Letteratura italiana
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Premessa


Con l'aggettivo "comico" nella letteratura del XIII-XIV sec. ci si riferisce a quelle opere di stile e argomento non elevato che si distinguevano da quelle considerate più alte, in base alla retorica medievale che individuava tre stili diversi (uno alto e "tragico", proprio soprattutto dell'epica e della lirica amorosa, uno medio e "comico" e uno basso ed "elegiaco", che corrispondeva a componimenti quali il lamento d'amore o il compianto funebre). La poesia comica o comico-realistica includeva perciò tutti quei testi che in quanto a linguaggio e temi non rientravano negli altri due filoni e il termine non si riferiva al concetto classico di "commedia", né era sempre associato a contenuti tali da suscitare il riso nel pubblico, dal momento che le poesie "comiche" potevano anche affrontare argomenti politici ed essere usati per attaccare avversari con l'arma dell'invettiva. Ovviamente la distinzione non era così rigida e, se esistevano poeti specializzati nella produzione di testi comici, non erano rari i casi di scrittori che si muovevano da uno stile all'altro con una certa disinvoltura, come il caso di Dante dimostra chiaramente (egli fu autore della "tenzone" con Forese Donati, uno scambio polemico di sonetti con un amico-rivale, mentre varie parti della Commedia sono volutamente scritte con un stile tendente al basso, adeguato al contesto affrontato). Il pubblico della poesia comica era per lo più popolare e molti testi di questo filone erano destinati alla tradizione orale, come nel caso della produzione giullaresca, ma i componimenti dei poeti più colti si rivolgevano a lettori di estrazione sociale elevata e presupponevano la conoscenza da parte del pubblico dei testi di stile alto, che non di rado venivano parodiati (questo accadeva specialmente con la lirica d'amore, le cui situazioni tipiche venivano rovesciate per creare il ridicolo e suscitare il divertimento nei lettori). I modelli erano quanto mai vari e spaziavano dalla letteratura mediolatina ai generi bassi della poesia provenzale, senza dimenticare la tradizione popolare e folklorica che agiva potentemente soprattutto nella produzione giullaresca, i cui esponenti erano spesso personaggi colti e raffinati.

La poesia popolare e giullaresca


ImmagineUn giullare raccoglie l'offerta (min. XV sec.)
Già agli inizi del XIII sec. si diffonde in Italia una poesia destinata a un pubblico popolare, di cui sopravvivono poche testimonianze scritte in quanto non era pensata tanto per la lettura quanto per la recitazione di fronte a una folla di illetterati, da parte di attori girovaghi: noti come giullari, questi personaggi erano saltimbanchi e giocolieri (il nome deriva proprio dal lat. iocularis, "giocoliere") che si esibivano di fronte a un pubblico improvvisato nelle strade, vivendo grazie alle offerte che raccoglievano con le loro esibizioni che, spesso, erano accompagnate dalla musica. Alcuni di loro eseguivano testi scritti da altri, mentre diversi giullari erano autori essi stessi delle proprie poesie e non mancavano tra loro personaggi colti, che a un livello più alto potevano esibirsi anche alla corte di signori feudali o addirittura sovrani, come nella lett. provenzale dove i "menestrelli" (come pure venivano chiamati) eseguivano le poesie dei trovatori occitanici. I generi di questa poesia giullaresca erano assai vari e molti testi poetici erano di argomento amoroso e prevedevano un accompagnamento di musiche e danze (come le ballate, le canzoni...), mentre altri erano destinati a scene teatrali più o meno improvvisate, in cui più attori impersonavano ruoli diversi e si esibivano nei "contrasti" (che potevano essere di argomento religioso, o più spesso amoroso); non mancavano poi narrazioni di tono epico, come i cantari del XIV sec. che si ispiravano alle Chansons de geste, né poesie che facevano la parodia dei generi alti di poesia lirica, come il lamento della donna malmaritata, oppure invettive di carattere politico o altro ancora. Spesso l'attività dei giullari assolveva a una funzione simile a quella dei moderni mass-media, poiché i loro testi diffondevano notizie su fatti storici o politici e, talvolta, muovevano in un senso o nell'altro l'opinione popolare, specie nei Comuni dell'Italia del centro-nord in cui erano più vivi gli scontri tra partiti e fazioni. L'atteggiamento della Chiesa nei loro confronti era spesso ostile, dal momento che il contenuto dei cantica dei giullari era giudicato turpe e osceno e diversi atti ufficiali delle autorità ecclesiastiche condannavano questi personaggi, non di rado colpiti anche da divieti emessi dal governo comunale. La gran parte della produzione giullaresca è ovviamente andata perduta, proprio perché tali testi non sempre erano fissati in una forma scritta, anche se alcune opere riconducibili a quella tradizione si sono conservate e di alcuni giullari "colti" abbiamo avuto notizia, benché di essi manchino spesso dati biografici certi.


