Ludovico Ariosto
La follia di Orlando
(Orlando furioso, XXIII, 100-136; XXIV, 1-14)
Mentre è alla ricerca del guerriero saraceno Mandricardo con cui deve battersi a duello, Orlando capita casualmente nei luoghi che poco tempo prima videro l'amore felice di Angelica e Medoro, narrato precedentemente dall'autore e conclusosi con la partenza dei due sposi per il Catai: giunto in un "locus amoenus" dove vede dappertutto i segni dell'amore di Angelica e del fante saraceno, tenta dapprima di convincersi che la cosa non sia vera, finché l'incontro fortuito col pastore che aveva dato alloggio ai due amanti gli toglie ogni dubbio e lo priva del senno, facendolo precipitare in una furia cieca e distruttiva. L'episodio ha un'importanza centrale nel poema, non solo ovviamente perché spiega le circostanze in cui Orlando diventa "furioso", ma soprattutto perché dà modo all'autore di ironizzare bonariamente sulla follia di tutti gli uomini, sempre pronti a inseguire le illusioni d'amore anche a costo di perdere la ragione (come è capitato anche ad Ariosto, per sua stessa ironica ammissione). Orlando ritroverà il senno quando Astolfo lo andrà a recuperare sulla Luna.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
XXIII, 100
Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin pel bosco senza via, fece ch'Orlando andò duo giorni in fallo, né lo trovò, né poté averne spia. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le cui sponde un bel pratel fioria, di nativo color vago e dipinto, e di molti e belli arbori distinto. 101 Il merigge facea grato l'orezzo al duro armento ed al pastore ignudo; sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo, che la corazza avea, l'elmo e lo scudo. Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; e v'ebbe travaglioso albergo e crudo, e più che dir si possa empio soggiorno, quell'infelice e sfortunato giorno. 102 Volgendosi ivi intorno, vide scritti molti arbuscelli in su l'ombrosa riva. Tosto che fermi v'ebbe gli occhi e fitti, fu certo esser di man de la sua diva. Questo era un di quei lochi già descritti, ove sovente con Medor veniva da casa del pastore indi vicina la bella donna del Catai regina. 103 Angelica e Medor con cento nodi legati insieme, e in cento lochi vede. Quante lettere son, tanti son chiodi coi quali Amore il cor gli punge e fiede. Va col pensier cercando in mille modi non creder quel ch'al suo dispetto crede: ch'altra Angelica sia, creder si sforza, ch'abbia scritto il suo nome in quella scorza. 104 Poi dice: «Conosco io pur queste note: di tal'io n'ho tante vedute e lette. Finger questo Medoro ella si puote: forse ch'a me questo cognome mette.» Con tali opinion dal ver remote usando fraude a sé medesmo, stette ne la speranza il malcontento Orlando, che si seppe a se stesso ir procacciando. 105 Ma sempre più raccende e più rinuova, quanto spenger più cerca, il rio sospetto: come l'incauto augel che si ritrova in ragna o in visco aver dato di petto, quanto più batte l'ale e più si prova di disbrigar, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s'incurva il monte a guisa d'arco in su la chiara fonte. 106 Aveano in su l'entrata il luogo adorno coi piedi storti edere e viti erranti. Quivi soleano al più cocente giorno stare abbracciati i duo felici amanti. V'aveano i nomi lor dentro e d'intorno, più che in altro dei luoghi circostanti, scritti, qual con carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso. 107 Il mesto conte a piè quivi discese; e vide in su l'entrata de la grotta parole assai, che di sua man distese Medoro avea, che parean scritte allotta. Del gran piacer che ne la grotta prese, questa sentenza in versi avea ridotta. Che fosse culta in suo linguaggio io penso; ed era ne la nostra tale il senso: 108 «Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelunca opaca e di fredde ombre grata, dove la bella Angelica che nacque di Galafron, da molti invano amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità che qui m'è data, io povero Medor ricompensarvi d'altro non posso, che d'ognor lodarvi: 109 e di pregare ogni signore amante, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante, che qui sua volontà meni o Fortuna; ch'all'erbe, all'ombre, all'antro, al rio, alle piante dica: benigno abbiate e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia che non conduca a voi pastor mai greggia.» 110 Era scritto in arabico, che 'l conte intendea così ben come latino: fra molte lingue e molte ch'avea pronte, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò più volte e danni ed onte, che si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n'ebbe frutto; ch'un danno or n'ha, che può scontargli il tutto. 111 Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur cercando invano che non vi fosse quel che v'era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano: ed ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente. 112 Fu allora per uscir del sentimento sì tutto in preda del dolor si lassa. Credete a chi n'ha fatto esperimento, che questo è 'l duol che tutti gli altri passa. