Torquato Tasso
Olindo e Sofronia
(Gerusalemme Liberata, II, 14-53)
Collocato nella prima parte del canto II del poema, l'episodio di Olindo e Sofronia è l'unico reale intermezzo narrativo dell'opera, anche se direttamente collegato alla trama generale, e ha per protagonisti due giovani cristiani di Gerusalemme che si autoaccusano del furto di un'immagine sacra della Vergine a sua volta sottratta da una chiesa e posta nella moschea ad opera del mago Ismeno, che sperava in tal modo di compiere un incanto per ostacolare l'impresa dei Crociati. L'icona era sparita misteriosamente e re Aladino aveva ordinato di mettere a morte i cristiani come rappresaglia, per cui Sofronia si fa avanti e si assume la responsabilità pur essendo innocente; Olindo, che ne è innamorato, tenta invano di prendersi la colpa e vengono posti entrambi al rogo, venendo tuttavia salvati dall'improvviso arrivo di Clorinda. Il lieto fine della vicenda, col matrimonio dei due protagonisti, ci consegna l'unico amore felice dell'intero poema, forse uno dei motivi che spinsero l'autore ad eliminarlo dalla redazione della "Conquistata".
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
14
Vergine era fra lor di già matura verginità, d'alti pensieri e regi, d'alta beltà; ma sua beltà non cura, o tanto sol quant'onestà se 'n fregi. È il suo pregio maggior che tra le mura d'angusta casa asconde i suoi gran pregi, e de' vagheggiatori ella s'invola a le lodi, a gli sguardi, inculta e sola. 15 Pur guardia esser non può ch'in tutto celi beltà degna ch'appaia e che s'ammiri; né tu il consenti, Amor, ma la riveli d'un giovenetto a i cupidi desiri. Amor, ch'or cieco, or Argo, ora ne veli di benda gli occhi, ora ce gli apri e giri, tu per mille custodie entro a i piú casti verginei alberghi il guardo altrui portasti. 16 Colei Sofronia, Olindo egli s'appella, d'una cittade entrambi e d'una fede. Ei che modesto è sí com'essa è bella, brama assai, poco spera, e nulla chiede; né sa scoprirsi, o non ardisce; ed ella o lo sprezza, o no 'l vede, o non s'avede. Cosí fin ora il misero ha servito o non visto, o mal noto, o mal gradito. 17 S'ode l'annunzio intanto, e che s'appresta miserabile strage al popol loro. A lei, che generosa è quanto onesta, viene in pensier come salvar costoro. Move fortezza il gran pensier, l'arresta poi la vergogna e 'l verginal decoro; vince fortezza, anzi s'accorda e face sé vergognosa e la vergogna audace. 18 La vergine tra 'l vulgo uscí soletta, non coprí sue bellezze, e non l'espose, raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta, con ischive maniere e generose. Non sai ben dir s'adorna o se negletta, se caso od arte il bel volto compose. Di natura, d'Amor, de' cieli amici le negligenze sue sono artifici. 19 Mirata da ciascun passa, e non mira l'altera donna, e innanzi al re se 'n viene. Né, perché irato il veggia, il piè ritira, ma il fero aspetto intrepida sostiene. «Vengo, signor,» gli disse «e 'ntanto l'ira prego sospenda e 'l tuo popolo affrene: vengo a scoprirti, e vengo a darti preso quel reo che cerchi, onde sei tanto offeso.» 20 A l'onesta baldanza, a l'improviso folgorar di bellezze altere e sante, quasi confuso il re, quasi conquiso, frenò lo sdegno, e placò il fer sembiante. S'egli era d'alma o se costei di viso severa manco, ei diveniane amante; ma ritrosa beltà ritroso core non prende, e sono i vezzi esca d'Amore. 21 Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto, s'amor non fu, che mosse il cor villano. «Narra» ei le dice «il tutto; ecco, io commetto che non s'offenda il popol tuo cristiano.» Ed ella: «Il reo si trova al tuo cospetto: opra è il furto, signor, di questa mano; io l'imagine tolsi, io son colei che tu ricerchi, e me punir tu déi.» 22 Cosí al publico fato il capo altero offerse, e 'l volse in sé sola raccòrre. Magnanima menzogna, or quand'è il vero sí bello che si possa a te preporre? Riman sospeso, e non sí tosto il fero tiranno a l'ira, come suol, trascorre. Poi la richiede: «I' vuo' che tu mi scopra chi diè consiglio, e chi fu insieme a l'opra.» 23 «Non volsi far de la mia gloria altrui né pur minima parte»; ella gli dice «sol di me stessa io consapevol fui, sol consigliera, e sola