Angelo Poliziano
Il regno di Venere
(Stanze, I, 68-92)
Cupido, dopo aver compiuto la sua vendetta ai danni di Iulio facendolo innamorare di Simonetta, torna nel regno della madre Venere sull'isola di Cipro, dove il palazzo della dea sorge al centro di un meraviglioso giardino in cui vige l'eterna primavera e il clima è sempre propizio all'amore, in maniera conforme alla volontà di colei che è la signora di questo luogo incantato. La descrizione del giardino, come quella successiva del palazzo di Venere forgiato dal dio Vulcano e raffigurante vari momenti del mito classico, diventerà un "topos" della letteratura umanistica e influenzerà altre simili descrizioni poetiche, specie nei poemi cavallereschi del Cinquecento.
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Angelo Poliziano
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Angelo Poliziano
68
Ma fatta Amor la sua bella vendetta, mossesi lieto pel negro aere a volo, e ginne al regno di sua madre in fretta, ov’è de’ picciol suoi fratei lo stuolo: al regno ov’ogni Grazia si diletta, ove Biltà di fiori al crin fa brolo, ove tutto lascivo, drieto a Flora, Zefiro vola e la verde erba infiora. 69 Or canta meco un po’ del dolce regno, Erato bella, che ’l nome hai d’amore; tu sola, benché casta, puoi nel regno secura entrar di Venere e d’Amore; tu de’ versi amorosi hai sola il regno, teco sovente a cantar viensi Amore; e, posta giù dagli omer la faretra, tenta le corde di tua bella cetra. 70 Vagheggia Cipri un dilettoso monte, che del gran Nilo e sette corni vede e ’l primo rosseggiar dell’orizonte, ove poggiar non lice al mortal piede. Nel giogo un verde colle alza la fronte, sotto esso aprico un lieto pratel siede, u’ scherzando tra’ fior lascive aurette fan dolcemente tremolar l’erbette. 71 Corona un muro d’or l’estreme sponde con valle ombrosa di schietti arbuscelli, ove in su’ rami fra novelle fronde cantano i loro amor soavi augelli. Sentesi un grato mormorio dell’onde, che fan duo freschi e lucidi ruscelli, versando dolce con amar liquore, ove arma l’oro de’ suoi strali Amore. 72 Né mai le chiome del giardino eterno tenera brina o fresca neve imbianca; ivi non osa entrar ghiacciato verno, non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca; ivi non volgon gli anni il lor quaderno, ma lieta Primavera mai non manca, ch’e suoi crin biondi e crespi all’aura spiega, e mille fiori in ghirlandetta lega. 73 Lungo le rive e frati di Cupido, che solo uson ferir la plebe ignota, con alte voci e fanciullesco grido aguzzon lor saette ad una cota. Piacere e Insidia, posati in sul lido, volgono il perno alla sanguigna rota, e ’l fallace Sperar col van Disio spargon nel sasso l’acqua del bel rio. 74 Dolce Paura e timido Diletto, dolce Ire e dolce Pace insieme vanno; le Lacrime si lavon tutto il petto e ’l fiumicello amaro crescer fanno; Pallore smorto e paventoso Affetto con Magreza si duole e con Affanno; vigil Sospetto ogni sentiero spia, Letizia balla in mezo della via. 75 Voluttà con Belleza si gavazza, va fuggendo il Contento e siede Angoscia, el ceco Errore or qua or là svolazza, percuotesi il Furor con man la coscia; la Penitenzia misera stramazza, che del passato error s’è accorta poscia, nel sangue Crudeltà lieta si ficca, e la Desperazion se stessa impicca. 76 Tacito Inganno e simulato Riso con Cenni astuti messaggier de’ cori, e fissi Sguardi, con pietoso viso, tendon lacciuoli a Gioventù tra’ fiori. Stassi, col volto in sulla palma assiso, el Pianto in compagnia de’ suo’ Dolori; e quinci e quindi vola sanza modo Licenzia non ristretta in alcun nodo. 77 Con tal milizia e suoi figli accompagna Venere bella, madre delli Amori. Zefiro il prato di rugiada bagna, spargendolo di mille vaghi odori: ovunque vola, veste la campagna di rose, gigli, violette e fiori; l’erba di sue belleze ha maraviglia: bianca, cilestra, pallida e vermiglia. 78 Trema la mammoletta verginella con occhi bassi, onesta e vergognosa; ma vie più lieta, più ridente e bella, ardisce aprire il seno al sol la rosa: questa di verde gemma s’incappella, quella si mostra allo sportel vezosa, l’altra, che ’n dolce foco ardea pur ora, languida cade e ’l bel pratello infiora. 