’acqua per tutte le cave cercò indarno, si volse a quel Signore che mai non suol fraudar chi in lui fede have; et ebbe lume e inspirazion di core, ch’indi lontano troveria, nel fondo di certa valle, il desiato umore. Con moglie e figli e con ciò ch’avea al mondo là si condusse, e con gli ordegni suoi l’acqua trovò, né molto andò profondo. E non avendo con che attinger poi, se non un vase picciolo et angusto, disse: "Che mio sia il primo non ve annoi; di mógliema il secondo; e ’l terzo è giusto che sia de’ figli, e il quarto, e fin che cessi l’ardente sete onde è ciascuno adusto: li altri vo’ ad un ad un che sien concessi, secondo le fatiche, alli famigli che meco in opra a far il pozzo messi. Poi su ciascuna bestia si consigli, che di quelle che a perderle è più danno inanzi all’altre la cura si pigli". Con questa legge un dopo l’altro vanno a bere; e per non essere i sezzai, tutti più grandi i lor meriti fanno. Questo una gazza, che già amata assai fu dal padrone et in delizie avuta, vedendo et ascoltando, gridò: "Guai! Io non gli son parente, né venuta a fare il pozzo, né di più guadagno gli son per esser mai ch’io gli sia suta; veggio che dietro alli altri mi rimagno: morò di sete, quando non procacci di trovar per mio scampo altro rigagno". Cugin, con questo essempio vuo’ che spacci quei che credon che ’l Papa porre inanti mi debba a Neri, a Vanni, a Lotti e a Bacci. Li nepoti e i parenti, che son tanti, prima hanno a ber; poi quei che lo aiutaro a vestirsi il più bel de tutti i manti. Bevuto ch’abbian questi, gli fia caro che beano quei che contra il Soderino per tornarlo in Firenze si levaro. L’un dice: "Io fui con Pietro in Casentino, e d’esser preso e morto a risco venni". "Io gli prestai danar", grida Brandino. Dice un altro: "A mie spese il frate tenni uno anno, e lo rimessi in veste e in arme, di cavallo e d’argento gli sovenni". Se, fin che tutti beano, aspetto a trarme la voluntà di bere, o me di sete, o secco il pozzo d’acqua veder parme. Meglio è star ne la solita quïete, che provar se gli è ver che qualunque erge Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete. Ma sia ver, se ben li altri vi sommerge, che costui sol non accostasse al rivo che del passato ogni memoria absterge. Testimonio sono io di quel ch’io scrivo: ch’io non l’ho ritrovato, quando il piede gli baciai prima, di memoria privo. Piegossi a me da la beata sede; la mano e poi le gote ambe mi prese, e il santo bacio in amendue mi diede. Di mezzo quella bolla anco cortese mi fu, de la quale ora il mio Bibiena espedito m’ha il resto alle mie spese. Indi col seno e con la falda piena di speme, ma di pioggia molle e brutto, la notte andai sin al Montone a cena. Or sia vero che ’l Papa attenga tutto ciò che già offerse, e voglia di quel seme che già tanti anni i’ sparsi, or darmi il frutto; sie ver che tante mitre e dïademe mi doni, quante Iona di Cappella alla messa papal non vede insieme; sia ver che d’oro m’empia la scarsella, e le maniche e il grembio, e, se non basta, m’empia la gola, il ventre e le budella; serà per questo piena quella vasta ingordigia d’aver? rimarrà sazia per ciò la sitibonda mia cerasta? Dal Marocco al Catai, dal Nilo in Dazia, non che a Roma, anderò, se di potervi saziare i desiderii impetro grazia; ma quando cardinale, o de li servi io sia il gran Servo, e non ritrovino anco termine i desiderii miei protervi, in ch’util mi risulta essermi stanco in salir tanti gradi? meglio fòra starmi in riposo o affaticarmi manco. Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora e che inesperta era la gente prima e non eran l’astuzie che sono ora, a piè d’un alto monte, la cui cima parea toccassi il cielo, un popul, quale non so mostrar, vivea ne la val ima; che più volte osservando la inequale luna, or con corna or senza, or piena or scema, girar il cielo al corso naturale; e credendo poter da la suprema parte del monte giungervi, e vederla come si accresca e come in sé si prema; chi con canestro e chi con sacco per la montagna cominciar correr in su, ingordi tutti a gara di volerla. Vedendo poi non esser giunti più vicini a lei, cadeano a terra lassi, bramando in van d’esser rimasi giù. Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi, credendo che toccassero la luna, dietro venian con frettolosi passi. Questo monte è la ruota di Fortuna, ne la cui cima il volgo ignaro pensa ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna. Se ne l’onor si trova o ne la immensa ricchezza il contentarsi, i’ loderei non aver, se non qui, la voglia intensa; ma se vediamo i papi e i re, che dèi stimiamo in terra, star sempre in travaglio, che sia contento in lor dir non potrei. Se di ricchezze al Turco, e s’io me agguaglio di dignitate al Papa, et ancor brami salir più in alto, mal me ne prevaglio. Convenevole è ben ch’i’ ordisca e trami di non patire alla vita disagio, che più di quanto ho al mondo è ragion ch’io ami. Ma se l’uomo è sì ricco che sta ad agio di quel che la natura contentarse dovria, se fren pone al desir malvagio; che non digiuni quando vorria trarse l’ingorda fame, et abbia fuoco e tetto se dal freddo o dal sol vuol ripararse; né gli convenga andare a piè, se astretto è di mutar paese; et abbia in casa chi la mensa apparecchi e acconci il letto, che mi può dare o mezza o tutta rasa la testa più di questo? ci è misura di quanto puon capir tutte le vasa. Convenevole è ancor che s’abbia cura de l’onor suo; ma tal che non divenga ambizïone e passi ogni misura. Il vero onore è ch’uom da ben te tenga ciascuno, e che tu sia; che, non essendo, forza è che la bugia tosto si spenga. Che cavalliero o conte o reverendo il populo te chiami, io non te onoro, se meglio in te che ’l titol non comprendo. Che gloria ti è vestir di seta e d’oro, e, quando in piazza appari o ne la chiesa, ti si lievi il capuccio il popul soro; poi dica dietro: "Ecco che diede presa per danari a’ Francesi Porta Giove che il suo signor gli avea data in difesa"? Quante collane, quante cappe nuove per dignità si comprano, che sono publici vituperii in Roma e altrove! Vestir di romagnuolo et esser bono, al vestir d’oro et aver nota o macchia di baro o traditor sempre prepono. Diverso al mio parere il Bomba gracchia, e dice: "Abb’io pur roba, e sia l’acquisto o venuto pel dado o per la macchia: sempre ricchezze riverire ho visto più che virtù; poco il mal dir mi nòce: se riniega anco e si biastemia Cristo". Pian piano, Bomba; non alzar la voce: biastemian Cristo li uomini ribaldi, peggior di quei che lo chiavaro in croce; ma li onesti e li buoni dicon mal di te, e dicon ver; che carte false e dadi ti dànno i beni c’hai, mobili e saldi. E tu dài lor da dirlo, perché radi più di te in questa terra straccian tele d’oro e broccati e veluti e zendadi. Quel che devresti ascondere, rivele: a’ furti tuoi, che star dovrian di piatto, per mostrar meglio, allumi le candele: e dài materia ch’ogni savio e matto intender vuol come ville e palazzi dentro e di fuori in sì pochi anni hai fatto, e come così vesti e così sguazzi; e rispondere è forza, e a te è avviso esser grande uomo, e dentro ne gavazzi. Pur che non se lo veggia dire in viso, non stima il Borna che sia biasmo, s’ode mormorar dietro che abbia il frate ucciso. Se bene è stato in bando un pezzo, or gode l’ereditate in pace, e chi gli agogna mal, freme indarno e indarno se ne rode. Quello altro va se stesso a porre in gogna facendosi veder con quella aguzza mitra acquistata con tanta vergogna. Non avendo più pel d’una cuccuzza, ha meritato con brutti servigi la dignitate e ’l titolo che puzza a’ spirti umani, alli celesti e a’ stigi. |