essecutrice.» «Dunque in te sola» ripigliò colui «caderà l'ira mia vendicatrice.» Diss'ella: «È giusto: esser a me conviene, se fui sola a l'onor, sola a le pene.» 24 Qui comincia il tiranno a risdegnarsi; poi le dimanda: «Ov'hai l'imago ascosa?» «Non la nascosi,» a lui risponde «io l'arsi, e l'arderla stimai laudabil cosa; cosí almen non potrà piú violarsi per man di miscredenti ingiuriosa. Signore, o chiedi il furto, o 'l ladro chiedi: quel no 'l vedrai in eterno, e questo il vedi. 25 Benché né furto è il mio, né ladra i' sono: giust'è ritòr ciò ch'a gran torto è tolto.» Or, quest'udendo, in minaccievol suono freme il tiranno, e 'l fren de l'ira è sciolto. Non speri piú di ritrovar perdono cor pudico, alta mente e nobil volto; e 'ndarno Amor contr'a lo sdegno crudo di sua vaga bellezza a lei fa scudo. 26 Presa è la bella donna, e 'ncrudelito il re la danna entr'un incendio a morte. Già 'l velo e 'l casto manto a lei rapito, stringon le molli braccia aspre ritorte. Ella si tace, e in lei non sbigottito, ma pur commosso alquanto è il petto forte; e smarrisce il bel volto in un colore che non è pallidezza, ma candore. 27 Divulgossi il gran caso, e quivi tratto già 'l popol s'era: Olindo anco v'accorse. Dubbia era la persona e certo il fatto; venia, che fosse la sua donna in forse. Come la bella prigionera in atto non pur di rea, ma di dannata ei scorse, come i ministri al duro ufficio intenti vide, precipitoso urtò le genti. 28 Al re gridò: «Non è, non è già rea costei del furto, e per follia se 'n vanta. Non pensò, non ardí, né far potea donna sola e inesperta opra cotanta. Come ingannò i custodi? e de la Dea con qual arti involò l'imagin santa? Se 'l fece, il narri. Io l'ho, signor, furata.» Ahi! tanto amò la non amante amata. 29 Soggiunse poscia: «Io là, donde riceve l'alta vostra meschita e l'aura e 'l die, di notte ascesi, e trapassai per breve fòro tentando inaccessibil vie. A me l'onor, la morte a me si deve: non usurpi costei le pene mie. Mie son quelle catene, e per me questa fiamma s'accende, e 'l rogo a me s'appresta.» 30 Alza Sofronia il viso, e umanamente con occhi di pietade in lui rimira. «A che ne vieni, o misero innocente? qual consiglio o furor ti guida o tira? Non son io dunque senza te possente a sostener ciò che d'un uom può l'ira? Ho petto anch'io, ch'ad una morte crede di bastar solo, e compagnia non chiede.» 31 Cosí parla a l'amante; e no 'l dispone sí ch'egli si disdica, e pensier mute. Oh spettacolo grande, ove a tenzone sono Amore e magnanima virtute! ove la morte al vincitor si pone in premio, e 'l mal del vinto è la salute! Ma piú s'irrita il re quant'ella ed esso è piú costante in incolpar se stesso. 32 Pargli che vilipeso egli ne resti, e ch'in disprezzo suo sprezzin le pene. «Credasi» dice «ad ambo; e quella e questi vinca, e la palma sia qual si conviene.» Indi accenna a i sergenti, i quai son presti a legar il garzon di lor catene. Sono ambo stretti al palo stesso; e vòlto è il tergo al tergo, e 'l volto ascoso al volto. 33 Composto è lor d'intorno il rogo omai, e già le fiamme il mantice v'incita, quand'il fanciullo in dolorosi lai proruppe, e disse a lei ch'è seco unita: «Quest'è dunque quel laccio ond'io sperai teco accoppiarmi in compagnia di vita? questo è quel foco ch'io credea ch'i cori ne dovesse infiammar d'eguali ardori? 34 Altre fiamme, altri nodi Amor promise, altri ce n'apparecchia iniqua sorte. Troppo, ahi! ben troppo, ella già noi divise, ma duramente or ne congiunge in morte. Piacemi almen, poich'in sí strane guise morir pur déi, del rogo esser consorte, se del letto non fui; duolmi il tuo fato, il mio non già, poich'io ti moro a lato. 35 Ed oh mia sorte aventurosa a pieno! oh fortunati miei dolci martíri! s'impetrarò che, giunto seno a seno, l'anima mia ne la tua bocca io spiri; e venendo tu meco a un tempo meno, in me fuor mandi gli ultimi sospiri.» Cosí dice piangendo. Ella il ripiglia soavemente, e 'n tai detti il consiglia: 36 «Amico, altri pensieri, altri lamenti, per piú alta cagione il tempo chiede. Ché non pensi a tue colpe? e non rammenti qual Dio prometta a i buoni ampia mercede? Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti, e lieto aspira a la superna sede. Mira 'l ciel com'è bello, e mira il sole ch'a sé par che n'inviti e ne console.» 37 Qui il vulgo de' pagani il pianto estolle: piange il fedel, ma in voci assai piú basse. Un non so che d'inusitato e molle par che nel duro petto al re trapasse. Ei presentillo, e si sdegnò; né volle piegarsi, e gli occhi torse, e si ritrasse. Tu sola il duol comun non accompagni, Sofronia; e pianta da ciascun, non piagni. 38 Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero (ché tal parea) d'alta sembianza e degna; e mostra, d'arme e d'abito straniero, che di lontan peregrinando vegna. La tigre, che su l'elmo ha per cimiero, tutti gli occhi a sé trae, famosa insegna, insegna usata da Clorinda in guerra; onde la credon lei, né 'l creder erra. 39 Costei gl'ingegni feminili e gli usi tutti sprezzò sin da l'età piú acerba: a i lavori d'Aracne, a l'ago, a i fusi inchinar non degnò la man superba. Fuggí gli abiti molli e i lochi chiusi, ché ne' campi onestate anco si serba; armò d'orgoglio il volto, e si compiacque rigido farlo, e pur rigido piacque. 40 Tenera ancor con pargoletta destra strinse e lentò d'un corridore il morso; trattò l'asta e la spada, ed in palestra indurò i membri ed allenogli al corso. Poscia o per via montana o per silvestra l'orme seguí di fer leone e d'orso; seguí le guerre, e 'n esse e fra le selve fèra a gli uomini parve, uomo a le belve. 41 Viene or costei da le contrade perse perch'a i cristiani a suo poter resista, bench'altre volte ha di lor membra asperse le piaggie, e l'onda di lor sangue ha mista. Or quivi in arrivando a lei s'offerse l'apparato di morte a prima vista. Di mirar vaga e di saper qual fallo condanni i rei, sospinge oltre il cavallo. 42 Cedon le turbe, e i duo legati insieme ella si ferma a riguardar da presso. Mira che l'una tace e l'altro geme, e piú vigor mostra il men forte sesso. Pianger lui vede in guisa d'uom cui preme pietà, non doglia, o duol non di se stesso; e tacer lei con gli occhi ai ciel sí fisa ch'anzi 'l morir par di qua giú divisa. 43 Clorinda intenerissi, e si condolse d'ambeduo loro e lagrimonne alquanto. Pur maggior sente il duol per chi non duolse, piú la move il silenzio e meno il pianto. Senza troppo indugiare ella si volse ad un uom che canuto avea da canto: «Deh! dimmi: chi son questi? ed al martoro qual gli conduce o sorte o colpa loro?» 44 Cosí pregollo, e da colui risposto breve ma pieno a le dimande fue. Stupissi udendo, e imaginò ben tosto ch'egualmente innocenti eran que' due. Già di vietar lor morte ha in sé proposto, quanto potranno i preghi o l'armi sue. Pronta accorre a la fiamma, e fa ritrarla, che già s'appressa, ed a i ministri parla: 45 «Alcun non sia di voi che 'n questo duro ufficio oltra seguire abbia baldanza, sin ch'io non parli al re: ben v'assecuro ch'ei non v'accuserà de la tardanza.» Ubidiro i sergenti, e mossi furo da quella grande sua regal sembianza. Poi verso il re si mosse, e lui tra via ella trovò che 'ncontra lei venia. 46 «Io son Clorinda:» disse «hai forse intesa talor nomarmi; e qui, signor, ne vegno per ritrovarmi teco a la difesa de la fede comune e del tuo regno. Son pronta, imponi pure, ad ogni impresa: l'alte non temo, e l'umili non sdegno; voglimi in campo aperto, o pur tra 'l chiuso de le mura impiegar, nulla ricuso.» 47 Tacque; e rispose il re: «Qual sí disgiunta terra è da l'Asia, o dal camin del sole, vergine gloriosa, ove non giunta sia la tua fama, e l'onor tuo non vòle? Or che s'è la tua spada a me congiunta, d'ogni timor m'affidi e mi console: non, s'essercito grande unito insieme fosse in mio scampo, avrei piú certa speme. 48 Già già mi par ch'a giunger qui Goffredo oltra il dover indugi; or tu dimandi ch'impieghi io te: sol di te degne credo l'imprese malagevoli e le grandi. Sovr'a i nostri guerrieri a te concedo lo scettro, e legge sia quel che comandi.» Cosí parlava. Ella rendea cortese grazie per lodi, indi il parlar riprese: 49 «Nova cosa parer dovrà per certo che preceda a i servigi il guiderdone; ma tua bontà m'affida: i' vuo' ch'in merto del futuro servir que' rei mi done. In don gli chieggio: e pur, se 'l fallo è incerto gli danna inclementissima ragione; ma taccio questo, e taccio i segni espressi onde argomento l'innocenza in essi. 50 E dirò sol ch'è qui comun sentenza che i cristiani togliessero l'imago; ma discordo io da voi, né però senza alta ragion del mio parer m'appago. Fu de le nostre leggi irriverenza quell'opra far che persuase il mago: ché non convien ne' nostri tèmpi a nui gl'idoli avere, e men gl'idoli altrui. 