79 L’alba nutrica d’amoroso nembo gialle, sanguigne e candide viole; descritto ha ’l suo dolor Iacinto in grembo, Narcisso al rio si specchia come suole; in bianca vesta con purpureo lembo si gira Clizia palidetta al sole; Adon rinfresca a Venere il suo pianto, tre lingue mostra Croco, e ride Acanto. 80 Mai rivestì di tante gemme l’erba la novella stagion che ’l mondo aviva. Sovresso il verde colle alza superba l’ombrosa chioma u’ el sol mai non arriva; e sotto vel di spessi rami serba fresca e gelata una fontana viva, con sì pura, tranquilla e chiara vena, che gli occhi non offesi al fondo mena. 81 L’acqua da viva pomice zampilla, che con suo arco il bel monte sospende; e, per fiorito solco indi tranquilla pingendo ogni sua orma, al fonte scende: dalle cui labra un grato umor distilla, che ’l premio di lor ombre alli arbor rende; ciascun si pasce a mensa non avara, e par che l’un dell’altro cresca a gara. 82 Cresce l’abeto schietto e sanza nocchi da spander l’ale a Borea in mezo l’onde; l’elce che par di mèl tutta trabocchi, e ’l laur che tanto fa bramar suo fronde; bagna Cipresso ancor pel cervio gli occhi con chiome or aspre, e già distese e bionde; ma l’alber, che già tanto ad Ercol piacque, col platan si trastulla intorno all’acque. 83 Surge robusto el cerro, et alto el faggio, nodoso el cornio, e ’l salcio umido e lento; l’olmo fronzuto, e ’l frassin pur selvaggio; el pino alletta con suoi fischi il vento. L’avorniol tesse ghirlandette al maggio, ma l’acer d’un color non è contento; la lenta palma serba pregio a’ forti, l’ellera va carpon co’ piè distorti. 84 Mostronsi adorne le vite novelle d’abiti varie e con diversa faccia: questa gonfiando fa crepar la pelle, questa racquista le già perse braccia; quella tessendo vaghe e liete ombrelle, pur con pampinee fronde Apollo scaccia; quella ancor monca piange a capo chino, spargendo or acqua per versar poi vino. 85 El chiuso e crespo bosso al vento ondeggia, e fa la piaggia di verdura adorna; el mirto, che sua dea sempre vagheggia, di bianchi fiori e verdi capelli orna. Ivi ogni fera per amor vaneggia, l’un ver l’altro i montoni armon le corna, l’un l’altro cozza, l’un l’altro martella, davanti all’amorosa pecorella. 86 E mughianti giovenchi a piè del colle fan vie più cruda e dispietata guerra, col collo e il petto insanguinato e molle, spargendo al ciel co’ piè l’erbosa terra. Pien di sanguigna schiuma el cinghial bolle, le larghe zanne arruota e il grifo serra, e rugghia e raspa e, per più armar sue forze, frega il calloso cuoio a dure scorze. 87 Pruovon lor punga e daini paurosi, e per l’amata druda arditi fansi; ma con pelle vergata, aspri e rabbiosi, e tigri infuriati a ferir vansi; sbatton le code e con occhi focosi ruggendo i fier leon di petto dansi; zufola e soffia il serpe per la biscia, mentre ella con tre lingue al sol si liscia. 88 El cervio appresso alla Massilia fera co’ piè levati la sua sposa abbraccia; fra l’erbe ove più ride primavera, l’un coniglio coll’altro s’accovaccia; le semplicette lepri vanno a schiera, de’ can secure, ad amorosa traccia: sì l’odio antico e ’l natural timore ne’ petti ammorza, quando vuole, Amore. 89 E muti pesci in frotta van notando dentro al vivente e tenero cristallo, e spesso intorno al fonte roteando guidon felice e dilettoso ballo; tal volta sovra l’acqua, un po’ guizzando, mentre l’un l’altro segue, escono a gallo: ogni loro atto sembra festa e gioco, né spengon le fredde acque il dolce foco. 90 Li augelletti dipinti intra le foglie fanno l’aere addolcir con nuove rime, e fra più voci un’armonia s’accoglie di sì beate note e sì sublime, che mente involta in queste umane spoglie non potria sormontare alle sue cime; e dove Amor gli scorge pel boschetto, salton di ramo in ramo a lor diletto. 91 Al canto della selva Ecco rimbomba, ma sotto l’ombra che ogni ramo annoda, la passeretta gracchia e a torno romba; spiega il pavon la sua gemmata coda, bacia el suo dolce sposo la colomba, e bianchi cigni fan sonar la proda; e presso alla sua vaga tortorella il pappagallo squittisce e favella. 92 Quivi Cupido e’ suoi pennuti frati, lassi già di ferir uomini e dei, prendon diporto, e colli strali aurati fan sentire alle fere i crudi omei; la dea Ciprigna fra’ suoi dolci nati spesso sen viene, e Pasitea con lei, quetando in lieve sonno gli occhi belli fra l’erbe e’ fiori e’ gioveni arbuscelli. |