Poiché, Annibale, vuoi sapere come me la passo col duca Alfonso e se sento maggiore o minore il peso di aver cambiato padrone; perché, se mi lamento anche di questo, tu mi dirai che ho il garrese rotto o che sono per natura un ronzinaccio lento: senza pensarci molto, dirò subito che entrambi i pesi mi spiacciono in egual misura, e sarebbe meglio non sottostare a nessuno. Adesso dimmi che ho la schiena rotta e, se vuoi, dimmi che sono un ronzino e peggio: insomma, non posso evitare di essere sincero. Infatti se a mio padre, non appena mia madre Daria mi partorì a Reggio Emilia, avessi fatto lo scherzo che Saturno fece al suo [Urano] nell'alto trono [lo evirò], cosicché fosse solo mia l'eredità a cui devono attingere in dieci tra fratelli e sorelle, non avrei mai fatto la pazzia delle ranocchie, andando a cercare qualcuno cui scoprire il capo e piegare le ginocchia. Ma poiché non son figlio unico e Mercurio non fu mai molto amico della mia famiglia [non siamo ricchi], e devo per forza vivere col denaro degli altri; è meglio si mi nutro presso il duca, piuttosto che andare da questo e quello fra l'umile volgo, procacciandomi il pane come un mendicante. So bene di dissentire dall'opinione comune, poiché molti pensano che sia una grandezza vivere a corte, mentre io la considero una servitù. Ci stia dunque volentieri chi la apprezza; io ne uscirò fuori, se un giorno il figlio di Maia [Mercurio, dio dei commerci] vorrà essere generoso con me. Una sola sella o un solo basto non si adatta a tutte le schiene; ad uno non sembra di averla, all'altro stringe, lo schiaccia e gli fa male. L'usignolo sta male in gabbia, ci sta meglio il cardellino e più ancora il fanello; la rondine vi muore di rabbia in un giorno. Chi desidera l'onore nobiliare o ecclesiastico, serva pure re, duchi, cardinali o papi; io no, infatti mi curo poco dell'uno e dell'altro. Preferisco una rapa cotta in casa mia, infilzata su uno stecco e pulita, e poi cosparsa di aceto e mosto, piuttosto che tordi, starne o cinghiali alla mensa altrui; e mi corico altrettanto bene sotto una povera coperta, che non sotto una di seta o d'oro. E preferisco far riposare le mie stanche membra che non vantarmi che siano state presso gli Sciti, gli Indiani, gli Etiopi e altrove. Gli uomini hanno desideri diversi: ad alcuni piace la chierica [la carriera ecclesiastica], ad altri la spada, ad alcuni la patria e ad altri i lidi stranieri. Chi vuole viaggiare, viaggi: veda l'Inghilterra, l'Ungheria, la Francia e la Spagna; a me piace abitare nella mia strada. Ho già visto Toscana, Lombardia, Romagna, quei monti che dividono l'Italia [gli Appennini] e quelli che la cingono [le Alpi], ed entrambi i mari che la bagnano [Tirreno e Adriatico]. Questo mi basta; il resto del mondo, senza pagare alberghi, lo visiterò con Tolomeo [sull'atlante], sia il mondo in pace o in guerra; e vedrò tutto il mare al sicuro sulle carte, senza far voti quando c'è una tempesta, piuttosto che viaggiando in nave. Il servizio al duca, tra tutti i vantaggi che presenta, mi piace soprattutto in questo: che ci si allontana rare volte da casa. Per questo egli disturba poco i miei studi letterari, né può togliermi ciò che mi impedisce di partire del tutto, perché il mio cuore resta sempre qui. Mi sembra di vederti qui ridere e dire che la vera ragione per cui non voglio andar via non è l'amor di patria o degli studi, ma di una donna. Te lo confesso senz'altro: ora chiudi la bocca, visto che