51 Dunque suso a Macon recar mi giova il miracol de l'opra, ed ei la fece per dimostrar ch'i tèmpi suoi con nova religion contaminar non lece. Faccia Ismeno incantando ogni sua prova, egli a cui le malie son d'arme in vece; trattiamo il ferro pur noi cavalieri: quest'arte è nostra, e 'n questa sol si speri.» 52 Tacque, ciò detto; e 'l re, bench'a pietade l'irato cor difficilmente pieghi, pur compiacer la volle; e 'l persuade ragione, e 'l move autorità di preghi. «Abbian vita» rispose «e libertade, e nulla a tanto intercessor si neghi. Siasi questa o giustizia over perdono, innocenti gli assolvo, e rei gli dono.» 53 Cosí furon disciolti. Aventuroso ben veramente fu d'Olindo il fato, ch'atto poté mostrar che 'n generoso petto al fine ha d'amore amor destato. Va dal rogo a le nozze; ed è già sposo fatto di reo, non pur d'amante amato. Volse con lei morire: ella non schiva, poi che seco non muor, che seco viva. |
Fra loro vi era una vergine già adulta, di pensieri alti e nobili e di grande bellezza; ma lei non si cura della sua bellezza, se non quanto le è consentito dall'onestà. Il suo merito maggiore è che nasconde i suoi grandi meriti tra le mura di una modesta casa, e si sottrae alle lodi e agli sguardi dei suoi corteggiatori, trascurata e sola. Pure non può esservi una custodia così severa da celare in tutto e per tutto una bellezza degna di mostrarsi e di essere ammirata; e tu, Amore, non lo consenti, ma la riveli agli ardenti desideri di un giovane. Amore, che ora sei cieco, ora hai cento occhi come Argo, ora ci copri gli occhi con una benda, ora ce li apri e fai girare, tu portasti lo sguardo altrui tra mille cautele dentro le sedi virginali più caste. Lei si chiama Sofronia, lui Olindo, entrambi di Gerusalemme e cristiani. Lui, che è tanto modesto quanto lei è bella, desidera molto, spera poco e non chiede nulla; non sa mostrarsi o non ne ha il coraggio; e lei o lo disprezza, o non lo vede o non si accorge di nulla. Così fino ad oggi il poveretto è stato al suo servizio, o ignorato o poco noto o sgradito. Intanto si diffonde l'annuncio [della rappresaglia di Aladino] e che si prepara una miserabile strage dei cristiani. A lei, che è generosa quanto è modesta, viene il pensiero di come salvare queste persone. La forza muove il grande pensiero e poi lo arresta la vergogna e il decoro virginale; la forza vince, anzi rende se stessa vergognosa e rende la vergogna audace. La fanciulla uscì tutta sola tra il popolo, non coprì la sua bellezza e non la mise in mostra, tenne gli occhi bassi, andò avvolta nel velo, con modi schivi e magnanimi. Non si saprebbe dire se sia adornata o trascurata, se il suo bel volto sia stato abbellito dal caso o dall'artificio. Le sue negligenze sono artifici di natura, dell'amore, del cielo a lei favorevole. La bella donna passa ammirata da tutti e non guarda nessuno, e viene di fronte al re. Non ritrae il passo vedendo il re adirato, ma ne sostiene con coraggio l'aspetto feroce. Gli disse: «Sono venuta qui, signore - intanto ti prego di sospendere la tua ira e di tenere a freno il tuo popolo - sono venuta a svelarti e a consegnarti l'autore del furto che tu cerchi, per cui sei tanto oltraggiato». Il re, quasi confuso e conquistato di fronte a quell'onesto coraggio, all'improvviso sfolgorare della bellezza altera e santa, frenò lo sdegno e placò il suo aspetto feroce. Se lui fosse stato meno severo d'animo o se lei fosse stata meno severa nel viso, se ne sarebbe innamorato; ma una bellezza ritrosa non conquista una bellezza ritrosa, e i vezzi sono l'esca dell'amore. A muovere il suo cuore crudele fu lo stupore, la bellezza e il piacere, se non l'amore. Lui le dice: «Racconta ogni cosa; ecco, io ordino che il tuo popolo cristiano non venga offeso». E lei: «Il colpevole è qui di fronte a te: il furto, signore, è opera di questa mano; io