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa; né poté aver (che 'l duol l'occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto. 113 L'impetuosa doglia entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar l'acqua nel vase, che largo il ventre e la bocca abbia stretta; che nel voltar che si fa in su la base, l'umor che vorria uscir, tanto s'affretta, e ne l'angusta via tanto s'intrica, ch'a goccia a goccia fuore esce a fatica. 114 Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera, o gravar lui d'insopportabil some tanto di gelosia, che se ne pera; ed abbia quel, sia chi si voglia stato, molto la man di lei bene imitato. 115 In così poca, in così debol speme sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco; indi al suo Brigliadoro il dosso preme, dando già il sole alla sorella loco. Non molto va, che da le vie supreme dei tetti uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare armento: viene alla villa, e piglia alloggiamento. 116 Languido smonta, e lascia Brigliadoro a un discreto garzon che n'abbia cura; altri il disarma, altri gli sproni d'oro gli leva, altri a forbir va l'armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v'ebbe alta avventura. Corcarsi Orlando e non cenar domanda, di dolor sazio e non d'altra vivanda. 117 Quanto più cerca ritrovar quiete, tanto ritrova più travaglio e pena; che de l'odiato scritto ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar, perché men nuocer debbia. 118 Poco gli giova usar fraude a se stesso; che senza domandarne, è chi ne parla. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla, l'istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch'a molti dilettevole fu a udire, gl'incominciò senza rispetto a dire: 119 come esso a prieghi d'Angelica bella portato avea Medoro alla sua villa, ch'era ferito gravemente; e ch'ella curò la piaga, e in pochi dì guarilla: ma che nel cor d'una maggior di quella lei ferì Amor; e di poca scintilla l'accese tanto e sì cocente fuoco, che n'ardea tutta, e non trovava loco: 120 e sanza aver rispetto ch'ella fusse figlia del maggior re ch'abbia il Levante, da troppo amor costretta si condusse a farsi moglie d'un povero fante. All'ultimo l'istoria si ridusse, che 'l pastor fe' portar la gemma inante, ch'alla sua dipartenza, per mercede del buono albergo, Angelica gli diede. 121 Questa conclusion fu la secure che 'l capo a un colpo gli levò dal collo, poi che d'innumerabil battiture si vide il manigoldo Amor satollo. Celar si studia Orlando il duolo; e pure quel gli fa forza, e male asconder pòllo: per lacrime e suspir da bocca e d'occhi convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi. 122 Poi ch'allargare il freno al dolor puote (che resta solo e senza altrui rispetto), giù dagli occhi rigando per le gote sparge un fiume di lacrime sul petto: sospira e geme, e va con spesse ruote di qua di là tutto cercando il letto; e più duro ch'un sasso, e più pungente che se fosse d'urtica, se lo sente. 123 In tanto aspro travaglio gli soccorre che nel medesmo letto in che giaceva, l'ingrata donna venutasi a porre col suo drudo più volte esser doveva. Non altrimenti or quella piuma abborre, né con minor prestezza se ne leva, che de l'erba il villan che s'era messo per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso. 124 Quel letto, quella casa, quel pastore immantinente in tant'odio gli casca, che senza aspettar luna, o che l'albore che va dinanzi al nuovo giorno nasca, piglia l'arme e il destriero, ed esce fuore per mezzo il bosco alla più oscura frasca; e quando poi gli è aviso d'esser solo, con gridi ed urli apre le porte al duolo. 125 Di pianger mai, mai di gridar non resta; né la notte né 'l dì si dà mai pace. Fugge cittadi e borghi, e alla foresta sul terren duro al discoperto giace. Di sé si meraviglia ch'abbia in testa una fontana d'acqua sì vivace, e come sospirar possa mai tanto; e spesso dice a sé così nel pianto: 126 «Queste non son più lacrime, che fuore stillo dagli occhi con sì larga vena. Non suppliron le lacrime al dolore: finir, ch'a mezzo era il dolore a pena. Dal fuoco spinto ora il vitale umore fugge per quella via ch'agli occhi mena; ed è quel che si versa, e trarrà insieme e 'l dolore e la vita all'ore estreme. 127 Questi ch'indizio fan del mio tormento, sospir non sono, né i sospir sono tali. Quelli han triegua talora; io mai non sento che 'l petto mio men la sua pena esali. Amor che m'arde il cor, fa questo vento, mentre dibatte intorno al fuoco l'ali. Amor, con che miracolo lo fai, che 'n fuoco il tenghi, e nol consumi mai? 128 Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch'era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l'ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch'in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l'ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza.» 129 Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar de la diurna fiamma lo tornò il suo destin sopra la fonte dove Medoro isculse l'epigramma. Veder l'ingiuria sua scritta nel monte l'accese sì, ch'in lui non restò dramma che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando fuore. 