per difendere le mie bugie non ho mai voluto prendere la spada né lo scudo. Quale che sia la ragione del mio stare qui, io ci sto volentieri; nessuno si prenda più a cuore di me le mie preoccupazioni. Se io fossi andato a Roma, dirà qualcuno, a ricercare i benefici dei potenti, ne avrei già ottenuto parecchi; tanto più che ero uno degli antichi amici del papa [Leone X], prima che la virtù o la sorte lo innalzasse alla più alta dignità; e prima che i Fiorentini gli riaprissero le porte [lo riammettessero in città], quando suo fratello Giuliano si riparò nella corte dei Montefeltro a Urbino, dove fece il suo esilio meno duro e ostile insieme al compositore del "Cortegiano" [Castiglione], a Bembo e agli altri autori consacrati ad Apollo; e dopo ancora, quando i Medici tornarono in patria [nel 1512] e la Repubblica crollò miseramente, con la fuga del Gonfaloniere [Pier Soderini] dal Palazzo della Signoria; e finché andò a Roma a diventare Leone X, io gli fui sempre gradito, e in apparenza sembrò amare poche persone più di me; e più volte, da Legato pontificio e a Firenze, mi disse che non avrebbe mai fatto differenza tra me e suo fratello. Per questo a qualcuno sembrerà facile che, stando io a Roma, lui mi avesse già insignito del copricapo vescovile. A chi sembrerà così, darò una risposta con un esempio: leggilo, poiché a te costa meno fatica leggerlo che a me scriverlo. Ci fu una stagione in cui il terreno arse a tal punto, che il Sole pareva aver affidato nuovamente a Fetonte la guida dei suoi cavalli; ogni pozzo, ogni fonte era in secca; i ruscelli, gli stagni, i fiumi più famosi si potevano tutti guadare senza ponte. A quel tempo c'era un pastore bisognoso come altri, non saprei dire se ricco o gravato di mandrie e greggi di ovini, che dopo aver cercato invano l'acqua per tutte le cave si rivolse a quel Signore [Dio] che non suole mai imbrogliare chi ha fede in lui; e ricevette in cuore l'ispirazione che poco lontano da lì avrebbe trovato l'acqua desiderata, in fondo a una certa valle. Si recò laggiù con la moglie, i figli e tutto ciò che possedeva, e scavando coi suoi attrezzi trovò l'acqua, senza andare molto in profondità. E non avendo nulla con cui attingerla se non un vaso piccolo e stretto, disse: "Non vi dispiaccia se io sarò il primo a bere, mentre la seconda sarà mia moglie, quindi sarà il turno dei miei figli, almeno finché avremo placato la sete dalla quale siamo tormentati: il resto dell'acqua voglio che sia distribuito un po' per ciascuno ai servi, secondo la fatica che hanno fatto per costruire il pozzo insieme a me. Poi rifletteremo su quali bestie dovranno essere abbeverate, poiché dovremo preoccuparci anzitutto di quelle che sarebbe più dannoso perdere". Stabilite queste regole, vanno uno dopo l'altro a bere; e per non essere gli ultimi della fila, tutti esagerano i propri meriti. Una gazza, un tempo molto amata e vezzeggiata dal padrone, vedendo e sentendo tutto ciò, gridò: "Povera me! Io non sono parente del pastore, non ho collaborato a scavare il pozzo, non gli sono di guadagno più che non fossi mai stata con lui; vedo che rimango dietro agli altri: morirò di sete, a meno che non mi dia da fare per trovare un altra fonte d'acqua per sopravvivere". Cugino, con questo esempio ti invito a non dar retta a quelli che credono che il papa debba preferire me a Neri, Vanni, Lotti e Bacci [famose famiglie fiorentine]. Prima devono bere i suoi nipoti e parenti, che son numerosi; poi quelli che l'aiutarono a rivestirsi del più bello di tutti i mantelli [a diventare papa]. Dopo che avranno bevuto questi, vorrà che bevano quelli che si sono attivati per farlo tornare a Firenze contro Pier Soderini. Uno dice: "Io sono stato con Pietro de' Medici nel Casentino, e ho rischiato di essere catturato e ucciso". "Io gli ho prestato denaro," grida Brandino [il sarto di Giovanni de' Medici]. Un altro [F. Maria della Rovere] dice: "Io mantenni a mie spese il fratello [Giuliano] per un anno, e gli donai vesti e armi, aiutandolo con cavalli e argento." Se aspetto che tutti bevano prima che arrivi il mio turno, o io morirò di sete o vedrò il pozzo disseccato. Preferisco stare nella mia solita tranquillità, piuttosto che sperimentare se è vero che chiunque sia innalzato dalla Fortuna, venga prima immerso nel fiume Lete [dimenticandosi degli amici]. Ma ammettiamo pure che gli altri vi siano immersi e solo papa Leone non si accosti al fiume che cancella ogni ricordo del passato. Io sono testimone di ciò che scrivo: quando gli ho recato i miei omaggi quale papa, non l'ho trovato privo di memoria. Si chinò verso di me dal soglio pontificio; mi prese la mano e poi entrambe le guance, dandomi un bacio santo su ambedue. Mi fece grazia della metà delle spese di quella bolla [relativa ad alcuni benefici ecclesiastici], di cui il mio amico Bibbiena ora mi ha chiesto di pagare l'altra metà. Quindi me ne andai col seno e la falda della veste piena di speranza, ma sporco e bagnato di pioggia me ne andai a cenare all'albergo di Montone. Ammettiamo pure che il papa mantenga tutte le sue promesse, e che voglia darmi il frutto di quel seme che ho sparso per tanti anni [che mi ricompensi per i miei servigi]; ammettiamo che mi doni tante mitre e diademi quanti il Giona della Cappella Sistina non vede insieme neppure alla messa papale; sia pur vero che mi riempia d'oro la borsa e le maniche e il grembiule, e, se non basta, mi riempia la gola, il ventre e le budella; forse per questo sarà soddisfatta la mia enorme ingordigia di ricchezze? sarà saziata per questo la mia assetata cerasta [simbolo di ingordigia]? Andrò dal Marocco alla Cina, dal Nilo fino in Dacia, non solo a Roma, se otterrò la grazia per poter saziare i miei desideri; ma quando sarò cardinale, oppure il servo dei servi di Dio [papa], e i miei sfacciati desideri non trovino fine, a che mi sarà servito essermi stancato a salire tanti scalini? sarebbe meglio riposare o affaticarmi di meno. Nel tempo in cui il mondo era stato da poco creato e i popoli primitivi erano inesperti, non essendoci le astuzie odierne, un popolo di cui non so il nome viveva nella valle ai piedi di un alto monte, la cui vetta sembrava toccare il cielo; e osservando più volte la luna che cambiava, ora con le corna ora senza [durante le fasi], ora piena ora nuova, mentre ruotava secondo il suo corso naturale; e credendo di poterci arrivare dalla cima del monte, e vedere come essa cresca e come decresca; tutti correvano sulla montagna, chi con un canestro, chi con un sacco, tutti smaniosi di raggiungerla. Vedendo poi che non erano arrivati più vicini ad essa, cadevano stanchi a terra, desiderando invano di esser rimasti a valle. Quelli che dalla valle li vedevano in alto, credendo che toccassero la luna, li seguivano a passi affrettati. Questo monte è la ruota della Fortuna, sulla cui cima il popolo ignorante pensa che ci sia ogni pace, invece non ce n'è nessuna. Se si trovasse la contentezza nell'onore o nell'immensa ricchezza, allora io loderei il fatto di concentrare solo qui le proprie ambizioni; ma poiché vediamo i papi e i re, che riteniamo degli dei sulla terra, che son sempre tormentati, non potrei dire di cosa essi si accontentino. Se io ottenessi le ricchezze del Sultano e gli onori del papa, e poi bramassi di salire ancor più in alto, ciò mi causerebbe solo dolore. Mi conviene darmi da fare affinché la mia vita