Ma Cupido, dopo aver compiuto la sua bella vendetta, si mosse lieto volando nell'aria oscura e andò velocemente al regno di sua madre, dove c'è lo stuolo dei suoi piccoli fratelli [gli Amorini]: al regno dove ogni Grazia si diletta, dove la Bellezza fa una ghirlanda di fiori sui capelli, dove Zefiro, tutto lascivo, vola dietro a Flora e riempe di fiori l'erba verde. Adesso, Erato bella, canta un po' insieme a me del dolce regno [di Venere], tu che hai il nome di Amore; tu sola, anche se sei pura, puoi entrare sicura nel regno di Venere e Amore; tu sei la sola ad avere il dominio dei versi amorosi e spesso Amore viene a cantare con te, e poi, deposta la faretra dalle spalle, suona sulle corde della tua bella cetra. Cipro è abbellita da un gradevole monte, da cui si vedono i sette rami della foce del Nilo e il primo rosseggiare dell'alba all'orizzonte, dove agli uomini non è lecito porre il piede. Sulla cima si protende un verde colle, sotto il quale c'è un lieto praticello soleggiato, dove lascivi venticelli scherzando fanno dolcemente tremare l'erbetta. Le sponde estreme [del monte] sono circondate da un muro dorato, dove soavi uccellini cantano le loro melodie amorose sui rami, tra foglie novelle. Si sente un gradevole mormorio di onde, prodotto da due freschi e limpidi ruscelli che versano acque dolci e amare, dove Cupido arma l'oro delle sue frecce. Né la tenera brina né la neve fresca imbianca mai la cima di questo eterno giardino; qui il gelido inverno non osa penetrare, il vento non affatica mai le erbe o i ramoscelli; qui gli anni non scorrono normalmente, mentre c'è sempre la lieta Primavera, che dispiega all'aria i suoi capelli biondi e ricci e compone una ghirlandetta con mille fiori. Lungo le rive i fratelli di Cupido [gli Amorini], che sono soliti colpire solo la plebe sconosciuta, aguzzano le loro frecce con la cote tra grida acute e urli fanciulleschi. Il Piacere e l'Insidia, fermi sul lido, girano il perno alla ruota color sangue [la cote], mentre la fallace Speranza e il vano Desiderio spargono l'acqua del bel ruscello sulla pietra [della cote]. La dolce Paura e il timoroso Diletto, la dolce Ira e la dolce Pace vanno insieme; le Lacrime lavano tutto il petto e fanno crescere l'amaro fiumicello; il Pallore smorto e il timoroso Affetto si dolgono con la Magrezza e con l'Affanno; il vigile Sospetto spia ogni sentiero, la Letizia balla in mezzo alla via. La Voluttà si rallegra con la Bellezza, la Contentezza fugge e arriva l'Angoscia, l'Errore cieco svolazza qua e là, il Furore si colpisce la coscia con la mano; il misero Pentimento stramazza, essendosi accorto dopo dell'errore, la Crudeltà si caccia lieta nel sangue e la Disperazione impicca se stessa. Il tacito Inganno e il Riso simulato, messaggeri dei cori con astuti Cenni, e gli Sguardi fissi, con un viso pietoso, tendono lacci alla Gioventù tra i fiori. Il Pianto, in compagnia dei suoi Dolori, se ne sta seduto col volto tra le mani; e la Licenza, non contenuta da nessun vincolo, vola qua e là senza posa. La bella Venere, madre degli Amori, accompagna i suoi figli con un simile esercito. Il vento Zefiro bagna di rugiada il prato, spargendolo di mille piacevoli profumi: ovunque vola, riveste la campagna di rose, gigli, violette e altri fiori; l'erba mostra le meraviglie della sua bellezza: bianca, azzurra, pallida e rossa. La giovane verginella trema e abbassa gli occhi, timida e vergognosa; invece la rosa, assai più lieta, più piacevole e bella, ha il coraggio di aprire i suoi petali al sole: alcune rose si coprono il capo con una verde gemma, altre si mostrano vezzose alla finestra, altre ancora, che poco prima erano rosseggianti, adesso cadono appassite e colorano il bel praticello. L'alba nutre con una nube amorosa viole gialle, rosse e bianche; Giacinto ha il suo dolore descritto nel proprio grembo [nel colore dei petali], Narciso si specchia nel fiume come è solito fare; Clizia [il girasole] ruota pallida verso il sole, in una veste bianca con lembo di porpora; Adone [l'anemone] rinnova in Venere il dolore