130 Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo a volo alzar fe' le minute schegge. Infelice quell'antro, ed ogni stelo in cui Medoro e Angelica si legge! Così restar quel dì, ch'ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge: e quella fonte, già si chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura; 131 che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell'onde, fin che da sommo ad imo sì turbolle che non furo mai più chiare né monde. E stanco al fin, e al fin di sudor molle, poi che la lena vinta non risponde allo sdegno, al grave odio, all'ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira. 132 Afflitto e stanco al fin cade ne l'erba, e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. Senza cibo e dormir così si serba, che 'l sole esce tre volte e torna sotto. Di crescer non cessò la pena acerba, che fuor del senno al fin l'ebbe condotto. Il quarto dì, da gran furor commosso, e maglie e piastre si stracciò di dosso. 133 Qui riman l'elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l'usbergo: l'arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l'ispido ventre e tutto 'l petto e 'l tergo; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch'intenda. 134 In tanta rabbia, in tanto furor venne, che rimase offuscato in ogni senso. Di tor la spada in man non gli sovenne; che fatte avria mirabil cose, penso. Ma né quella, né scure, né bipenne era bisogno al suo vigore immenso. Quivi fe' ben de le sue prove eccelse, ch'un alto pino al primo crollo svelse: 135 e svelse dopo il primo altri parecchi, come fosser finocchi, ebuli o aneti; e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi, di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti. Quel ch'un ucellator che s'apparecchi il campo mondo, fa, per por le reti, dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche, facea de cerri e d'altre piante antiche. 136 I pastor che sentito hanno il fracasso, lasciando il gregge sparso alla foresta, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo vi vengono a veder che cosa è questa. Ma son giunto a quel segno il qual s'io passo vi potria la mia istoria esser molesta; ed io la vo' più tosto diferire, che v'abbia per lunghezza a fastidire. XXIV, 1 Chi mette il piè su l'amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v'inveschi l'ale; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de' savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch'altro segnale. E quale è di pazzia segno più espresso che, per altri voler, perder se stesso? 2 Vari gli effetti son, ma la pazzia è tutt'una però, che li fa uscire. Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vo' dire: a chi in amor s'invecchia, oltr'ogni pena, si convengono i ceppi e la catena. 3 Ben mi si potria dir: «Frate, tu vai l'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo.» Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo; ed ho gran cura (e spero farlo ormai) di riposarmi e d'uscir fuor di ballo: ma tosto far, come vorrei, nol posso; che 'l male è penetrato infin all'osso. 4 Signor, ne l'altro canto io vi dicea che 'l forsennato e furioso Orlando trattesi l'arme e sparse al campo avea, squarciati i panni, via gittato il brando, svelte le piante, e risonar facea i cavi sassi e l'alte selve; quando alcun' pastori al suon trasse in quel lato lor stella, o qualche lor grave peccato. 5 Viste del pazzo l'incredibil prove poi più d'appresso e la possanza estrema, si voltan per fuggir, ma non sanno ove, sì come avviene in subitana tema. Il pazzo dietro lor ratto si muove: uno ne piglia, e del capo lo scema con la facilità che torria alcuno da l'arbor pome, o vago fior dal pruno. 6 Per una gamba il grave tronco prese, e quello usò per mazza adosso al resto: in terra un paio addormentato stese, ch'al novissimo dì forse fia desto. Gli altri sgombraro subito il paese, ch'ebbono il piede e il buono aviso presto. Non saria stato il pazzo al seguir lento, se non ch'era già volto al loro armento. 7 Gli agricultori, accorti agli altru'esempli, lascian nei campi aratri e marre e falci: chi monta su le case e chi sui templi (poi che non son sicuri olmi né salci), onde l'orrenda furia si contempli, ch'a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge; e ben è corridor chi da lui fugge. 8 Già potreste sentir come ribombe l'alto rumor ne le propinque ville d'urli e di corni, rusticane trombe, e più spesso che d'altro, il suon di squille; e con spuntoni ed archi e spiedi e frombe veder dai monti sdrucciolarne mille, ed altritanti andar da basso ad alto, per fare al pazzo un villanesco assalto. 9 Qual venir suol nel salso lito l'onda mossa da l'austro ch'a principio scherza, che maggior de la prima è la seconda, e con più forza poi segue la terza; ed ogni volta più l'umore abonda, e ne l'arena più stende la sferza: tal contra Orlando l'empia turba cresce, che giù da balze scende e di valli esce. 10 Fece morir diece persone e diece, che senza ordine alcun gli andaro in mano: e questo chiaro esperimento fece, ch'era assai più sicur starne lontano. Trar sangue da quel corpo a nessun lece, che lo fere e percuote il ferro invano. Al conte il re del ciel tal grazia diede, per porlo a guardia di sua santa fede. 11 Era a periglio di morire Orlando, se fosse di morir stato capace. Potea imparar ch'era a gittare il brando, e poi voler senz'arme essere audace. La turba già s'andava ritirando, vedendo ogni suo colpo uscir fallace. Orlando, poi che più nessun l'attende, verso un borgo di case il camin prende. 