Letteratura italiana
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Cielo d'Alcamo


«Rosa fresca aulentissima»

Questo celebre "contrasto" presenta un vivace dialogo tra uno spasimante di origine popolare e una giovane donna che all'inizio fa la ritrosa e finge di rifiutare il corteggiamento dell'uomo, per poi cedere gradualmente e alla fine concedersi pienamente a lui: attribuito a un Cielo d'Alcamo (probabilmente un giullare siciliano o di origine meridionale) e risalente agli anni centrali del XIII sec., il testo è un tipico esempio della poesia comica e giullaresca che fiorì nell'Italia del Due-Trecento, essendo destinato forse alla recitazione a più voci di fronte a un pubblico di illetterati, come forma di "teatro di strada". La lingua presenta una commistione di termini aulici e tipici della letteratura "alta" con espressioni popolari e gergali, per cui non è da escludere un intento parodistico verso la poesia lirica amorosa (l'autore doveva certamente essere un personaggio colto).

► PERCORSI: La poesia comica e giullaresca / La lirica amorosa






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«Rosa fresca aulentis[s]ima   ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano,   pulzell’ e maritate:
tràgemi d’este focora,   se t’este a bolontate;
  per te non ajo abento notte e dia,
  penzando pur di voi, madonna mia».

«Se di meve trabàgliti,   follia lo ti fa fare.
Lo mar potresti arompere,   a venti asemenare,
l’abere d’esto secolo   tut[t]o quanto asembrare:
  avere me non pòteri a esto monno;
  avanti li cavelli m’aritonno».

«Se li cavelli artón[n]iti,   avanti foss’io morto,
ca’n is[s]i [sí] mi pèrdera   lo solacc[i]o e ’l diporto.
Quando ci passo e véjoti,   rosa fresca de l’orto,
  bono conforto dónimi tut[t]ore:
  poniamo che s’ajúnga il nostro amore».

«Che ’l nostro amore ajúngasi,   non boglio m’atalenti:
se ci ti trova pàremo   cogli altri miei parenti,
guarda non t’ar[i]golgano   questi forti cor[r]enti.
  Como ti seppe bona la venuta,
  consiglio che ti guardi a la partuta».

«Se i tuoi parenti trova[n]mi,   e che mi pozzon fare?
Una difensa mèt[t]onci   di dumili’ agostari:
non mi toc[c]ara pàdreto   per quanto avere ha ’n Bari.
  Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!
  Intendi, bella, quel che ti dico eo?»

«Tu me no lasci vivere   né sera né maitino.
Donna mi so’ di pèrperi,   d’auro massamotino.
Se tanto aver donàssemi   quanto ha lo Saladino,
  e per ajunta quant’ha lo soldano,
  toc[c]are me non pòteri a la mano».

«Molte sono le femine   c’hanno dura la testa,
e l’omo con parabole   l’adímina e amonesta:
tanto intorno procazzala   fin che·ll’ha in sua podesta.
  Femina d’omo non si può tenere:
  guàrdati, bella, pur de ripentere».

«K’eo ne [pur ri]pentésseme?   davanti foss’io aucisa
ca nulla bona femina   per me fosse ripresa!
[A]ersera passàstici,   cor[r]enno a la distesa.
  Aquístati riposa, canzonieri:
  le tue parole a me non piac[c]ion gueri».

«Quante sono le schiantora   che m’ha’ mise a lo core,
e solo purpenzànnome   la dia quanno vo fore!
Femina d’esto secolo   tanto non amai ancore
  quant’amo teve, rosa invidïata:
  ben credo che mi fosti distinata».

«Se distinata fósseti,    caderia de l’altezze,
ché male messe fòrano in teve mie bellezze.
Se tut[t]o adiveníssemi, tagliàrami le trezze,
  e consore m’arenno a una magione,
  avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone».

«Se tu consore arènneti,    donna col viso cleri,
a lo mostero vènoci    e rènnomi confleri:
per tanta prova vencerti    fàralo volontieri.
  Conteco stao la sera e lo maitino:
  besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino».

«Boimè tapina misera,    com’ao reo distinato!
Geso Cristo l’altissimo    del tut[t]o m’è airato:
concepístimi a abàttare    in omo blestiemato.
  Cerca la terra ch’este gran[n]e assai,
  chiú bella donna di me troverai».

«Cercat’ajo Calabr[ï]a,   Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli,   Genoa, Pisa e Soria,
Lamagna e Babilonïa   [e] tut[t]a Barberia:
  donna non [ci] trovai tanto cortese,
  per che sovrana di meve te prese».