della sua morte, Croco [lo zafferano] mostra tre linee rosse e Acanto ride. La nuova stagione [la primavera] che ravviva il mondo non rivestì mai l'erba di tanti fiori. Il verde colle alza superba la sua chioma ombrosa, fin dove il sole non può arrivare; e sotto un velo di fitti rami mantiene fresca e gelida una vivace fontana, con una vena così pura, tranquilla e limpida che consente agli occhi di vederne facilmente il fondo. L'acqua zampilla da una viva roccia, che inarcandosi sembra sorreggere il bel monte; e di qui scende tranquilla al ruscello, colorando [di fiori] ogni suo passo lungo un solco fiorito: dalle sue labbra stilla un gradevole umore, che ricambia agli alberi per il dono della loro ombra; ciascuno di loro [gli alberi] si nutre ad una tavola non povera e sembra che facciano a gara a chi cresce di più. L'abete cresce dritto e privo di nodi, così da poter ricavare da esso il legno delle navi che aprono le ali al vento Borea in mezzo al mare; [cresce] il leccio, che sembra traboccare di miele, e il lauro che induce tanto a desiderare le sue foglie; il cipresso piange ancora per aver ucciso un cervo, con foglie che ora sono ispide e furono un tempo ampie e bionde; ma l'albero che piacque tanto ad Ercole [il pioppo] si trastulla intorno alle acque col platano. Il cerro si innalza robusto e il faggio è alto; il corniolo è nodoso e il salice umido e flessibile; l'olmo è ricco di fronde e il frassino è selvaggio; il pino alletta il vento con i suoi fischi. L'ornello intreccia a maggio delle ghirlande, ma l'acero non si accontenta di un solo colore; la palma flessuosa concede pregio ai gloriosi, l'edera va carponi con i rami storti. Le vite novelle si mostrano rivestite di abiti vari e con volto diverso: alcune, rigonfie, fanno screpolare la pelle, altre riacquistano già i rami potati; altre, intrecciando belli e gradevoli pergolati, scacciano il dio Apollo [il sole] solo con fronde di pampini; altre, ancora prive di rami, piangono a capo chino, facendo stillare acqua che si tramuterà poi in vino. Il bosso compatto e grinzoso ondeggia al vento e abbellisce la pianura di verde; il mirto, che vagheggia sempre la sua dea [Venere], adorna di fiori bianchi e verdi i capelli. Qui ogni bestia è folle d'amore, i montoni si scontrano con le corna a vicenda, cozzano e si martellano l'un contro l'altro, davanti alla pecora di cui sono invaghiti. I tori mugghianti ai piedi del colle fanno una guerra ancor più cruda e spietata, col collo e il petto molli di sangue, spargendo con le zampe al cielo la terra erbosa. Il cinghiale ribolle pieno di schiuma sanguinolenta, arrota le ampie zanne e serra il muso, e ruggisce e raspa, mentre per accrescere le sue forze sfrega la pelle callosa contro dure cortecce. I daini paurosi provano a lottare, e si fanno coraggiosi per l'amata femmina; invece le tigri dalla pelle rigata, aspre e rabbiose, vanno furiose a ferirsi; i feroci leoni sbattono le code e ruggendo con occhi focosi si cozzano nel petto; il serpente sibila e soffia per amore della biscia, mentre lei si liscia al sole con triplice lingua. Il cervo, davanti al leone di Libia, con le zampe levate abbraccia la sua femmina; fra le erbe dove la primavera è più rigogliosa i conigli si accoppiano; le semplici lepri vanno insieme a cacciare le loro femmine, sicure di non essere cacciate dai cani: così Amore, quando vuole, smorza nei petti l'antico odio e il timore istintivo. E pesci muti nuotano a frotte nell'acqua vivace e limpida del ruscello, e spesso ruotando intorno alla fonte guidano una felice e piacevole danza: talvolta escono fuori dall'acqua, guizzando un poco mentre si inseguono a vicenda: ogni loro gesto sembra una festa e un gioco, né le fredde acque spengono il dolce fuoco [della passione]. Gli uccellini variopinti tra le foglie addolciscono l'aria con i loro canti, e fra tante voci si crea un'armonia di note così beate e sublimi che una mente prigioniera di un corpo mortale non potrebbe giungere a una tale altezza; e quando Cupido li scorge nel boschetto, saltano da un ramo all'altro a loro piacere. Al canto del bosco l'Eco rimbomba, ma sotto l'ombra che è prodotta da ogni ramo il passero gracchia e fa frusciare alternativamente le ali; il pavone dispiega la sua coda piena di occhi, la colomba tuba con il suo dolce compagno, e i bianchi cigni fanno risuonare le rive; e il pappagallo stride e parla accanto alla sua bella femmina. Qui Cupido e i suoi fratelli alati [gli Amorini], quando sono stanchi di colpire uomini e dei, si riposano e con le frecce dorate fanno sentire alle bestie i crudeli dolori [le pene d'amore]; la dea Ciprigna [Venere] spesso viene tra i suoi dolci figli, e Pasitea [una delle Grazie] insieme a lei, acquietando i begli occhi con un leggero sonno, tra le erbe, i fiori e i giovani arbusti. |