12 Dentro non vi trovò piccol né grande, che 'l borgo ognun per tema avea lasciato. V'erano in copia povere vivande, convenienti a un pastorale stato. Senza pane di scerner da le giande, dal digiuno e da l'impeto cacciato, le mani e il dente lasciò andar di botto in quel che trovò prima, o crudo o cotto. 13 E quindi errando per tutto il paese, dava la caccia e agli uomini e alle fere; e scorrendo pei boschi, talor prese i capri isnelli e le damme leggiere. Spesso con orsi e con cingiai contese, e con man nude li pose a giacere: e di lor carne con tutta la spoglia più volte il ventre empì con fiera voglia. 14 Di qua, di là, di su, di giù discorre per tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva, sotto cui largo e pieno d'acqua corre un fiume d'alta e di scoscesa riva. Edificato accanto avea una torre che d'ogn'intorno e di lontan scopriva. Quel che fe' quivi, avete altrove a udire; che di Zerbin mi convien prima dire. |
Lo strano percorso che compì il cavallo del saraceno [Mandricardo] nel bosco senza sentieri, fece sì che Orlando andasse a vuoto per due giorni, e non lo trovò e non poté scoprirne traccia. Giunse ad un ruscello così limpido che sembrava cristallo, sulle cui sponde c'era un bel prato fiorito, con bei fiori variopinti e in cui crescevano molti begli alberi. Il pomeriggio rendeva gradevole la frescura per il duro bestiame e il pastore svestito; così Orlando non sentiva alcun brivido, avendo ancora la corazza, l'elmo e lo scudo. Egli entrò nella radura per riposarsi, ma vi ebbe un soggiorno travagliato e crudo, e peggiore di quanto si possa dire, quel giorno infelice e sfortunato. Volgendo lo sguardo lì attorno, vide che molti alberi erano incisi sulla riva ombrosa del fiume. Non appena vi ebbe fissato gli occhi, fu certo che le scritte fossero della mano della sua donna [Angelica]. Questo era uno di quei luoghi già descritti dove spesso la bella donna regina del Catai veniva con Medoro, dalla casa poco lontana del pastore. Orlando vede i nomi di Angelica e Medoro legati insieme con cento nodi e in cento luoghi diversi. Quante sono quelle lettere incise, sono altrettanti chiodi con cui l'Amore gli punge e gli ferisce il cuore. Cerca in mille modi col pensiero di non credere a ciò che, pur non volendo, deve credere: si sforza di credere che sia un'altra Angelica quella che ha inciso il suo nome in quella corteccia. Poi dice tra sé: «Eppure io conosco questa scrittura: l'ho vista e letta tante volte. Ma forse Angelica si è inventata questo Medoro: forse attribuisce a me questo soprannome». Cercando di ingannare se stesso con queste ipotesi lontane del vero, il povero Orlando rimase nella speranza che seppe così procurare a sé. Ma riaccende e rinnova sempre più il terribile sospetto, quanto più cerca di spegnerlo: come l'incauto uccello, che è incappato in una ragnatela o in una trappola col vischio, quanto più sbatte le ali e prova a liberarsi, tanto più strettamente si trova legato. Orlando giunge dove il monte fa un'ansa simile a un arco sul limpido fiume. Edere e viti erranti avevano decorato il luogo all'ingresso [della grotta] coi loro rami contorti. Qui i due felici amanti [Angelica e Medoro] erano soliti stare abbracciati quando il sole era cocente. Vi avevano scritti i loro nomi dentro e tutt'intorno, più che in qualunque altro luogo lì intorno, a volte col carbone e a volte col gesso, e a volte l'avevano inciso con la punta di un coltello. Il triste conte [Orlando] smontò qui da cavallo e vide all'ingresso della grotta molte parole, che Medoro aveva scritte di suo pugno e che sembravano scritte allora. Egli aveva trascritto in versi questo testo, che narrava del gran piacere che aveva preso in quella grotta. Io penso che fosse scritto nella sua lingua e nella nostra il senso era questo: «Liete piante, erbe verdi, acque limpide, grotta ombrosa e gradevole per le fresche ombre, dove la bella Angelica che nacque da Galafrone, amata invano da molti, spesso giacque nuda tra le mie braccia; io, povero Medoro, per la comodità che mi avete offerto qui, non posso ricompensarvi se non lodandovi sempre: e [posso solo] pregare ogni signore amante, e i cavalieri e le dame e ogni persona, del posto o straniera, che la sua volontà o il caso conduca qui, affinché dica alle erbe, alle ombre, alla grotta, al fiume, alle piante: vi siano benevoli il sole e la luna, e il coro delle ninfe possa proteggervi a che nessun pastore conduca mai da voi il gregge». Era scritto in arabo, che il conte [Orlando] conosceva bene come il latino: fra le molte lingue che sapeva bene, di quella era espertissimo e spesso gli evitò danni e sconfitte, quando si trovò tra il popolo saraceno: ma non se ne vanti, se un tempo gli fu utile, poiché ora ne ha un danno che può fargli scontare tutto. Quell'infelice lesse lo scritto svariate volte, pur cercando invano di non trovarci quello che diceva; e lo vedeva invece sempre più chiaro