Letteratura italiana
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Torquato Tasso


Tancredi nella selva di Saron
(Gerusalemme Liberata, XIII, 38-46)

Dopo che la selva incantata di Saron ha eluso i tentativi dei crociati di vincerne le magie per procurarsi la legna necessaria alla costruzione di una nuova torre d'assedio, è la volta di Tancredi che si addentra nel bosco e inizialmente supera tutte le apparizioni diaboliche che avevano bloccato i suoi compagni, ma è a sua volta costretto ad arrendersi di fronte a un sinistro cipresso: quando inizia a colpirne il tronco con la spada, infatti, dalla pianta esce sangue e una voce che imita quella di Clorinda, la guerriera saracena da lui uccisa nel duello notturno del canto XII che lo accusa di tormentarla anche da morta e lo invita ad andarsene. Pur sapendo che si tratta di un inganno dei demoni (Tancredi aveva battezzato Clorinda, la cui anima è salva e non può trovarsi in quell'albero), il crociato non sa vincere il proprio rimorso per avere ucciso la donna che amava ed esce dalla selva senza aver superato la prova.

► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata


38
Al fine un largo spazio in forma scorge
d’anfiteatro, e non è pianta in esso,
salvo che nel suo mezzo altero sorge,
quasi eccelsa piramide, un cipresso.
Colà si drizza, e nel mirar s’accorge
ch’era di vari segni il tronco impresso,
simili a quei che in vece usò di scritto
l’antico già misterioso Egitto.

39
Fra i segni ignoti alcune note ha scorte
del sermon di Soria ch’ei ben possede:
«O tu che dentro a i chiostri de la morte
osasti por, guerriero audace, il piede,
deh! se non sei crudel quanto sei forte,
deh! non turbar questa secreta sede.
Perdona a l’alme omai di luce prive:
non dée guerra co’ morti aver chi vive.»

40
Cosí dicea quel motto. Egli era intento
de le brevi parole a i sensi occulti:
fremere intanto udia continuo il vento
tra le frondi del bosco e tra i virgulti,
e trarne un suon che flebile concento
par d’umani sospiri e di singulti,
e un non so che confuso instilla al core
di pietà, di spavento e di dolore.

41
Pur tragge al fin la spada, e con gran forza
percote l’alta pianta. Oh meraviglia!
manda fuor sangue la recisa scorza,
e fa la terra intorno a sé vermiglia.
Tutto si raccapriccia, e pur rinforza
il colpo e ’l fin vederne ei si consiglia.
Allor, quasi di tomba, uscir ne sente
un indistinto gemito dolente,

42
che poi distinto in voci: «Ahi! troppo» disse
«m’hai tu, Tancredi, offeso; or tanto basti.
Tu dal corpo che meco e per me visse,
felice albergo già, mi discacciasti:
perché il misero tronco, a cui m’affisse
il mio duro destino, anco mi guasti?
Dopo la morte gli aversari tuoi,
crudel, ne’ lor sepolcri offender vuoi?

43
Clorinda fui, né sol qui spirto umano
albergo in questa pianta rozza e dura,
ma ciascun altro ancor, franco o pagano,
che lassi i membri a piè de l’alte mura,
astretto è qui da novo incanto e strano,
non so s’io dica in corpo o in sepoltura.
Son di sensi animati i rami e i tronchi,
e micidial sei tu, se legno tronchi.»

44
Qual l’infermo talor ch’in sogno scorge
drago o cinta di fiamme alta Chimera,
se ben sospetta o in parte anco s’accorge
che ‘l simulacro sia non forma vera,
pur desia di fuggir, tanto gli porge
spavento la sembianza orrida e fera,
tal il timido amante a pien non crede
a i falsi inganni, e pur ne teme e cede.

45
E, dentro, il cor gli è in modo tal conquiso
da vari affetti che s’agghiaccia e trema,
e nel moto potente ed improviso
gli cade il ferro, e ’l manco è in lui la tema.
Va fuor di sé: presente aver gli è aviso
l’offesa donna sua che plori e gema,
né può soffrir di rimirar quel sangue,
né quei gemiti udir d’egro che langue.

46
Cosí quel contra morte audace core
nulla forma turbò d’alto spavento,
ma lui che solo è fievole in amore
falsa imago deluse e van lamento.
Il suo caduto ferro intanto fore
portò del bosco impetuoso vento,
sí che vinto partissi; e in su la strada
ritrovò poscia e ripigliò la spada.


Alla fine [Tancredi] scorge un ampio spazio simile ad un anfiteatro, senza piante all'interno tranne un cipresso che sorge al centro, come un'alta piramide. Egli si dirige là e osservando si accorge che il tronco è inciso con vari segni, come quelli che l'antico e misterioso Egitto usò un tempo come scrittura [i geroglifici].




Fra i segni che non conosce ne ha visti alcuni del linguaggio di Siria che lui ben conosce: «O tu, guerriero audace, che hai osato entrare nei luoghi della morte: se non sei crudele tanto quanto sei coraggioso, orsù, non turbare questa sede segreta. Abbi rispetto delle anime ormai prive di luce: chi vive non deve far guerra ai morti».