Interpretazione complessiva
- Il brano introduce il lettore al luogo dove regna Venere e in cui si svolgerà il tema encomiastico al centro dell'opera, dunque vi è un innalzamento della materia letteraria sottolineato anche dal piccolo proemio che l'autore premette alla descrizione: Poliziano invoca l'assistenza di Erato, musa della poesia amorosa e divinità collegata a Venere e Amore, nome quest'ultimo che figura ripetuto tre volte in rima (ott. 69, vv. 2-4-6), inoltre la musa è chiamata "casta" (a intendere che l'amore tra Iulio e Simonetta sarà puro e libero da implicazioni carnali) e viene accostata alla faretra, che rimanda alla caccia e all'attività di Cupido, nonché alla cetra che rientra nella simbologia della dea. L'elevazione dello stile si spiega alla luce di quanto avverrà nel quadro successivo, in cui Cupido parlerà con la madre Venere e le rivelerà quanto avvenuto a Iulio-Giuliano, iniziando un vero e proprio panegirico dell'intera famiglia Medici (► TESTO: La celebrazione dei Medici).
- La descrizione del regno di Venere riprende quella del locus amoenus di derivazione classica e presenta il luogo come un meraviglioso giardino posto su di un inaccessibile monte nell'isola di Cipro, lontano dal mondo degli uomini e a questi precluso: gli elementi naturali rimandano al mito dell'età dell'oro dei poeti antichi e infatti nel giardino vi sono erbe verdi, un lieto venticello che muove le fronde degli alberi, il canto armonioso degli uccelli, nonché due freschi ruscelli che scorrono in mezzo ai prati; il luogo è caratterizzato da un'eterna primavera, propizia allo sbocciare degli amori, e l'intera descrizione riprende molti elementi dell'Eden dantesco, con la differenza che qui tutto è in funzione dell'amore terreno e il giardino è popolato da Cupido e i suoi fratelli (► TESTO: L'incontro con Matelda). Poliziano descrive un regno di bellezza artificiale e separato dalla realtà umana che fornirà il prototipo di tante altre pagine letterarie del Cinquecento, tra cui merita citare il luogo dove Angelica si rifugia nel Canto I del Furioso (► TESTO: La fuga di Angelica/2) e il giardino incantato della maga Armida nella Liberata (► TESTO: Il giardino di Armida), sia pure con intenti diversi dai rispettivi autori (Ariosto si rifà ancora al locus amoenus, mentre Tasso descrive un paradiso creato dalle arti demoniache che esercita una colpevole attrattiva sui sensi).
- La natura lussureggiante del luogo incantato è dominata dal concetto di amore e a ciò rimanda anzitutto la presenza del vento primaverile dello zefiro, che fa sbocciare ovunque fiori profumati e variopinti (conformemente al topos classico della primavera come stagione amorosa per eccellenza), mentre il paragone tra la "mammoletta verginella" e la rosa (ott. 78) riprende il tema umanistico della bellezza che va colta nel momento propizio, presente anche nella celebre ballata di Poliziano (► TESTO: I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino) e in altri testi del Cinquecento. La parte finale del passo è tutta dedicata agli amori delle bestie che popolano questo angolo appartato, descrizione in cui il tema dominante è il prevalere dell'istinto amoroso anche a scapito di quello che spinge i predatori a cacciare le prede, per cui ad es. il cervo può inseguire la sua compagna al sicuro dal leone di Libia e anche le lepri fanno lo stesso incuranti dei cani (a indicare che nel regno di Venere è la dea dell'amore a prevalere su Marte, dio della guerra, tema già presente nella letteratura classica e variamente ripreso dagli scrittori dell'età rinascimentale).