Francesco Petrarca
Elogio dell'uomo solitario
(De vita solitaria, I, 2)
In questo passo tratto dal libro I del trattato l'autore descrive in termini idilliaci la vita appartata dell'uomo che vive lontano dagli altri, contrapponendo la sua solitudine e la sua tranquilla serenità alla vita caotica e frenetica dell'uomo pieno di occupazioni, che non può dedicarsi alla preghiera e alla ricerca di Dio. La pagina sembra dunque un elogio di quella vita ascetica e di raccoglimento spirituale che l'autore sempre ricercò, tuttavia l'atteggiamento descritto appare come una meta difficilmente raggiungibile e rimanda piuttosto agli "otia" letterari di sapore classico coltivati nel ritiro di Valchiusa, evocati soprattutto dall'elenco delle occupazioni degli uomini indaffarati che ricorda pagine simili di autori latini (Seneca prima di tutti).
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Francesco Petrarca
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Francesco Petrarca
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Si alza nel cuor della notte l'indaffarato, infelice abitante della città, poiché il sonno gli è stato interrotto dalle sue preoccupazioni e dalle voci dei clienti [1]; spesso anche per paura della luce, spesso atterrito da notturne visioni. Subito si lascia andare su di un triste sgabello e l'animo volge agli inganni: si dà tutto a quelli, e pensa al prezzo da fissare alle merci, o al modo di ingannare il compagno o il pupillo [2], di stendere con le parole un velo di giustizia su di un'ingiusta contestazione, di operare infine qualche corruzione in pubblico o in privato. Ora si fa trascinare dall'ira, ora arde di desiderio, ora è agghiacciato dalla disperazione: così quel tristo artefice ordisce prima dell'alba la tela delle occupazioni diurne, in cui avvolgere se stesso e gli altri. Si alza l'uomo solitario e tranquillo, sereno, ristorato da un conveniente riposo, dopo aver non interrotto ma terminato il suo breve sonno, e destato talvolta dal canto del notturno usignolo. Appena sceso dolcemente dal letto e scosso il torpore, incomincia a cantare nelle ore di riposo, e prega il portiere delle sue labbra [3] di aprirle devotamente alle lodi mattutine che stanno per uscirne; invoca in suo aiuto il Signore del suo cuore e, non fidandosi affatto delle sue forze, conscio e timoroso dei pericoli che lo sovrastano, lo scongiura di affrettarsi. Non rivolge l'attenzione a meditare frode alcuna; rinnovella invece, non solo ogni giorno, ma ogni ora, la gloria di Dio e le lodi dei santi, con l'opera instancabile della lingua e la dedizione devota del cuore: ché alle volte il ricordo dei doni divini non abbia a cancellarsi dall'animo ingrato. E spesso frattanto - mirabile a dirsi - preso da tranquillo timore e da trepida speranza, memore del passato e presago del futuro, è invaso da un lieto dolore e da lacrime di gioia. Non c'è godimento di uomini indaffarati, non delizia cittadina, non pompa regale, che possa uguagliare una tal condizione. Guardando poi il cielo e le stelle, e sospirando con tutta l'anima al signore Dio suo che ha lì sua dimora, e dal luogo del suo esilio pensando alla patria [4], si dedica subito a qualche bella e piacevole lettura; e cosi, nutritosi di cibi deliziosi, attende con una gran pace nell'anima la prima luce che sta per venire. Il giorno è arrivato, con differenti speranze atteso. Quegli ha l'abitazione invasa da amici nemici, viene salutato, chiamato, trascinato, sospinto, biasimato, diffamato. Questi ha sgombro l'ingresso, e, s'intende, ha libertà di rimanersene in casa o di andare dove vuole. Quegli si avvia triste nel Foro, pieno di noie e di affanni, e trae dagli uccelli gli auspici [5] per l'inizio del giorno imminente. Questi se ne va di buon passo nel boschetto vicino, tutto calmo e tranquillo, e inizia con gioia e con buoni auspici una giornata serena. [Traduzione di A. Bufano, Ricciardi, Milano-Napoli 1955] |
[1] I "clienti" nell'antica Roma erano i protetti degli uomini ricchi e potenti. [2] Il "pupillo" è il protetto del "patrono", dell'uomo politico. [3] Dio (definito ianitor labiorum suorum). [4] Per il cristiano la Terra è il luogo del temporaneo esilio dell'anima, destinata a tornare alla sua vera patria, il cielo. [5] Trarre gli auspici nell'antica Roma voleva dire interpretare il volere degli dei osservando il volo degli uccelli. |
Interpretazione complessiva
- Il brano mette polemicamente a confronto il risveglio dell'uomo "indaffarato", che ha dormito male durante la notte perché assillato dalle preoccupazioni relative agli affari o alla politica e vivrà una giornata piena di fastidi, con quello dell'uomo "ozioso", che non è impegnato in simili attività e può trascorrere il giorno lodando Dio e, soprattutto, dedicarsi allo studio e alla lettura, nutrendosi di "cibi deliziosi". La descrizione dell'uomo che vive appartato e lontano dalla città (vista come luogo degli affari e del caos, inadatta alla meditazione) è idilliaca ed è vista come qualcosa di irraggiungibile, a meno di ritirarsi in un luogo appartato come faceva l'autore nel suo ritiro di Valchiusa, non a caso lontana dalla affollata Avignone e dove concepiva gran parte delle sue opere. Essa inoltre è presentata come un otium letterario di tipo classico, cui rimandano gli elementi testuali relativi alla vita dell'antica Roma (i clienti, il Foro, l'attività giudiziaria, il trarre gli auspici dagli uccelli...), unitamente agli elementi propri della vita religiosa che, tuttavia, risultano estranei all'autentica ispirazione del brano e sembrano aggiunti in modo posticcio, non del tutto convinto.
- L'elenco delle occupazioni diurne che turbano il sonno degli "indaffarati" ricorda la pagina in cui Seneca nel De brevitate vitae descrive la vita umana come sufficientemente lunga per raggiungere la virtù, a patto di non sprecarla in inutili attività come fanno gli occupati: "Quanti sono coloro a cui il popolo dei clienti sta tutt’attorno e non lascia un attimo libero! Infine passa in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più importanti: uno cerca l’avvocato, l’altro lo assiste, uno è in pericolo, l’altro lo difende, uno giudica, nessuno riesce a liberarsi, ognuno si consuma per l’altro" (II, 1).