ed evidente: ed ogni volta si sentiva il cuore in mezzo al petto stretto da una mano gelida. Rimase infine con gli occhi e la mente fissi sulla roccia, non molto diverso da essa [impietrito]. Allora fu sul punto di uscire di senno, tanto era in preda al dolore. Credete a me che l'ho sperimentato, questo è il dolore che supera tutti gli altri. Il mento gli era caduto sopra il petto e la fronte era bassa, priva di audacia; e non poté trovare voce per lamentarsi, o lacrime per piangere, a tal punto era pieno di dolore. Il dolore impetuoso gli rimase dentro, poiché voleva uscire con troppa fretta. Così vediamo l'acqua che resta nel vaso con il ventre largo e l'apertura stretta, infatti quando lo si capovolge l'acqua che vorrebbe uscire si concentra e si ferma nell'apertura stretta, cosicché ne esce a fatica, goccia a goccia. Poi torna alquanto in sé e pensa come sia possibile che quella cosa non sia vera: pensa che qualcuno voglia infamare in tal modo il nome della sua donna, e lo desidera e lo spera, oppure che qualcuno voglia far soffrire lui con l'insopportabile peso della gelosia, fino a farlo morire; e pensa che quel qualcuno, chiunque sia, abbia molto ben imitato la mano di Angelica. In una speranza così scarsa e debole risveglia il suo spirito e lo rinfranca un poco; quindi sprona il suo Brigliadoro, quando il sole ormai lascia spazio alla luna [è il tramonto]. Non va molto lontano, quando dai camini sui tetti vede uscire il fumo, sente abbaiare i cani e muggire le bestie: giunge a una fattoria e prende qui alloggio. Smonta stanco e lascia Brigliadoro a un bravo ragazzo perché ne abbia cura; un altro gli leva le armi, un altro gli toglie gli sproni d'oro, un altro va a pulire l'armatura. Questa era la casa dove Medoro giacque ferito e dove visse la sua avventura amorosa. Orlando chiede di coricarsi senza cenare, sazio di dolore e di nessun altro cibo. Ma quanto più cerca di trovar riposo, tanto più trova travaglio e dolore; infatti vede ogni parete, ogni porta, ogni finestra piena di quelle odiate scritte. Vorrebbe chiederne, poi tiene la bocca chiusa, poiché teme di rendere troppo chiara la cosa che cerca di tenere avvolta nella nebbia, per soffrire di meno. Tuttavia gli serve a poco cercare di ingannarsi, poiché anche se non domanda c'è chi gliene parla. Il pastore, che lo vede così triste e che vorrebbe sollevarlo, incominciò senza alcun rispetto a narrargli la storia che lui sapeva e che raccontava spesso a chi voleva ascoltarla, quella di quei due amanti che a molti fu piacevole da ascoltare: [narrò] come alle preghiere della bella Angelica aveva condotto Medoro alla sua fattoria, ferito gravemente; e che lei gli curò la ferita e la guarì in pochi giorni: ma Amore ne aprì un'altra nel cuore a lei, assai più grande; e da una piccola scintilla l'accese un fuoco così grande e cocente che ne bruciava tutta e non poteva soffocarlo: e senza pensare che lei fosse la figlia del più grande re d'Oriente, costretta da quell'amore assoluto decise di diventare la moglie di un povero fante. Alla fine della storia il pastore fece portare la gemma che Angelica, alla sua partenza, gli aveva dato come compenso per l'ospitalità. Questa conclusione fu la scure che con un colpo solo tagliò la testa di Orlando, quando il malvagio Amore si vide soddisfatto di averlo colpito innumerevoli volte. Orlando cerca di nascondere il dolore, e pure quello lo preme e non riesce a celarlo: alla fine è inevitabile che, volente o nolente, gli esca dalla bocca e dagli occhi sotto forma di sospiri e lacrime. E quando può allentare il freno al dolore, essendo rimasto solo e senza riguardo per altri, sparge dagli occhi un fiume di lacrime che gli rigano le guance e gli cadono sul petto: sospira e geme e va rigirandosi per tutto il letto facendo ampi movimenti; e lo sente più duro di un sasso, e più pungente di un'ortica. In quel grande travaglio gli viene in mente che anche l'ingrata Angelica doveva essersi sdraiata più volte col suo amante in quello stesso letto in cui giaceva. Ora odia quel letto non diversamente, e se ne alza con rapidità non minore, del contadino che si è messo a dormire nell'erba e veda vicino a sé un serpente. Quel letto, quella casa, quel pastore gli vengono subito in odio, tanto che senza aspettare la luna, o che spunti l'alba del nuovo giorno, prende l'armatura e il cavallo ed esce fuori, inoltrandosi nel fitto della boscaglia; e quando poi pensa di esser solo, apre le porte al dolore con grida ed urli. Non cessa mai di piangere, né di gridare, né si dà mai pace giorno o notte. Evita le città e i borghi e dorme nella foresta, all'aperto sul duro terreno. Si meraviglia del fatto che in testa abbia una fontana d'acqua così viva e come possa sospirare tanto; e spesso dice tra sé così nel pianto: «Queste, che faccio uscire dagli occhi in così gran quantità, non sono più lacrime. Le lacrime non bastarono al dolore: finirono quando il dolore era appena a metà. Ora l'umore vitale, spinto dal fuoco, fugge attraverso quella via [i condotti lacrimali] che porta agli occhi; ed è quello, non le lacrime, che si versa, e porterà il dolore e la vita alla loro fine. Questi che mostrano il