Giovanni Boccaccio
Tancredi e Ghismunda
(Decameron, IV, 1)
Nella novella che apre la quarta giornata, dedicata agli amori infelici, Fiammetta narra della triste vicenda di Ghismunda, figlia del principe di Salerno che, rimasta vedova e non ottenendo un nuovo marito dal padre, intreccia una relazione con un valletto di nome Guiscardo, escogitando un accorto sistema per i loro convegni amorosi. Tancredi, il padre della donna, scopre fortuitamente la tresca e fa imprigionare Guiscardo, ordinando poi di metterlo a morte, e la figlia, dopo aver rivendicato con fierezza il suo diritto a soddisfare i propri desideri amorosi, si uccide per il dolore della perdita del suo innamorato. Il racconto è uno dei più retoricamente elevati del "Decameron" e mette bene in luce la novità della visione da parte di Boccaccio della tematica amorosa, con l'affermare che la ricerca del piacere non è affatto un tabù e reprimerla può anzi causare gravi conseguenze, come nel caso della protagonista. Pur rifacendosi ai motivi della letteratura cortese, l'autore rielabora il "topos" dell'amore adultero e dimostra tutta la modernità della sua concezione laica della vita, segnando una distanza incolmabile rispetto alla tradizione precedente.
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Giovanni Boccaccio
► OPERA: Decameron
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Giovanni Boccaccio
► OPERA: Decameron
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Tancredi prenze di Salerno uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore. Fiera materia di ragionare n’ha oggi il nostro re [1] data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontare l’altrui lagrime, le quali dir non si possono, che chi le dice e chi l’ode non abbia compassione. Forse per temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati l’ha fatto; ma, che che se l’abbia mosso, poi che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime, racconterò. Tancredi principe di Salerno fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli nello amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate [2]; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai; e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava; poi alla fine ad un figliuolo del duca di Capova [3] datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcun’altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e i costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile [4] ma per virtù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese, ogn’ora più lodando i modi suoi. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuore ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né volendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente avesse per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciuol di canna [5], sollazzando la diede a Guiscardo, dicendo: - Fara’ne questa sera un soffione [6] alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco. Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa, e guardando la canna e quella veggendo fessa, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala, e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse giammai, e diedesi a dare opera di dovere a lei andare, secondo il modo da lei dimostratogli. Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato [7]; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio, la quale la donna teneva, si poteva andare, come che [8] da un fortissimo uscio serrata fosse. Ed era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava; ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata alla innamorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea, anzi che venir fatto le potesse d’aprir quell’uscio; il quale aperto, e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venire s’ingegnasse, avendogli disegnata l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo, prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa, e sé vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire ad alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato ben l’uno de’ capi della fune ad un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quello si collò [9] nella grotta ed attese la donna. La quale il seguente dì, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio, nella grotta discese, dove trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e, dato discreto ordine alli loro amori acciò che [10] segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo ed ella serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi, la notte vegnente su per la sua fune salendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscì fuori e tornossi a casa. E avendo questo cammino appreso, più volte poi in processo di tempo vi ritornò. Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia dei due amanti rivolse in tristo pianto. Era usato Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi. Il quale un giorno dietro mangiare [11] laggiù venutone essendo la donna, la quale Ghismunda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere stato da alcuno veduto o sentito, entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina quasi come se studiosamente si fosse nascoso quivi, s’addormentò. E così dormendo egli, Ghismunda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se n’entrò nella camera, e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su ‘l letto, sì come usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano; e dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, se egli potesse, per potere più cautamente fare e con minore sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve, discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta ed ella s’uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino, e senza essere da alcuno veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò. E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in su ‘l primo sonno, Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due, e segretamente a Tancredi menato. Il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: - Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei. Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: - Amor può troppo più che né voi né io possiamo. [12] Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse, e così fu fatto. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate, appresso mangiare, secondo la sua usanza, nella camera n’andò della figliuola, dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piagnendo le cominciò a dire: - Ghismunda, parendomi conoscere la tua virtù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non lo avessi veduto, che tu di sottoporti ad alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba sempre sarò dolente, di ciò ricordandomi. E or volesse Iddio che, poi che a tanta disonestà conducere ti dovevi avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato [13]; ma tra tanti che nella mia corte n’usano, eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come per Dio da picciol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che farne [14]; ma di te, sallo Iddio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae l’amore, il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno, preso per la tua gran follia; quegli vuole che io ti perdoni, e questi vuole che contro a mia natura in te incrudelisca; ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire.- E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto. Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto, ma ancora esser preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì, e a mostrarlo con romore e con lagrime, come il più [15] le femine fanno, fu assai volte vicina; ma pur, questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo. Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato, così al padre disse: - Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e ‘l tuo amore; ma, il ver confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dello animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò; e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò [16] d’amarlo; ma a questo non mi indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dovea, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sia vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza; e, come che tu uomo in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi esercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne’ vecchi non che ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane; e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero [17], al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in questo opposi ogni mia virtù di non volere né a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna Fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva; e questo, chi che ti se l’abbi mostrato o come che tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi [18], come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad ogn’altro, e con avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi, e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre allo amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare oppinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo (quasi turbato esser non ti dovessi, se io nobile uomo avessi a questo eletto) che io con uom di bassa condizione mi son posta. In che non ti accorgi che non il mio peccato ma quello della Fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni ad alto leva, a basso lasciando i dignissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principii delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenzie, con iguali virtù create. La virtù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da’ buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera apertamente si mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama, commette difetto. Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini ed esamina la lor virtù, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valore di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò [19] mai tanto, quanto tu ‘l commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato? E certo non a torto; ché se i miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu, che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non potevano esprimere, non vedessi; e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizione mi sia posta? Tu non dirai il vero; ma per avventura, se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, che così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertà non toglie gentilezza ad alcuno, ma sì avere [20]. Molti re, molti gran principi furon già poveri; e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccial del tutto via. Se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè ad incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale ad alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t’accerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le tue lagrime, e incrudelendo con un medesimo colpo altrui e me, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi. Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola; ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva. Per che, da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono [21], e, trattogli il cuore, a lui il recassero; li quali, così come loro era stato comandato, così operarono. Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che, quando gliele desse, dicesse: - Il tuo padre ti manda questo, per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava -. Ghismunda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua ridusse, per presta averla se quello di che elle temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presente e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese, e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo. Per che, levato il viso verso il famigliare, disse: - Non si conveniva sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente questo è [22]; discretamente in ciò ha il mio padre adoperato. E così detto, appressatoselo alla bocca, il baciò, e poi disse: - In ogni cosa sempre e infino a questo estremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che giammai; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo giammai, di così gran presente da mia parte gli renderai. Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: - Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltà di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se’ spacciato [23]; venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre; lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche, e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava ad aver compiute esequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Iddio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi; e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già cotanto cara guardasti. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio sicura ai luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro [24] e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei; e come colei che ancor son certa che m’ama, aspetta la mia, dalla quale sommamente è amata. E così detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi, piagnendo cominciò a versare tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, baciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che dattorno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dire le parole di lei non intendevano; ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano, e molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla. La qual, poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttosi gli occhi, disse: - O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito; né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia.- E questo detto, si fe’ dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dì avanti aveva fatta, la qual mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato, e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve, e bevutala, con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello, e al suo cuore accostò quello del morto amante, e senza dire alcuna cosa aspettava la morte. Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandata a dire; il quale, temendo di quello che sopravvenne, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo i termini ne’ quali era, cominciò dolorosamente a piagnere. Al quale la donna disse: - Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno, altro che te, piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente [25] di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo dono mi concedi che, poi che a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ‘l mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittar morto, palese stea. L’angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze. Laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi strignendosi al petto il morto cuore, disse: - Rimanete con Dio, ché io mi parto. E velati gli occhi, e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì. Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete; li quali Tancredi dopo molto pianto, e tardi pentuto della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente amenduni [26] in un medesimo sepolcro gli fe’ sepellire. |
[1] Filostrato, re della quarta giornata. [2] Se nella vecchiaia non si fosse macchiato le mani del suo stesso sangue (causando la morte della figlia). [3] Capua. [4] Di condizione modesta. [5] In una canna vuota. [6] Un tubo per soffiare sul fuoco. [7] Chiuso, otturato. [8] Benché. [9] Si calò. [10] Affinché. [11] Dopo pranzo. [12] La frase di Guiscardo, l'unica pronunciata in tutta la novella, ricorda Inf., V, 103: "Amor, ch'a nullo amato amar perdona". [13] Un uomo che fosse stato adatto alla tua nobiltà. [14] Ho già deciso della sua sorte. [15] Il più delle volte, solitamente. [16] Non cesserò. [17] Piena di desideri amorosi, carnali. [18] Non scelsi Guiscardo per caso. [19] Chi lo lodò. [20] Ma solo le ricchezze. [21] Che lo strangolassero. [22] Quale è questo. [23] Tu hai portato a termine la tua vita e ti sei staccato da essa nelle circostanze imposte dalla fortuna. [24] Qui dentro [nel cuore]. [25] Se una parte, se qualcosa. [26] Ambedue, entrambi. |
Interpretazione complessiva
- Il tema al centro di questa novella, tra le più stilisticamente elevate del Decameron, è l'amore sensuale, che non solo non viene condannato dall'autore ma anzi celebrato come qualcosa di assolutamente naturale che è impossibile cercare di reprimere: Boccaccio riprende quanto già dichiarato nella sua "autodifesa" nell'Introduzione a questa stessa giornata e sceglie di aprirla con una novella che narra di un amore adultero, per di più tra una nobildonna (Ghismunda, figlia del principe di Salerno) e un modesto valletto, destinato a finire tragicamente. La tresca tra la donna e Guiscardo si ricollega in parte agli amori furtivi della letteratura cortese, con l'importante differenza che qui l'uomo non è un nobile cavaliere e la soddisfazione dei desideri carnali non è il punto di arrivo, bensì la causa scatenante della relazione tra i due. Altrettanto significativo che a rivendicare il diritto di perseguire il proprio piacere e di essere felice in amore è Ghismunda, che affronta il padre con un discorso che è un piccolo capolavoro di retorica ed esprime senza dubbio il punto di vista dell'autore in materia di relazioni amorose.
- Ghismunda è la protagonista assoluta della novella e la donna si presenta come una vera "eroina", che in parte riprende stereotipi già presenti nella tradizione precedente: è una donna di bell'aspetto, nobile, colta (lo si deduce dalla ricercatezza stilistica del suo discorso al padre), rivendica con fierezza il suo diritto ad avere una propria vita sessuale che Tancredi le nega non consentendole di risposarsi, inoltre afferma con orgoglio che la distinzione tra nobili e non nobili riguarda esclusivamente la virtù e non la nascita o le ricchezze, rifacendosi all'analogo motivo dello Stilnovo. Da un lato Ghismunda può ricordare alcune protagoniste dei romanzi cortesi (Ginevra, Isotta la Bionda...), dall'altro la sua figura sembra riproporre quella di Francesca incontrata da Dante tra i lussuriosi in Inf., V, in quanto anche lei era nobile e appassionata lettrice di letteratura cortese e come Ghismunda intrecciava una relazione adultera col cognato Paolo, destinata anch'essa a una fine tragica (► TESTO: Paolo e Francesca). La differenza sta nel fatto che Dante condannava tale relazione e la letteratura che l'aveva in certo modo suscitata, mentre Boccaccio mostra una visione decisamente più moderna e già in linea con quella dell'Umanesimo, assai più serena rispetto al godimento delle gioie dell'amore.
- Tancredi è un personaggio alquanto contraddittorio, in quanto
con i suoi comportamenti provoca di fatto il suicidio della figlia, inoltre
c'è chi ha visto in lui una passione incestuosa per Ghismunda, il che
spiegherebbe la gelosia provata per Guiscardo e la sua reazione rabbiosa
di fronte alla relazione adulterina con la giovane. Il particolare macabro del cuore strappato dal petto del servo è simile a quello della novella del cuore mangiato (IV, 9), in cui il marito tradito imbandisce alla moglie il cuore dell'amante di lei, che poi si uccide; anche in quella di Elisabetta (IV, 5) c'è il dettaglio della testa del giovane amato dalla protagonista che è stato ucciso dai fratelli, e posta dalla ragazza in un vaso di basilico. Il motivo arrivava a Boccaccio da una ricca tradizione della letteratura franco-provenzale, specie dalla poesia trobadorica in cui talvolta si invitava a cibarsi del cuore di qualcuno per assumerne le virtù, come in molti planh (► PERCORSO: Le Origini).