«Poi tanto trabagliàsti[ti],   fac[c]ioti meo pregheri
che tu vadi adomàn[n]imi   a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti degnano,   menami a lo mosteri,
  e sposami davanti da la jente;
  e poi farò le tuo comannamente».

«Di ciò che dici, vítama,   neiente non ti bale,
ca de le tuo parabole   fatto n’ho ponti e scale.
Penne penzasti met[t]ere,   sonti cadute l’ale;
  e dato t’ajo la bolta sot[t]ana.
  Dunque, se po[t]i, tèniti villana».

«En paura non met[t]ermi   di nullo manganiello:
istòmi ’n esta grorïa   d’esto forte castiello;
prezzo le tuo parabole   meno che d’un zitello.
  Se tu no levi e va’tine di quaci,
  se tu ci fosse morto, ben mi chiaci».

«Dunque vor[r]esti, vítama,   ca per te fosse strutto?
Se morto essere déb[b]oci   od intagliato tut[t]o,
di quaci non mi mòs[s]era   se non ai’ de lo frutto
  lo quale stäo ne lo tuo jardino:
  disïolo la sera e lo matino».

«Di quel frutto non àb[b]ero   conti né cabalieri;
molto lo disïa[ro]no   marchesi e justizieri,
avere no’nde pòttero:   gíro’nde molto feri.
  Intendi bene ciò che bol[io] dire?
  Men’este di mill’onze lo tuo abere».

«Molti so’ li garofani,   ma non che salma ’nd’ài:
bella, non dispregiàremi   s’avanti non m’assai.
Se vento è in proda e gírasi   e giungeti a le prai,
  arimembrare t’ao [e]ste parole,
  ca de[n]tr’a ’sta animella assai mi dole».

«Macara se dolés[s]eti   che cadesse angosciato:
la gente ci cor[r]es[s]oro   da traverso e da·llato;
tut[t]’a meve dicessono:   ’Acor[r]i esto malnato’!
  Non ti degnara porgere la mano
  per quanto avere ha ’l papa e lo soldano».

«Deo lo volesse, vitama,   te fosse morto in casa!
L’arma n’anderia cònsola,   ca dí e notte pantasa.
La jente ti chiamàrono:   ’Oi perjura malvasa,
  c’ha’ morto l’omo in càsata, traíta!’
  Sanz’on[n]i colpo lèvimi la vita».

«Se tu no levi e va’tine   co la maladizione,
li frati miei ti trovano   dentro chissa magione.
[...] be·llo mi sof[f]ero   pèrdici la persone,
  ca meve se’ venuto a sormonare;
  parente néd amico non t’ha aitare».

«A meve non aítano   amici né parenti:
istrani’ mi so’, càrama,   enfra esta bona jente.
Or fa un anno, vítama,   che ’ntrata mi se’ ['n] mente.
  Di canno ti vististi lo maiuto,
  bella, da quello jorno so’ feruto».

«Di tanno ’namoràstiti,   [tu] Iuda lo traíto,
como se fosse porpore,   iscarlato o sciamito?
S’a le Va[n]gele júrimi   che mi sï’ a marito,
  avere me non pòter’a esto monno:
  avanti in mare [j]ít[t]omi al perfonno».

«Se tu nel mare gít[t]iti,   donna cortese e fina,
dereto mi ti mísera   per tut[t]a la marina,
[e da] poi c’anegàs[s]eti,   trobàrati a la rena
  solo per questa cosa adimpretare:
  conteco m’ajo a[g]giungere a pec[c]are».

«Segnomi in Patre e ’n Filïo   ed i[n] santo Mat[t]eo:
so ca non se’ tu retico   [o] figlio di giudeo,
e cotale parabole   non udi’ dire anch’eo.
  Morta si [è] la femina a lo ’ntutto,
  pèrdeci lo saboro e lo disdotto».

«Bene lo saccio, càrama:   altro non pozzo fare.
Se quisso non arcòmplimi,   làssone lo cantare.
Fallo, mia donna, plàzzati,   ché bene lo puoi fare.
  Ancora tu no m’ami, molto t’amo,
  sí m’hai preso come lo pesce a l’amo».

«Sazzo che m’ami, [e] àmoti   di core paladino.
Lèvati suso e vatene,   tornaci a lo matino.
Se ciò che dico fàcemi,   di bon cor t’amo e fino.
  Quisso t’[ad]imprometto sanza faglia:
  te’ la mia fede che m’hai in tua baglia».