sottrassi l'immagine, io sono quella che tu cerchi e tu devi punire me». Così offrì il suo capo orgoglioso al pubblico destino e lo volle raccogliere solo su di sé. O menzogna generosa, quando mai la verità è così bella da poter essere preferita a te? Il feroce tiranno resta incerto, e non si abbandona così in fretta all'ira come suo solito. Poi le chiede: «Voglio che tu mi spieghi chi ti ha consigliato e chi ti ha aiutato nel furto». Lei risponde: «Non volli che altri partecipassero alla mia gloria, neanche in minima parte; io fui la sola complice di me stessa, la sola consigliera, e la sola esecutrice». Lui riprese: «Dunque la mia ira vendicatrice cadrà solo su di te». Lei disse: «È giusto: devo essere l'unica a soffrire la pena, se fui l'unica ad avere l'onore». Allora il tiranno comincia a sdegnarsi; poi le chiede: «Dove hai nascosto l'immagine sacra?» Gli risponde: «Non l'ho nascosta, l'ho bruciata e ritenni cosa lodevole farlo; così almeno non potrà più essere violata dalla mano sacrilega dei miscredenti. Signore, o chiedi l'oggetto rubato o il ladro: quello non lo vedrai mai più, l'altro ce l'hai di fronte. Anche se io non ho commesso un furto e non sono una ladra: è giusto ritogliere ciò che stato sottratto a torto». Allora, udendo questo, il tiranno freme con un suono minaccioso e scioglie il freno dell'ira. Un cuore pudico, una mente alta e una nobile intenzione non possono più sperare di trovare perdono; e invano Amore le fa scudo con la sua piacevole bellezza contro il crudele sdegno. La bella donna è catturata e il re, incrudelito, la condanna a morte tramite il rogo. Le viene strappato il velo e il casto mantello, aspre funi le stringono le molli braccia. Lei tace e il cuore in lei non è sbigottito, ma anzi è alquanto commosso; e il suo bel volto si smarrisce in un colore che non è pallore, ma candore virginale. La terribile notizia si diffuse e il popolo si era già raccolto qui: vi accorse anche Olindo. Il fatto era certo, si dubitava della persona; Olindo temeva si trattasse della donna amata. Non appena vide la bella prigioniera nelle vesti non solo di accusata ma di condannata, non appena vide i ministri intenti a darle la morte, urtò la gente precipitandosi. Gridò al re: «Non è lei la colpevole del furto, se ne vanta per follia. Non pensò questo, non ne ebbe il coraggio, non una donna sola e inesperta non poteva compiere una simile impresa. Come ingannò le guardi? e in che modo sottrasse l'immagine sacra della Vergine? Se è stata lei, lo spieghi. Io, signore, l'ho rubata». Ahimè! A tal punto amò l'amata che non lo riamava. Poi aggiunse: «Io salii là dalla parte da cui la vostra moschea riceve l'aria del giorno [a oriente], e passai attraverso un piccolo pertugio percorrendo una via malagevole. L'onore e la morte sono dovuti a me: costei non deve sottrarmi la pena che mi spetta. Quelle catene sono mie, questa fiamma si accende per me, il rogo si prepara per me». Sofronia alza il viso e lo guarda in modo umano con occhi pietosi. «Perché vieni qui, povero innocente? quale pensiero o follia ti trascina? Dunque io senza di te non sarei capace di sostenere quel che può fare l'ira di un uomo? Anch'io ho un petto che si crede sufficiente alla morte, e non vuole compagnia». Così parla all'amante; e tuttavia non lo persuade a ritrattare e a cambiare idea. Oh che spettacolo, in cui l'amore e la magnanima virtù sono in lotta fra loro! dove in premio al vincitore è la morte, e il male del vinto è la salvezza! Ma il re si irrita quanto più ognuno dei due è testardo a incolpare se stesso. Gli sembra di essere oltraggiato e che disprezzando le pene disprezzino anche lui. Dice: «Si creda a entrambi; e vincano entrambi, e il premio sia quello che deve essere». Quindi fa cenno alle guardie che sono rapide a incatenare il giovane. Entrambi sono legati allo stesso palo; hanno le schiene l'una contro l'altra e i volti sono nascosti l'un l'altro. Il rogo è ormai allestito intorno a loro e il mantice vi alimenta già le fiamme, quando il giovane iniziò a lamentarsi per il dolore e disse a lei che era così unita a lui: «Questo è dunque quel laccio con cui io sperai di unirmi a te per una intera vita? questo è