mio tormento non sono sospiri, né i sospiri sono così. Quelli talvolta si arrestano; io, invece, non sento mai che il mio petto esali in misura minore la mia pena. Amore, che mi brucia il cuore, produce questo vento mentre sbatte intorno al fuoco le sue ali. Amore, com'è questa meraviglia, che alimenti il fuoco e non lo fai mai consumare? Io non sono, non sono quello che sembro in viso: colui che era Orlando è morto ed è sottoterra; la sua donna ingrata lo ha ucciso: infatti, mancandogli di parola, gli ha fatto guerra. Io sono il suo spirito diviso da lui, che erra tormentandosi in questo inferno, affinché sia di esempio con la sua ombra, che sola si conserva, a chi pone la sua speranza in amore». Il conte errò nel bosco tutta la notte; allo spuntare del sole il suo destino lo fece tornare sul fiume dove Medoro scolpì nella roccia l'epigramma. Vedere la sua offesa scritta nel monte lo accese a tal punto, che in lui non restò proprio nulla che non fosse odio, rabbia, ira e furore; non indugiò più e sguainò la spada. Distrusse lo scritto e la roccia e fece alzare le schegge minute sino al cielo. Infelice quella grotta ed ogni albero in cui si legge di Angelica e Medoro! Quel giorno furono ridotti in tale stato, che non offriranno mai più ombra né frescura a pastori o a greggi: e quel fiume, prima così chiaro e limpido, fu poco sicuro da una tale ira: infatti Orlando non smise di gettare rami, ceppi, tronchi, sassi e zolle nelle belle acque, finché le turbò tutte a tal punto che non furono mai più terse né pulite. E alla fine, stanco e bagnato di sudore, quando le forze non rispondono più allo sdegno e al grande odio e all'ira ardente, cade sul prato e sospira verso il cielo. Afflitto e stremato alla fine cade sull'erba, e fissa gli occhi al cielo e sta in silenzio. Per tre giorni e tre notti rimane così, senza assumere cibo e senza dormire. La pena aspra non cessò di aumentare, fino a fargli perdere completamente il senno. Il quarto giorno, spinto da gran furore, si staccò di dosso le maglie e le piastre dell'armatura. L'elmo rimane qua e lo scudo là, le armi lontane e la corazza ancora più lontana: insomma, per farla breve tutte le sue armi si sparsero negli angoli del bosco. E poi si stracciò le vesti e denudò il ventre ispido e tutto il petto e la schiena; e cominciò la grande follia, così orrenda che non se ne sentirà mai raccontare una maggiore. Gli venne una tale rabbia, un tale furore che ogni suo senso rimase offuscato. Non pensò a prendere in mano la spada; e con quella avrebbe fatto cose straordinarie, penso. Ma al suo immenso vigore non serviva né quella, né una scure, né una bipenne. Qui diede subito prova della sua forza, poiché al primo tentativo divelse un alto pino: e dopo quello ne estirpò molti altri, come se fossero finocchi, ebbi o aneti; e fece lo stesso con querce e vecchi olmi, con faggi, orni, lecci e abeti. Quello che un cacciatore, per tendere le reti, fa per liberare il campo strappando i giunchi, le stoppie e le ortiche, Orlando lo faceva con i cerri e le altre antiche piante. I pastori che hanno sentito quel fracasso, lasciando le greggi sparse nel bosco, vengono tutti qui a vedere che cosa succede, chi da una parte chi dall'altra. Ma io sono arrivato a quel punto, superato il quale, la mia storia potrebbe recarvi fastidio; ed io la voglio rimandare, piuttosto che possa riuscirvi molesta. Chi mette il piede nella trappola di amore cerchi di tirarlo indietro e non vi si invischi con le ali; infatti, secondo il giudizio unanime dei saggi, non c'è amore senza follia: e anche se non tutti danno in ismanie come Orlando, chi ama mostra la sua pazzia in qualche altro modo. E c'è forse una segno di pazzia più evidente del perdere se stessi per volere un altro? Gli effetti sono vari, ma la pazzia che li fa uscire di senno è sempre la stessa. È come una gran foresta dove chi si addentra deve per forza sbagliare strada: ognuno si smarrisce in luoghi diversi. Per concludere, insomma, vi voglio dire questo: chi ama per molto tempo, oltre ad ogni altro dolore, deve indossare ceppi e catene [deve ammattire]. Certo mi si potrebbe dire: «Amico, tu insegni agli altri e non vedi il tuo errore». Io vi rispondo che capisco bene, ora che godo di un intervallo di lucidità mentale; e cerco in ogni modo, e ormai spero di farlo, di riposarmi e sottrarmi alle pene amorose: ma non posso farlo subito come vorrei, poiché il male mi è penetrato fin nelle ossa. Signore [Ippolito], nel canto precedente vi dicevo che Orlando, ormai fuori di senno, si era tolto le armi e le aveva sparse per il campo, si era strappato le vesti e gettata via la spada, aveva divelto le piante e faceva risuonare le grotte e le profonde selve; quando alcuni pastori furono richiamati da quella parte dalla loro cattiva stella, o da qualche loro grave peccato. Dopo aver visto le incredibili azioni del pazzo, più da vicino, e la sua estrema potenza, si voltano per fuggire ma non sanno dove, proprio come accade quando si ha improvvisamente paura. Il pazzo si muove rapido a inseguirli: ne prende uno e gli spicca la testa dal collo con la facilità con cui si potrebbe staccare un frutto dall'albero, o un