«Per zo che dici, càrama,   neiente non mi movo.
Intanti pren[n]i e scànnami:   tolli esto cortel novo.
Esto fatto far pòtesi   intanti scalfi un uovo.
  Arcompli mi’ talento, [a]mica bella,
  ché l’arma co lo core mi si ’nfella».

«Ben sazzo, l’arma dòleti,   com’omo ch’ave arsura.
Esto fatto non pòtesi   per null’altra misura:
se non ha’ le Vangel[ï]e,   che mo ti dico ’Jura’,
  avere me non puoi in tua podesta;
  intanti pren[n]i e tagliami la testa».

«Le Vangel[ï]e, càrama?   ch’io le porto in seno:
a lo mostero présile   (non ci era lo patrino).
Sovr’esto libro júroti   mai non ti vegno meno.
  Arcompli mi’ talento in caritate,
  ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate».

«Meo sire, poi juràstimi,   eo tut[t]a quanta incenno.
Sono a la tua presenz[ï]a,   da voi non mi difenno.
S’eo minespreso àjoti,   merzé, a voi m’arenno.
  A lo letto ne gimo a la bon’ora,
  ché chissa cosa n’è data in ventura».

«Rosa fresca e profumatissima che sbocci all'inizio dell'estate, le donne nubili e maritate ti desiderano: liberami da questa passione, se ne hai la volontà; a causa tua non ho pace notte e giorno, pensando solo a voi, mia signora».


«Se soffri a causa mia, è la follia che ti spinge a farlo. Potresti arare il mare, seminare ai venti, mettere insieme tutte le ricchezze di questo mondo: non puoi avermi a nessun costo e piuttosto mi taglio i capelli [mi faccio monaca]».

«Se ti tagli i capelli [se diventi monaca] preferirei morire, poiché con essi perderei ogni gioia e felicità. Quando passo di qui e ti vedo, rosa fresca del giardino, mi dai piacere in ogni momento: facciamo in modo che il nostro amore si unisca».


«Che il nostro amore si unisca non voglio che mi piaccia: se ti trova qui mio padre con gli altri miei parenti, sta' attento che questi forti corridori non ti raggiungano. Come sei stato rapido a venire qui, ti consiglio di esserlo altrettanto ad andartene».

«Se i tuoi parenti mi trovano, cosa mi possono fare? Ci metto una difesa di duemila augustali [moneta del regno di Federico II]: tuo padre non mi toccherà per quante ricchezze ha a Bari. Viva l'imperatore, grazie a Dio! Capisci, bella, quello che ti dico?»


«Tu non mi lasci vivere né alla sera né al mattino. Io sono una donna che possiede monete di Bisanzio [pèrperi] e oro massamotino [usato dai califfi Almoadi]. Se mi donassi tante ricchezze quante possiede il Saladino, e in aggiunta quante ha il Sultano, non potresti neanche toccarmi la mano».

«Sono molte le donne testarde, e l'uomo con le sue parole le domina e le persuade: la incalza tutt'intorno, finché non l'ha in suo potere. Una donna non può fare a meno dell'uomo: sta' attenta, bella, di non pentirti».

«Attenta a non pentirmi? Possa essere uccisa, prima che qualche donna onesta sia rimproverata col mio esempio! Tempo fa sei passato di qui correndo a più non posso. Prenditi riposo, canterino: le tue parole non mi piacciono affatto».


«Quanti sono i dolori che mi hai messo in cuore, e solo pensandoci il giorno quanto esco! Non ho mai amato una donna quanto amo te, rosa invidiata: credo proprio che mi fossi destinata».



«Se ti fossi destinata cadrei da molto in alto, poiché la mia bellezza sarebbe poco adatta a te. Se mi capitasse tutto ciò [se ti cedessi], mi taglierei le trecce e mi farei suora in un convento, prima che tu potessi toccare il mio corpo».

«Se tu diventerai suora, donna dal viso splendente, verrò al monastero e mi farò frate anch'io: lo farò volentieri, pur di vincerti in questa prova. Con te starò la sera e il mattino: bisogna che io ti abbia in mio potere».


«Ahimè, povera me, che destino crudele è il mio! L'altissimo Gesù Cristo si è proprio adirato con me: mi hai creato per incontrare un uomo sacrilego. Cerca nel mondo che è molto grande, perché troverai una donna più bella di me».