il fuoco che credevo dovesse infiammare i nostri cuori di uno stesso ardore? Amore ci aveva promesso altre fiamme, altri nodi, e ora invece l'ingiusta sorte ce ne prepara ben diversi. Essa ci divise troppo, ahimè, ma ora ci unisce duramente nella morte. Mi piace almeno, visto che devi morire in un modo così crudele, esserti compagno sul rogo, se non lo fui nel letto; sono addolorato per il tuo destino, non per il mio, poiché muoio al tuo fianco. Oh, quanto è fortunata la mia sorte e quanto fortunati sono i miei dolci dolori, se otterrò che, unendo il mio petto al tuo, io possa soffiare la mia anima nella tua bocca e tu, morendo insieme a me, trasfonda in me i tuoi ultimi sospiri». Così parla piangendo. Lei lo rimprovera con dolcezza e lo consiglia con tali parole: «Amico, la circostanza richiede altri pensieri, altri lamenti per una ragione più nobile. Perché non pensi alle tue colpe? e non ricordi quale ampia ricompensa Dio prometta ai buoni? Soffri in suo nome e i tormenti saranno dolci, e aspira lieto ad andare in paradiso. Guarda come è bello il cielo e osserva il sole, che sembra invitarci a sé e consolarci». Qui il popolo pagano si mette a piangere: anche i cristiani piangono, ma con voce assai più soffocata. Un non so che si strano e dolce sembra che passi nel duro petto del re. Egli se ne accorse e se ne sdegnò; non volle piegarsi, distolse lo sguardo e si voltò. Tu sola, Sofronia, non partecipi al dolore comune; e, compianta da tutti, non piangi. Mentre rischiano la vita, ecco un guerriero (infatti sembrava tale) di aspetto nobile e degno; e mostra di venire da molto lontano, straniero per le armi e gli abiti. La tigre che ha per cimiero sull'elmo attira su di sé tutti gli sguardi, famosa insegna usata in guerra da Clorinda; quindi pensano che sia lei e non sbagliano. Costei disprezzò le occupazioni e le arti femminili sin dalla più tenera età: non degnò porre la mano a cucire, all'ago, al fuso del telaio. Evitò gli abiti comodi e i luoghi riparati, poiché si mantiene l'onore anche sul campo di battaglia; atteggiò il volto a orgoglio e volle farlo severo, e anche severo piacque. Ancora piccola, con la tenera mano cavalcò stringendo e allentando le redini; maneggiò spada e lancia e irrobustì le membra con l'esercizio, allenandole alla corsa. Poi seguì sui monti o nelle selve le impronte di un fiero leone e di un orso; andò in guerra e sia lì sia fra le selve sembrò una belva agli uomini, un uomo alle belve. Ora questa donna viene dalle regioni della Persia per resistere quanto può ai cristiani, anche se altre volte ha cosparso le spiagge delle loro membra e ha versato il loro sangue nelle onde del mare. Ora arrivando qui vide subito al primo sguardo il patibolo del rogo. Desiderosa di osservare e di sapere quale crimine condanni Olindo e Sofronia, spinge avanti il cavallo. La folla si fa indietro e lei si ferma a guardare da vicino i due legati insieme. Osserva una che tace e l'altro che si lamenta, e il sesso più debole mostra maggior vigore. Vede lui che piange come un uomo vinto da pietà, non dal dolore o dalla pena per se stesso; e vede lei che tace e fissa gli occhi al cielo, al punto che prima di morire sembra già separata da questo mondo. Clorinda si intenerì e provò pena per entrambi e ne pianse un poco. Pure sente maggior dolore per colei che non ne prova [Sofronia], la commuove più il silenzio e meno il pianto [di Olindo]. Senza troppi indugi si rivolse a un uomo coi capelli bianchi che aveva al fianco: «Orsù, dimmi: chi sono questi due? e quale loro crimine o destino li porta al martirio?» Lo pregò così e lui rispose brevemente ma in modo completo alle sue domande. Lei si stupì ascoltando e ben presto indovinò che quei due erano ugualmente innocenti. Ormai si è ripromessa di impedire la loro morte, per quanto potranno le sue preghiere o le sue armi. Accorre prontamente alla fiamma e la fa soffocare mentre si avvicinava ai due e si rivolge così ai carnefici: «Nessuno di voi osi proseguire in questo duro compito prima che io abbia parlato al re: vi assicuro che lui non vi accuserà di indugiare». Gli ufficiali ubbidirono e furono colpiti da quel suo aspetto imponente e regale. Poi si mosse