bel fiore dal pruno. Prese il tronco pesante per una gamba e lo usò come mazza contro gli altri: ne stese un paio a terra storditi, che forse si sveglieranno il Giorno del Giudizio. Gli altri se ne andarono subito via, avendo il piede e l'intelligenza pronta. Il pazzo sarebbe stato svelto a seguirli, se non che si era già rivolto al loro bestiame. Gli agricoltori, vedendo l'esempio dei pastori, lasciano nei campi gli aratri, le marre e le falci: alcuni montano sulle case e sui templi, poiché gli olmi e i salici non sono sicuri, da dove possano vedere l'orrenda furia [di Orlando] che distrugge e fa a pezzi cavalli e buoi a pugni, a urti, a morsi, a graffi, a calci; e quelli che scappano da lui devono correre veloci Già si potrebbe sentire come rimbomba nelle fattorie vicine il gran rumore delle urla e dei corni e delle trombe rustiche, e più frequente ancora il suono delle campane; e si potrebbero vedere mille uomini scendere dai monti con aste, archi, spiedi e fionde, e altrettanti salire dal basso in alto, per condurre un assalto da contadini al pazzo. Come sull'arena del mare l'onda spinta dal vento austro suole venire all'inizio debole, mentre la seconda è più violenta della prima, e la terza segue con maggior forza, e ogni volta l'acqua è più copiosa e colpisce con veemenza via via più grande la sabbia: così contro Orlando cresce lo stuolo di villani, che scende dai monti e sale dalle valli. Orlando fece morire venti persone, che gli finirono in mano a caso: e questo dimostrò chiaramente che era meglio stargli alla larga. A nessuno è lecito far uscire sangue da quel corpo, che è percosso e colpito invano dal ferro. Il re del cielo diede questa grazia [l'invulnerabilità] al conte, per porlo a guardia della sua santa fede. Orlando avrebbe rischiato di morire, se ne fosse stato capace. Poteva imparare cosa vuol dire gettar via la spada e poi voler essere audace senz'armi. La turba si stava ormai ritirando, vedendo che ogni suo colpo non andava a segno. Orlando, visto che nessuno bada a lui, prende il cammino verso un borgo di case. Dentro non vi trovò nessuno, né piccolo né grande, poiché ognuno aveva lasciato il borgo per paura. C'era una gran quantità di poveri cibi, che si addicevano alla condizione dei pastori. Senza distinguere il pane dalle ghiande, spinto dal digiuno e dall'impeto, Orlando avventò le mani e i denti su quello che trovò prima, crudo o cotto. E vagando da lì per tutto il paese, dava la caccia a uomini e bestie; e correndo per i boschi, talvolta catturò capri snelli e agili capriole. Spesso lottò con orsi e cinghiali, e li sopraffece a mani nude: e più volte si riempì avidamente il ventre con la loro carne e tutta la pelliccia. Percorre tutta la Francia in lungo e in largo; e un giorno arriva a un ponte, sotto al quale scorre un fiume largo e pieno d'acqua, da una riva scoscesa. Accanto era costruita una torre che mostrava ogni luogo lì intorno e lontano. Quello che Orlando fece qui, lo sentirete più avanti; prima devo raccontare di Zerbino. |
Interpretazione complessiva
- L'episodio ha ovviamente un ruolo centrale nella trama del poema, poiché Orlando apprende del "tradimento" di Angelica che ha sposato Medoro e perde completamente il senno, abbandonandosi a una furia cieca e distruttrice: a causa della sua pazzia (da cui il titolo dell'opera) il paladino si sottrarrà ai suoi doveri militari e farà mancare il suo decisivo apporto alla guerra contro i Mori, rendendo necessario l'intervento di Astolfo che dovrà andare sulla Luna a recuperare la sua ragione (► TESTO: Astolfo sulla Luna). Ciò che rende "furioso" Orlando non è solo la relazione in sé di Angelica e Medoro, ma soprattutto il fatto che l'uomo da lei scelto sia un saraceno e per giunta un umile fante, dunque l'eroe è mortificato anche nella sua condizione di nobile cavaliere oltre che di amante. Il passo si ricollega ovviamente a quanto narrato in precedenza (XIX, 17 ss.), allorché Angelica trovava Medoro ferito gravemente dopo l'episodio con Cloridano e lo curava, portandolo alla casa del pastore e innamorandosi di lui fino a sposarlo (► TESTO: L'amore di Angelica e Medoro). I due amanti avevano già incontrato Orlando in preda alla follia sul lido di Tarragona, mentre erano in procinto di imbarcarsi per l'Oriente (XIX, 42), ma l'uomo era stato presentato come un "pazzo" e ci viene spiegato solo ora di chi si trattava in realtà; l'episodio verrà riproposto più avanti, al canto XXIX (► TESTO: Orlando e Angelica a Tarragona).
- Il passo mostra in modo ironico e paradossale le conseguenze della "follia" d'amore su Orlando, facendo anche bonarie considerazioni sul fatto che l'amore ha conseguenze più o meno simili quasi su tutti: Ariosto ironizza anche su se stesso (XIX, 3), riprendendo quanto già dichiarato nel proemio dell'opera e cioè la sua assoluta devozione ad Alessandra Benucci, non nominata ma che divenne sua moglie dopo avergli dato il figlio Virginio. La bonaria ironia sui rischi dell'amore rientra nella più generale considerazione circa la follia degli uomini, che sprecano la loro vita inseguendo vane illusioni (inclusa la fama e le ricchezze) come detto in più di un passo del poema.