non sia disagiata, poiché devo amare essa più di tutto quel che c'è al mondo. Ma se un uomo è tanto ricco da poter stare in agio e accontentarsi di quanto gli dà la natura, se mette un freno ai desideri sfrenati; se non deve digiunare quando vuole sfamarsi, e ha una casa e un focolare se vuole ripararsi dal freddo o dal sole; se non deve andare a piedi, qualora debba cambiare paese, e ha in casa chi gli prepara da mangiare e gli sistema il letto, cosa otterrò più di questo, se anche mi facessi rasare la testa in tutto o solo a metà? Ogni vaso può contenere solo in base alla sua capacità. È conveniente che ognuno curi il proprio onore; ma non che diventi una ambizione tale da eccedere ogni misura. Il vero onore è essere considerati da tutti un uomo perbene, ed esserlo; poiché se non lo sei, la candela si spegnerà presto [la verità verrà fuori]. Se il popolo ti chiama cavaliere, conte o reverendo, io non ti onoro se la cosa migliore che vedo in te è il titolo. Che motivo di gloria è rivestirti di seta e d'oro, e il fatto che il popolo ignaro si levi il cappuccio davanti a te quando appari in piazza e in chiesa, se poi ti dice dietro: "Ecco colui che per denaro consegnò ai Francesi la Porta Giovia, che il suo signore gli aveva dato da difendere"? Quante collane, quante cappe nuove si comprano per essere degni, mentre a Roma e altrove sono pubbliche vergogne! Io antepongo sempre il vestire poveri panni e l'essere onesto alle vesti d'oro, se uno è macchiato dall'infamia di essere un baro o un traditore. Diversamente da me il Bomba grida e dice: "Io voglio avere ricchezze, non importa se acquistate con il gioco dei dadi o con carte truccate: ho sempre visto la gente riverire più le ricchezze della virtù; i pettegolezzi mi disturbano poco: molti rinnegano e bestemmiano Cristo". Sta' buono, Bomba, non alzare la voce: gli uomini scellerati bestemmiano Cristo, peggiori di quelli che lo crocifissero; invece gli onesti e i buoni dicono male di te e dicono il vero; infatti le carte e i dadi truccati ti danno le tue ricchezze, mobili e immobili. E tu dai loro motivi per parlare, perché pochi oltre a te in questo paese stracciano tele d'oro, velluti e zendadi. Tu riveli quel che dovresti nascondere: tu accendi le candele sui tuoi imbrogli, per mostrarli meglio, mentre dovrebbero restare nell'ombra: e dai modo a tutti (saggi e matti) di sapere come hai allestito dentro e fuori ville e palazzi, in così pochi anni, e come ti vesti e come te la spassi; ed è necessario risponderti, e tu credi di essere un grand'uomo, e dentro di te ne godi. A meno che non se lo senta dire in faccia, il Borna non pensa che sia una vergogna se sente mormorare dietro che ha ucciso suo fratello. Se anche è stato al bando per molto tempo, ora si gode in pace l'eredità e chi parla male di lui freme invano e invano si rode. Quell'altro va a mettere se stesso alla gogna facendosi vedere con quella mitra appuntita acquistata con tanta vergogna. Non avendo più peli di una zucca, ha meritato con servizi non onorevoli la dignità vescovile e il titolo che puzza agli spiriti umani, a quelli celesti e a quelli infernali. |
Interpretazione complessiva
- Metro: capitolo in terza rima, secondo il modello dantesco (rima incatenata: ABA, BCB, CDC...). La rima "per la" al v. 220 è composta, mentre quelle ai vv. 221, 223, 225 sono tronche. La lingua è il fiorentino letterario conforme alla proposta di Bembo, come dimostrano le forme "fòra" (sarebbe, v. 9), "serocchie" (sorelle, v. 17), "mi nutrico" (v. 25) e altre, tutte proprie della tradizione trecentesca. Al v. 85 "antiqui" e al v. 110 "Faetonte" sono latinismi. Al v. 130 ("mógliema") è meridionalismo per "mia moglie".