Così diceva quella scritta. Egli cercava di capire il senso riposto delle brevi parole: intanto sentiva di continuo fremere il vento tra le fronde e i ramoscelli del bosco, e udiva emettere un suono che pareva una lacrimevole
melodia di sospiri umani e singhiozzi, che ispirava al suo cuore un insieme confuso di pietà, spavento e dolore.




Alla fine estrae la spada e colpisce l'alta pianta con grande forza. Oh quale meraviglia! La corteccia recisa fa uscire sangue e macchia di rosso la terra intorno. [Tancredi] ne è raccapricciato, eppure continua a colpire ed è deciso ad andare fino in fondo. Allora sente uscire dall'albero, come da una tomba, un indistinto e doloroso gemito,





che poi prende forma di voce e dice: «Ahimè! Tu, Tancredi, mi hai troppo offeso: ora basta. Tu mi hai scacciato dal corpo che visse con me e per me, un tempo felice albergo: perché guasti anche il misero tronco in cui il mio triste destino mi ha rinchiusa? O crudele, vuoi offendere i tuoi nemici anche nei loro sepolcri, dopo la loro morte?




Io fui Clorinda, e qui non sono la sola anima umana che alberga in questa rozza e dura pianta, ma chiunque altro (crociato o saraceno) che muoia ai piedi delle alte mura [di Gerusalemme] è costretto in queste piante da un nuovo e strano incanto, non so dire se in un nuovo corpo o in una sepoltura. I rami e i tronchi sono animati da sensi e tu sei un omicida, se tagli il legno
».




Come talvolta il malato, che vede in sogno un drago o un'alta Chimera cinta di fiamme, se anche sospetta o in parte anche si avvede che l'apparizione non è reale, pure desidera di fuggire, a tal punto l'immagine orrida e feroce lo spaventa, così l'amante timoroso [Tancredi] non crede pienamente ai falsi inganni, eppure ne è spaventato e cede.




E nel suo animo il cuore è a tal punto sconvolto da vari sentimenti che si raggela e trema, e in quel sommovimento potente e improvviso gli cade di mano la spada, e il timore è il minore dei sentimenti provati. Va fuori di sé: gli sembra di avere di fronte proprio la sua donna offesa che piange e si lamenta, e non può sopportare la vista di quel sangue, né sentire quei gemiti che sembrano di un malato sofferente.




Così quel cuore audace contro la morte non fu turbato da alcuna apparizione spaventosa [le fiamme e le altre cose viste prima di arrivare lì], ma lui che è debole solo in amore fu irretito da una falsa immagine
e da un vano lamento. Intanto la sua spada caduta a terra è stata portata fuori dal bosco da un vento impetuoso, cosicché [Tancredi] se ne andò sconfitto; e lungo la strada ritrovò poi e riprese la sua arma.


Interpretazione complessiva

  • Tancredi affronta gli incanti della selva di Saron che il mago Ismeno ha popolato di demoni infernali, per impedire ai crociati di far legna per ricostruire la torre d'assedio bruciata da Clorinda e Argante nella sortita notturna: il guerriero supera agevolmente ciò che ha spaventato gli altri che l'hanno preceduto (incluso il muro di fiamme che aveva irretito Alcasto), ma non può nulla quando sente la voce di Clorinda che lo accusa di averla uccisa e di tormentarla anche da morta, costringendolo a uscire dalla selva senza aver superato la prova. I demoni della foresta fanno leva sulle debolezze e le paure profonde dei guerrieri che vi entrano e Tancredi ("che solo è fievole in amore") è toccato nel suo punto dolente, non avendo ancora superato il rimorso per aver ucciso la donna amata nel duello notturno (► TESTO: Il duello di Tancredi e Clorinda).
  • La scena che si presenta a Tancredi è lugubre e sinistra, con la radura deserta al cui centro si erge un solitario cipresso (pianta funebre già nella tradizione classica), che ha incise sulla corteccia scritte strane e misteriose in antichi geroglifici e in alfabeto arabo (c'è un riferimento alla magia e alla stregoneria molto diffuse nella cultura del tardo Cinquecento, che danno un aspetto spettrale al paesaggio del bosco). Il particolare del sangue e della voce che escono dalla pianta colpita è ripreso da Inf., XIII, 31 ss., quando Dante spezza un ramo dalla pianta in cui è racchiusa l'anima di Pier della Vigna che lo rimprovera per accrescere la sua pena (► TESTO: Pier della Vigna), a sua volta ispirato al passo dell'Eneide con Polidoro (III, 42 ss.). Anche Astolfo nel Furioso è rinchiuso in una pianta dalla maga Alcina (VI, 26 ss.), salvo poi esserne liberato e riacquistare la sua forma umana.
  • Tancredi si rende conto che la voce che sente non è quella di Clorinda (che lui ha battezzato in punto di morte e che perciò sa essere salva) e dunque è consapevole che si tratta di un inganno demoniaco, pure la sua pena per avere ucciso la donna amata è troppo grande ed è sopraffatto dalla propria debolezza, come dimostra il fatto che lascia cadere la spada di mano. Toccherà a Rinaldo vincere gli incanti della selva incantata e il più valoroso dei crociati supererà la prova dopo essere stato liberato dalla prigionia della maga Armida, nel canto XVIII (► TESTO: Rinaldo vince gli incanti della selva).


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