«Ho cercato in Calabria, in Toscana e in Lombardia, in Puglia, a Costantinopoli, a Genova, a Pisa e in Siria, in Germania, a Babilonia e in tutto il Nordafrica: non trovai una donna tanto nobile, per cui ti ho scelto come mia signora».

«Poiché ti sei presa tanta pena, io ti prego che tu vada a chiedere la mia mano a mia madre e a mio padre. Se si degnano di darmi a te [in sposa], portami al monastero e sposami davanti alla gente; e poi obbedirò ad ogni tuo ordine».


«Tutto ciò che dici, vita mia, non ti serve a niente, poiché di parole come le tue ne ho sentite tante. Pensavi di mettere le penne, ma ti sono cadute le ali; e io ti ho dato il colpo di grazia. Dunque, se puoi, continua a comportarti da villana [da contadina]».


«Non credere di farmi paura con una macchina da assedio: io sono ben protetta da questo robusto castello e stimo le tue parole meno di quelle di un bambino. Se tu non ti allontani e non te ne vai di qua, mi piaci altrettanto che se tu fossi morto».



«Dunque, vita mia, vorresti che io fossi ucciso? Se anche dovessi morire o essere fatto a pezzi, non mi muoverei di qui prima di godere il frutto che sta nel tuo giardino: lo desidero sera e mattino»
.


«Quel frutto [il mio amore] non l'hanno avuto conti né cavalieri; lo hanno molto desiderato marchesi e giudici, e non poterono averlo: per cui se ne andarono molto adirati. Capisci bene quel che ti voglio dire? Il tuo avere è inferiore di mille once [non puoi avermi perché sei molto più povero]».


«Molti sono i chiodi di garofano, ma non tanti che tu ne abbia una salma [una gran quantità]: bella, non disprezzarmi se prima non mi provi [mi assaggi]. Se il vento è a poppa e si gira e ti raggiungo sulla spiaggia, devi ricordarti queste parole, poiché nella mia anima provo molto dolore».


«Se anche tu provassi tanto dolore da essere angosciato, e la gente corresse da una parte all'altra e tutti mi dicessero: "Soccorri questo poveretto!", non mi degnerei neppure di porgerti la mano, per quante ricchezze possiedono il papa e il sultano».


«Lo volesse Dio, vita mia, che io fossi morto in casa tua! L'anima, che delira giorno e notte, se ne andrebbe consolata. La gente ti direbbe: "O spergiura malvagia, hai ucciso un uomo in casa tua, traditrice! Mi uccidi senza colpo ferire».



«Se tu non ti allontani e te ne vai, che il malanno ti ci colga, i miei fratelli ti trovano dentro questa casa. [...] ben lo sopporto, tu perderai la vita perché sei venuto qui a infastidirmi; né un parente né un amico ti possono aiutare».



«Non mi aiutano amici né parenti: sono uno straniero tra questa brava gente. È ormai un anno, vita mia, che sei entrata nella mia mente. Da quando hai indossato il maiuto [una specie di panno], bella, da quel giorno sono stato ferito [dal tuo amore]».



«Da allora ti sei innamorato, tu Giuda traditore, come se fosse porpora, o un'altra stoffa preziosa? Se tu non giuri sul Vangelo che mi sposi, non puoi avermi a nessun prezzo: piuttosto mi butto nella profondità del mare».


«Se tu getti in mare, donna nobile e raffinata, io ti verrò dietro per tutta la distesa dell'acqua, e dopo che sarai annegata ti troverò sulla spiaggia solo per ottenere questa cosa: devo congiungermi insieme a te per peccare».



«Mi faccio il segno della croce nel [nome del] Padre, del Figlio e di S. Matteo: so che non sei un eretico né il figlio di un ebreo, e io non ho mai sentito dire tali parole. Se la donna è morta del tutto, ci perdi il gusto e il piacere».


«Lo so bene, cara mia: non posso fare altro. Se qui non esaudisci il mio desiderio, smetto di cantare. Fallo, mia signora, abbi la compiacenza, poiché lo puoi fare di certo. Anche se tu non mi ami, io ti amo molto: mi hai preso come un pesce all'amo».



«Lo so che mi ami, e io ti amo di cuore, lealmente. Ora alzati e vattene, torna qui domattina. Se fai per me ciò che dico, ti amerò di buon cuore e lealmente. Qui te lo prometto senza fallo: eccoti la mia parola, mi hai in tuo potere».