verso il re e vide che lui le veniva incontro a mezza strada. «Io sono Clorinda: - disse - forse mi hai sentita nominare; e vengo qui, signore, per unirmi a te nella difesa della fede comune e del tuo regno. Sono pronta a qualunque impresa, comanda pure: non temo quelle importanti e non sdegno quelle umili; usami pure in campo aperto o tra il chiuso delle mura, non rifiuto nulla». Tacque; e il re rispose: «Quale terra è così lontana dall'Asia o dall'Oriente, vergine gloriosa, dove non sia giunta la tua fama e non voli il tuo onore? Ora che la tua spada si è unita a me, mi rassicuri e mi consoli da qualsiasi timore: non avrei una speranza più certa neppure se un grande esercito unito insieme fosse venuto a soccorrermi. Già mi sembra che Goffredo tardi a venire qui oltre misura; ora tu domandi che io mi serva di te: credo che siano degne di te solo le imprese ardue e grandiose. Concedo a te il comando sui nostri guerrieri e sia legge ogni tuo ordine». Così parlava. Lei ringraziava cortesemente per le lodi, poi riprese a dire: «Sembrerà certo una novità che la ricompensa preceda i servigi; ma la tua bontà mi rassicura: io voglio che in cambio del mio futuro servizio tu mi doni quei due condannati. Li chiedo in dono: e pure, se la colpa è incerta, sono condannati da una sentenza del tutto ingiusta; ma non parlo di questo e sorvolo sugli indizi evidenti da cui argomento che essi siano innocenti. E dirò solo che qui tutti credono che i cristiani abbiano sottratto l'immagine; ma io non sono d'accordo, e non senza giusta ragione sono convinta di quel che dico. Compiere quell'opera che il mago [Ismeno] propose fu un sacrilegio verso le nostre leggi: infatti noi non dobbiamo avere nei nostri templi alcun idolo, e men che meno gli idoli cristiani. Dunque devo attribuire il miracolo della sparizione addirittura a Maometto, ed egli la fece per dimostrare che non è lecito contaminare i suoi templi con una nuova religione. Ismeno faccia pure ogni prova con gli incantesimi, lui che invece delle armi possiede le magie; solo noi cavalieri maneggiamo la spada: questa è la nostra arte e speriamo solo in questa». Dopo aver detto questo, tacque; e il re, anche se difficilmente muove il cuore a pietà, pure la volle compiacere; lo persuade il ragionamento e lo smuove l'autorevolezza della preghiera. Rispose: «Che vivano e siano liberati, e non si neghi nulla a chi intercede per loro con tale autorità. Sia questa una giustizia o un perdono, gli assolvo come innocenti e li grazio in quanto colpevoli». Così i due furono liberati. E il destino di Olindo fu davvero fortunato, poiché ebbe l'occasione di far nascere col suo amore l'amore nel petto generoso di Sofronia. Va dal rogo alle nozze; e diventa sposo dopo essere stato condannato, non solo amato dopo essere stato amante. Volle morire con lei: lei non disdegna di vivere con lui, visto che con lei non è morto. |
Interpretazione complessiva
- L'episodio rappresenta l'unico reale intermezzo narrativo del poema avente come protagonisti personaggi secondari e il solo davvero a lieto fine, oltretutto con al centro una vicenda amorosa che termina con le nozze dei due giovani: Tasso lo inserì, pare, nella redazione finale della Liberata e in seguito lo sentì forse estraneo alla trama complessiva dell'opera, tanto che lo eliminò dalla Conquistata (insieme a tutti gli altri episodi "idillici" che costituiscono una pausa nel racconto, come quello famosissimo di Erminia tra i pastori). La protagonista femminile, Sofronia, è una giovane donna che ha votato se stessa alla castità e pur essendo molto bella sdegna i corteggiatori e conduce un'esistenza modesta, non avvedendosi dell'amore di Olindo che, per parte sua, è timido e non osa manifestarle i suoi sentimenti, in modo simile a Erminia con Tancredi. I due anzi costituiscono la variante "popolare" e meno impegnata dell'amore impossibile della principessa pagana e del Crociato, che sono divisi da ragioni sociali e dalla fede diversa, mentre Olindo e Sofronia sono entrambi cristiani e anche per questo potranno alla fine convolare a nozze. La fanciulla si presenta come una martire che accetta di sacrificarsi pur di salvare il suo popolo dalla