- Nella finzione della satira Ariosto risponde al cugino Annibale Malaguzzi, ansioso di sapere come si trovasse al servizio del duca Alfonso dopo la rottura col cardinale Ippolito, e paragona se stesso ironicamente a un "rozzone" (cavallo da soma) che mal sopporta di essere cavalcato da qualcuno: il servizio come uomo di corte pesa al poeta ed egli si dice costretto ad accettarlo per mancanza di denaro, essendo il primo di dieci fratelli e appartenendo a una famiglia non ricca, per cui piuttosto che mendicare gli conviene accettare di lavorare per il duca. Ariosto lamenta in modo sarcastico che il mestiere di letterato non è molto remunerativo e perciò deve per forza fare il cortigiano, anche se il servizio ad Alfonso è meno duro in quanto il duca non lo costringe a frequenti viaggi e lui, ammette candidamente, vuol restare a Ferrara per amore di Alessandra Benucci. Il poeta contesta l'opinione comune secondo cui la vita di corte è prestigiosa, poiché ne ha sperimentato le asprezze (nella Satira VI rammenterà le vessazioni cui Ippolito lo ha sottoposto) e vorrebbe condurre un'altra esistenza, e forse ci riuscirà quando avrà raggiunto l'indipendenza economica (cfr. anche la Satira I, ► TESTO: La vita del cortigiano). Il motivo centrale della satira è la rinuncia da parte di Ariosto a una vita piena di onori e ricchezze che porta con sé disagi e pericoli, alla quale preferisce una tranquilla esistenza nella propria casa in cui può cucinarsi una rapa e dormire "sotto una vil coltre", senza tuttavia essere debitore di niente a nessuno: è l'ideale molto oraziano di una vita ritirata e mediocre, che tuttavia non va presa troppo sul serio in quanto Ariosto, da nobile amico di potenti, godé di tutti i privilegi che la sua casta gli assicurava e, per quanto modesta, la sua fu comunque la vita "dorata" di un aristocratico che ignorava quanto dura fosse l'esistenza delle classi sociali disagiate, ad es. dei contadini. Siamo insomma molto lontani dall'atteggiamento fiero e dignitoso di un Dante che, pur di non umiliarsi di fronte ai propri nemici, rinunciava a rientrare a Firenze e preferiva il duro esilio e il servizio ai potenti che per lui era un pesante sacrificio, come detto nell'Epistola all'amico fiorentino (► VAI AL TESTO).