«Per quello che dici, mia cara, non mi muovo per niente. Piuttosto prendi e scannami, impugna questo coltello nuovo. Questa cosa si può fare prima che scaldi [prima di cuocere] un uovo. Esaudisci il mio desiderio, amica bella, poiché l'anima e il cuore mi si intristiscono».


«Lo so bene, l'anima ti duole come un uomo che ha sete. Questa cosa non si può realizzare in nessun altro modo: se non hai il Vangelo affinché io dica "Giura", non puoi avermi in tuo potere; piuttosto prendimi e tagliami la testa».


«Il Vangelo, mia cara? Io lo porto in tasca: l'ho rubato in chiesa (il prete non c'era). Su questo libro ti giuro di non tradirti mai. Esaudisci il mio desiderio, per favore, poiché l'anima mi si sta consumando».




«Mio signore, poiché hai giurato, io sono tutta un fuoco. Mi offro a te, non mi difendo più da voi. Se ti ho disprezzato, [ti chiedo] perdono, mi arrendo a voi. Andiamo subito a letto, poiché questa cosa ci è stata assegnata dalla sorte».


Interpretazione complessiva

  • Il contrasto è formato da 32 strofe di cinque versi ciascuna, di cui i primi tre sono alessandrini monorima (due settenari accoppiati, di cui il primo sempre sdrucciolo), gli altri due endecasillabi piani (rima AAA BB). Sono presenti alcune "rime siciliane", prob. per le correzioni dei copisti, come ai vv. 21-23 (-are/-ari), 36-38 (-isa/-esa), 89-90 (-ire/-ere), 111-113 (-enti/-ente), 129-130 (-utto/-otto), 151-153 (-eno/-ino), 159-160 (-ora/-ura).
  • Ogni strofa corrisponde a una battuta pronunciata alternativamente dall'uomo e dalla donna, secondo il classico schema del contrasto tipico della poesia comica: l'uomo, che si può identificare col giullare, corteggia la giovane cercando di indurla a concedersi, lei all'inizio sdegna le sue profferte e fa la preziosa, per poi arrendersi e concedersi pienamente a lui. La lingua presenta un fondo di volgare siciliano con vari prestiti da altre parlate, del Sud Italia e di altre tradizioni: accanto a sicilianismi come focora, bolontate, abento e ai possessivi del tipo pàremo, pàdreto, ("mio padre", "tuo padre"), vítama ("vita mia"), càrama ("mia cara"), vi sono provenzalismi (maitino, amonesta) e francesismi (cleri, mon peri), nonché termini della tradizione aulica (Lamagna, tolli, madonna mia). Il testo mostra un interessante contrappunto di termini ed espressioni proprie della lirica "alta", usate soprattutto dall'uomo per corteggiare la fanciulla, con parole del lessico popolare che sono ribattute spesso dalla donna per respingerlo.
  • Ciascuno dei due interlocutori ribatte spesso riprendendo le ultime parole dell'altro, secondo lo schema tipicamente provenzale delle capfinidas (ovviamente su un livello più basso): gli argomenti usati dalla donna per respingere la corte sono, almeno all'inizio, il disprezzo per la più bassa condizione sociale dell'amante e una certa vanteria della ricchezza della sua famiglia, per poi iniziare a cedere proponendo lei stessa un matrimonio (vv. 66-70); più avanti si accontenterà di una solenne promessa di fedeltà sul Vangelo (118-120), che alla fine l'uomo farà su un testo sacro che ha rubato in chiesa (151-153). La conclusione è paradossale, poiché sarà proprio la donna a invitare lo spasimante a unirsi a lei, dopo tutte le ripulse delle battute precedenti.
  • Ai vv. 121-125 il giullare fa riferimento a una legge contenuta nelle Costituzioni di Melfi emanate dall'imperatore Federico II nel 1231, in base alle quali chi veniva aggredito in strada poteva appellarsi al nome del sovrano e fissare una multa per l'aggressore, che qui l'uomo ipotizza dell'ammontare di duemila augustali (si tratta di monete in oro coniate proprio in quel periodo). Questo, unitamente al fatto che si accenna a Federico come ancora vivente, consente di fissare la composizione del testo nel periodo 1231-1250, sicuramente in Sicilia o in un'altra terra soggetta alla giurisdizione imperiale.
  • Il v. 3 (tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate) è citato da Dante in DVE, I, 12, 6 come esempio di volgare siciliano non illustre, senza ulteriori indicazioni sull'autore.


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