rappresaglia di Aladino e si autoaccusa del furto dell'icona della Vergine pur essendo innocente, pronta ad affrontare il rogo pur di compiere una nobile impresa; Olindo tenta inutilmente di salvarla attribuendosi la colpa del fatto e ingaggiando con lei una nobile gara che ricorda celebri episodi classici (Oreste e Pilade nell'Ifigenia di Euripide, ma anche Florio e Biancifiore nel Filocolo di Boccaccio), finendo poi con lei sul rogo dove, disperato, le rivela tardivamente il suo amore. L'immagine dei due legati schiena contro schiena allo stesso palo, coi volti separati, è visivamente efficace, così come il contrasto tra Olindo che piange per la fine di Sofronia e la giovane che lo invita a pensare al suo destino ultraterreno, e tiene gli occhi fissi al cielo come se fosse già separata dal mondo e pronta alla beatitudine della vita eterna. Anche Sofronia è, in certo qual modo, una "variante" del personaggio di Clorinda che di lì a poco entrerà in scena, essendo anche lei una vergine guerriera che si è votata alla guerra, anche lei amata senza speranza da Tancredi, ma (a differenza della cristiana) destinata alla morte in seguito al duello notturno con lo stesso Tancredi, al termine del quale si convertirà al Cristianesimo (► TESTO: Il duello di Tancredi e Clorinda).
- Il passo mostra anche la prima entrata in scena del personaggio di Clorinda, la vergine guerriera che indossa un'armatura bianca con l'insegna della tigre e che giunge a Gerusalemme per porsi al servizio di re Aladino, smaniosa di combattere contro i Crociati: la donna era già stata citata in I.46-48 come la "donzella" pagana di cui Tancredi si è innamorato, durante la rassegna dei cavalieri cristiani che muovono alla conquista di Gerusalemme. Qui si dice di lei che fin dalla più tenera età ha disprezzato i lavori femminili e si è addestrata alla guerra, dando di sé splendide prove sul campo e acquistando una fama che la fa subito riconoscere dagli abitanti di Gerusalemme, come da Aladino che la accoglie con tutti gli onori e le offre il comando delle truppe che difendono la città (la sua reale storia e le sue origini cristiane verranno narrate più avanti, nel canto XII prima della sortita notturna con Argante). Clorinda dimostra nell'occasione un animo stranamente femminile, poiché si commuove alla storia di Olindo e Sofronia e decide di salvarli credendoli innocenti, per cui convince il re con una breve suasoria difensiva che lo induce a liberare i due, innocenti o colpevoli che siano. Clorinda è solo il primo caso di una serie di guerrieri che vengono a Gerusalemme per combattere i cristiani, visto che dopo di lei giungeranno anche Argante e Solimano, entrambi provenienti dall'Egitto.
- La storia di Olindo e Sofronia è soprattutto quella di un amore inizialmente non corrisposto che trova tanti altri esempi nel poema (Erminia e Tancredi, Clorinda e Tancredi, Rinaldo e Armida), con la variante che questi sono personaggi non nobili e che il finale è lieto, visto che i due vanno "dal rogo alle nozze": particolarmente efficaci linguisticamente le ottave dedicate alla descrizione del rapporto tra i due, a iniziare dalla ott. 16 in cui si sottolinea la fedeltà di Olindo alla donna e la sua poca speranza di essere amato ("brama assai, poco spera, e nulla chiede"; "o lo sprezza, o no 'l vede, o non s'avede"; "o non visto, o mal noto, o mal gradito", in cui i tre versi presentano la stessa struttura con la triplice ripetizione del verbo e chiasmo al v. 16.4, nonché anafora di "mal" a 16.8). Altrettanto ben costruito retoricamente il discorso di Olindo a Sofronia sul rogo dall'ott. 33, quando afferma che sperava di essere unito a lei da altri lacci e altri fuochi, ma di essere felice almeno perché, se non ha potuto condividere con lei il letto, almeno condivide il rogo e, se non ha potuto viverle accanto, può morire vicino a lei. L'antitesi vita-morte verrà ripresa in 53.7-8, anche se sarà rovesciata dato il lieto fine della vicenda e le nozze quale conclusione del dramma, poiché Sofronia alla fine cede all'amore del giovane che si è rivelato in così drammatiche circostanze ("Volse con lei morire: ella non schiva, / poi che seco non muor, che seco viva").