- Il poeta ricorda in modo ironico, ma non poi così tanto, che avrebbe forse potuto intraprendere la carriera ecclesiastica e aspirare a diventare vescovo grazie all'amicizia del card. Giovanni de' Medici, il figlio di Lorenzo il Magnifico diventato papa nel 1513 col nome di Leone X: Ariosto rammenta che i loro rapporti iniziarono ben prima che lui diventasse pontefice, già nel tempo in cui i Medici vennero rovesciati e fu instaurata la Repubblica con Pier Soderini (dopo il 1494), quando lui e suo fratello Giuliano trovarono ospitalità presso la "feltresca corte" di Urbino accanto a Castiglione, Bembo e altri illustri esponenti della cultura rinascimentale. Ariosto ha parole di gratitudine verso il papa e afferma che, in occasione di un suo viaggio a Roma nel 1513 per rendergli omaggio, non lo trovò "di memoria privo", tuttavia è amaramente consapevole del fatto che il papa dovrà beneficare anzitutto i suoi parenti più stretti e coloro che l'hanno aiutato ad essere eletto alla carica, prima di poter pensare a un lontano conoscente come il poeta (che oltretutto è ferrarese e non fiorentino). È un accenno neppure troppo velato al fenomeno del nepotismo, assai diffuso nella Roma papalina del Cinquecento e al quale Ariosto si riferisce anche citando gli alleati che reclamano la ricompensa per aver aiutato Giovanni al tempo dell'esilio, come Pietro de' Medici che tentò di rientrare in armi a Firenze dal Casentino, Brandino (il sarto del cardinale) che lo aiutò economicamente quand'era a Venezia e ottenne in cambio la carica di cavaliere di Rodi, o ancora Francesco Maria della Rovere che lo ospitò a Urbino. Va ricordato che successivamente (Sat., VII.55-69), quando papa Leone X era ormai morto, Ariosto commenterà con maggior disincanto il suo viaggio a Roma e definirà "sciocca speme" la sua illusione di ricevere dei benefici dal pontefice neo-eletto; cfr. anche una lettera del 1513 all'amico B. Fantino in cui descrive con ironia la sua esperienza romana e racconta le difficoltà a "farsi largo" tra coloro che richiedono favori al papa (► TESTO: Lettera a Benedetto Fantino).
- La satira è costruita con una certa elaborazione letteraria e frequenti sono i riferimenti al mito e alla cultura classica, che spesso assumono una valenza ironica: Ariosto rimpiange ad es. di non aver fatto al padre quello che Saturno fece ad Urano, ovvero evirarlo per evitare che avesse altri figli (la famiglia del poeta era fin troppo numerosa), mentre ora è costretto a elemosinare l'aiuto dei potenti come le rane della favola di Esopo (che chiesero un parere a Zeus e ottennero un serpente che le divorò); Mercurio, dio dei commerci e del denaro, viene citato come poco amico del poeta e della sua stirpe, per dire che sono poveri. Di sapore classico sono anche i due apologhi narrati dall'autore per spiegare il suo concetto, ovvero quello del pastore che scava il pozzo e distribuisce l'acqua a se stesso e alla sua famiglia, poi alle bestie in ragione della loro utilità così che alla gazza, amata ma poco utile, non tocca nulla (fuor di metafora, il pastore è il papa e la gazza è Ariosto) e quello dei contadini che cercano di raggiungere la luna dalla cima del monte, ovviamente non riuscendovi, proprio come è destinato a fallire chi ripone troppe speranza nella "ruota di Fortuna". Quest'ultimo riferimento tornerà anche nell'episodio del poema di Astolfo sulla Luna, quando tra le cose perdute sulla Terra il paladino vedrà anche regni e ricchezze, "in che la ruota instabile lavora" (XXXIV.74.2; ► VAI AL TESTO).
- Nell'ultima parte del testo l'autore ribadisce di preferire una vita mediocre ma onesta a quella pur prestigiosa di chi si comporta male, citando alcuni esempi di personaggi del tempo che, sotto un'apparenza di ricchezza e potere, nascondono magagne e brutture: Ariosto punta il dito contro un certo Bomba, che ha costruito la sua fortuna barando al gioco e se ne vanta scioccamente, mentre farebbe meglio a tacere, e contro un tal Borna, reo di aver ucciso il fratello per carpirne l'eredità dopo un periodo di bando (di queste figure non sappiamo praticamente nulla). Negli ultimi versi Ariosto punzecchia i vescovi che hanno ottenuto la dignità a prezzo di imbrogli e cattivi servizi, forse di tipo sessuale a vantaggio di qualche alto prelato, i quali si mostrano con la "aguzza / mitra" in testa esponendosi in un certo senso alla gogna: il poeta ironizza sul fatto che ai condannati esposti al pubblico ludibrio veniva messo in testa un copricapo appuntito per schernirli, la cui forma era simile alla mitra vescovile (cfr. anche l'autoritratto di Margutte, in Morg., XVIII.132.7; ► TESTO: Incontro con Margutte).