- La follia di Orlando emerge in tre momenti successivi dell'episodio, presentati con una sorta di climax ascendente e non senza molta ironia: prima il paladino capita nel locus amoenus dove Angelica e Medoro vissero la loro relazione e vede i loro nomi incisi sulla corteccia degli alberi, poi legge il "madrigale" amoroso scolpito da Medoro all'ingresso della grotta dove tenevano i loro convegni amorosi, infine apprende tutto dal pastore nella cui "villa" ha preso alloggio e che gli toglie ogni dubbio mostrandogli la gemma che Angelica gli aveva donato e che era a sua volta un dono di Orlando. I primi due momenti contengono vari riferimenti alla poesia petrarchesca (si veda oltre), mentre l'episodio a casa del pastore ha più un sapore da commedia, con il grottesco equivoco dell'anfitrione che, credendo di risollevare l'animo di Orlando, finisce per gettarlo nella disperazione. Il motivo dei nomi incisi sugli alberi verrà ripreso da T. Tasso nella Gerusalemme liberata, quando Erminia ospitata dai pastori si struggerà nel suo amore infelice per Tancredi (► TESTO: Erminia tra i pastori).
- Numerosi i riferimenti alla poesia petrarchesca nel passo, specie nei momenti iniziali: il locus amoenus visitato da Orlando ha molte analogie con il paesaggio di molti componimenti di Petrarca, inclusa la canzone Chiare, fresche et dolci acque che è riecheggiata anche dall'epigramma scritto da Medoro in cui il fante ringrazia gli elementi della natura per aver favorito il suo amore con Angelica (► TESTO: Chiare, fresche et dolci acque). Il locus amoenus verrà poi distrutto da Orlando in preda alla pazzia, anche qui non senza una citazione petrarchesca in 130, 2 ("a volo alzar fe' le minute schegge"), che ricorda "e 'l giorno andrà pien di minute stelle" della sestina A qualunque animale alberga in terra (RVF, XXII, 38). Lo stesso Orlando imita la poesia petrarchista del Cinquecento nelle ott. 126-128, quando afferma che quelle che versa non sono lacrime, bensì è l'umore vitale che il fuoco dell'amore fa sprigionare dai suoi occhi, mentre i sospiri sono in realtà il vento prodotto dalle ali che l'amore sbatte per alimentare le fiamme (l'immagine è decisamente ricercata e sembra già inclinare verso gli eccessi del Manierismo).
- La follia trasforma Orlando in un bruto selvaggio e sanguinario, che si libera dell'armatura e si straccia le vesti quasi denudandosi, quindi inizia a svellere le piante come fossero fuscelli distruggendo tutto ciò che incontra sul suo cammino, simile a un gigante inarrestabile (il paladino è invulnerabile e perciò niente può opporsi alla sua furia). Il trattamento riservato ai poveri pastori e contadini che gli capitano a tiro o che osano opporsi a lui è tremendo, poiché ad uno di loro stacca la testa dal busto e poi si serve del suo corpo per colpire gli altri, mentre quando affronta lo stuolo di contadini che cerca di fermarlo ne spazza via un gran numero senza subire neppure un graffio. La scena è iperbolica e paradossale, tuttavia rivela anche la mentalità dell'autore che, essendo nobile, non può che considerare contadini e pastori come creature inferiori, semplici comparse in una sequenza in cui il protagonista assoluto è ovviamente Orlando (la cultura di Ariosto è quella del mondo di corte del Rinascimento e come tale lontanissima dalla sensibilità moderna, oltre ad essere indifferente per il mondo contadino estraneo a quella società aristocratica).
- Le armi lasciate da Orlando nella radura vengono poi trovate da Zerbino e Isabella (XXIV, 48 ss.) capitati lì in cerca del paladino, che le raccolgono e ne fanno un trofeo con una scritta che impone a chiunque di non toccarle: sopraggiunge però poco dopo il saraceno Mandricardo, che vuole impadronirsi della spada di Orlando, Durindana, e affronta a duello Zerbino che cerca cavallerescamente di impedirglielo, ma viene ferito a morte dal pagano e morirà poco dopo tra le braccia di Isabella. La spada finirà poi nelle mani di Gradasso (XXX), che sarà ucciso da Orlando una volta recuperato il senno (XLIII).
- Nella trasposizione televisiva del poema realizzata dal regista Luca Ronconi per la RAI (1975), l'episodio della follia di Orlando è ridotto ai suoi termini essenziali e mostra il paladino che scopre della relazione tra Angelica e Medoro leggendo le scritte sugli alberi e nella grotta, mentre il passaggio a casa del pastore è eliminato e Orlando perde subito il senno, abbandonandosi alle violenze contro i malcapitati pastori che incontra sul suo cammino (► TELEVISIONE: Orlando furioso). Rispetto al testo originale la rivisitazione televisiva presenta un'astmosfera molto più cupa e quasi stralunata, molto lontana dall'ironia beffarda e un po' goliardica che si riscontra nelle ottave dell'Ariosto.