I "Memoriali bolognesi" e Cielo d'Alcamo


ImmagineUn testo trascritto nei "Memoriali bolognesi" (XIII sec.)
Talvolta la trasmissione di testi rientranti nella produzione popolare è avvenuta per fatti singolari e casuali, come nel caso dei cosiddetti "Memoriali bolognesi" che rappresentano un ricco repertorio di poesie per lo più anonime, dovute il più delle volte all'opera di giullari e scrittori improvvisati: i Memoriali erano registri pubblici dove i notai di Bologna a partire dal 1266 trascrivevano atti ufficiali come contratti e testamenti e dove gli spazi bianchi venivano barrati o, in altri casi, riempiti con la copiatura di liriche volgari, che spesso sono l'unica testimonianza di tali testi giunta sino a noi. Tale pratica durò dal 1279 al 1325 e tra i testi copiati vi sono liriche di scrittori colti, come Dante e Cavalcanti, ma anche poesie popolari anonime, tra cui un'alba (il commiato degli amanti al termine della notte, intitolata Pàrtite, amore, a Deo), la nota ballata del fanciullo che piange la fuga dell'usignolo dalla gabbia (For de la bella caiba), un contrasto tra due donne plebee in lite fra loro e molte altre.
Se gli autori di queste poesie sono quasi tutti ignoti, abbiamo invece notizia di alcuni giullari colti di cui spesso ci sono giunti pochi testi, fra cui merita di essere ricordato Ruggieri Apuliese, autore senese che ci ha lasciato tra gli altri un vanto in cui enumera in una specie di filastrocca tutte le scienze e le arti da lui possedute, dicendosi pronto a discutere di qualunque argomento (il testo ha ovviamente intento parodico nei confronti della letteratura "seria", specie dei poemi didattici). Più interessante la figura di Cielo d'Alcamo, un giullare colto vissuto a metà del Duecento di cui rimane un solo testo, il contrasto Rosa fresca aulentissima scritto in volgare siciliano e che ha avuto grande successo, anche se non tutti i dubbi sul suo autore sono stati sciolti: di lui non sappiamo nulla a parte il nome (Cielo sarebbe il diminutivo di Michele o Marcello) e l'origine siciliana o comunque dell'Italia meridionale, come la provenienza da Alcamo parrebbe suggerire (sempre che il cognome non vada letto "Dal Camo"); Dante cita il suo componimento in DVE, I, 12 come esempio di volgare siculo, anche se la lingua del contrasto contiene elementi riconducibili ad altre parlate del Sud Italia, per cui non è affatto sicuro (come fu ipotizzato) che egli sia vissuto alla corte di Federico II di Svevia. Il contrasto (► TESTO: Rosa fresca aulentissima) riprende il genere provenzale della "pastorella" in cui un uomo, che qui è di origine popolare, corteggia una donna che all'inizio fa la ritrosa ma che alla fine gli si concede; lo stile oscilla tra espressioni auliche e letterarie ed altre di tono decisamente più basso, nel che si ravvisa forse la volontà di fare la parodia delle liriche amorose "alte" della letteratura del Duecento. Il testo accenna alle Costituzioni di Melfi emanate dall'imperatore Federico II nel 1231 e parla del sovrano come ancora vivo (morì nel 1250), dunque la composizione sembra risalire agli anni Trenta-Quaranta del XIII sec., probabilmente in Sicilia o in un'altra regione in cui quelle leggi avevano giurisdizione.


La poesia comico-realistica in toscana


ImmagineG. Cavalcanti (min. XIV sec.)
Accanto a questa produzione destinata a un pubblico basso e affidata per lo più alla trasmissione orale, nella seconda metà del XIII sec. si sviluppa in Toscana un ricco filone di poesia comica (o, come anche si disse, comico-realistica) di argomento e stile non elevato ma ad opera di scrittori colti la cui figura è storicamente determinata, che ci hanno lasciato in qualche caso un corpus piuttosto nutrito di testi. Si tratta di poesie anche molto diverse tra loro, che in alcuni casi vogliono essere la parodia delle liriche amorose di stile alto (specie dello Stilnovo), oppure si rifanno a generi tramandati dalla tradizione letteraria precedente, tanto di argomento giocoso quanto politico (ciò avviene soprattutto con l'invettiva, di cui si hanno esempi già nella poesia trobadorica, ma che con il plazer e l'enueg, l'elenco di cose piacevoli o fastidiose della tradizione occitanica). La Toscana, terra animata nel Duecento da vivaci scontri politici tra Comuni rivali e talvolta tra fazioni all'interno della stessa città, era terreno fertile su cui una simile poesia poteva diffondersi e senza dubbio molti testi traevano spunto dal gusto per la battuta salace e il motteggio che erano tipici del volgare di questa regione, di cui si hanno esempi anche nella prosa narrativa di fine secolo e poi, nel Trecento, nel Decameron di Giovanni Boccaccio. Alcuni poeti erano per così dire specializzati nella produzione comica, come nel caso di Cecco Angiolieri che fu tra gli esponenti di spicco (si veda oltre), ma non mancarono scrittori che solo occasionalmente si dedicarono a queste poesie alternandole alla lirica amorosa per la quale sono generalmente ricordati: è il caso, tra gli altri, di di Guido Cavalcanti, tra i protagonisti dello Stilnovo a Firenze e autore di una pastorella che narra il corteggiamento di una popolana da parte di un nobile cavaliere, destinato a terminare con un'unione carnale in un ameno boschetto e che si rifà in modo evidente alla tradizione provenzale in cui tali componimenti erano alquanto frequenti (► TESTO: In un boschetto trova' pasturella). Alla poesia comica si dedicò anche Dante Alighieri, protagonista alla fine del XIII sec. di una "tenzone" con l'amico-rivale Forese Donati, ovvero uno scambio di sonetti in cui i due si ingiuriavano a vicenda e dove accanto agli scontri personali e politici (Forese faceva capo ai Guelfi Neri, il partito avverso a Dante) c'è senz'altro una componente giocosa, che consente di non intendere il contrasto molto al di là di un divertissement letterario (► TESTO: Chi udisse tossir la malfatata). La tenso era del resto un genere proprio della poesia trobadorica elevata, in cui alcuni poeti discutevano in modo serio di argomenti poetici e letterari e come tale praticata anche dai poeti amorosi italiani (► SCHEDA: La "tenzone" come genere poetico), mentre lo scambio ingiurioso di sonetti rientra nel genere comico dell'invettiva che fiorì particolarmente in Toscana e che vide soprattutto il fiorentino Rustico di Filippo come rappresentante significativo (si veda oltre).


Cecco Angiolieri


ImmagineA. Lorenzetti, Effetti del buon governo a Siena (1338)
È la figura più importante tra i poeti comici dell'area toscana nel XIII sec. e uno degli autori più rappresentativi della sua età: Cecco Angiolieri (1260-1313 ca.) fu di nobile famiglia senese e i pochi dati biografici su di lui parlano di una vita sregolata e turbolenta, durante la quale fu anche esiliato e prese parte ad alcune campagne militari conoscendo, pare, Dante Alighieri. Fu autore di circa 120 sonetti di sicura attribuzione, tutti di stile comico in cui affronta vari temi: l'amore tra gioie e dolori per la propria donna Becchina (► TESTO: Becchin'amor), la predilezione per il vino e il gioco d'azzardo (► TESTO: Tre cose solamente), i problemi economici e i contrasti con i genitori avari (specie col padre cui augura spesso la morte), l'odio e il malanimo verso il mondo e la società cui dà spesso sfogo in modo paradossale (► TESTO: S'i' fosse foco). I critici ottocenteschi hanno visto in Cecco una sorta di "poeta maledetto" di epoca medievale, cinico e ribelle verso la società che lo respinge, anche se l'interpretazione più moderna sottolinea quanto di giocoso e divertito c'è nei suoi versi, in cui molte volte l'autore strizza maliziosamente l'occhio al lettore; ciò è evidente specialmente nei sonetti in cui c'è la parodia e il rovesciamento dei moduli tipici della poesia stilnovista, che Cecco dimostra di conoscere da lettore esperto e colto quale certamente doveva essere. Nei suoi versi sembra di ravvisare parte di una "tenzone" polemica con Dante, di cui però mancano le eventuali risposte del poeta fiorentino che mai lo cita, mentre è indubbio che il suo essere solamente poeta comico ne ha limitato la notorietà quand'era in vita, oscurato dagli autori della lirica amorosa che costituì l'unico "canone" riconosciuto della poesia colta del Due-Trecento. È altresì vero che il sonetto divenne, anche grazie a Cecco, il metro tipico della poesia comico-realistica, usato anche da altri autori successivi insieme a componimenti più popolari come rispetti, ballate, strambotti.


Rustico di Filippo e Folgóre da S. Gimignano


ImmagineScena di caccia, min. XIV sec.
Su un livello più modesto ma a suo modo interessante si colloca il fiorentino Rustico di Filippo (vissuto nel secondo Duecento), di estrazione ghibellina, che ci ha lasciato circa sessanta sonetti la metà dei quali di argomento amoroso e tono elevato, mentre gli altri sono di stile comico-burlesco e costituiscono la parte più interessante della sua produzione. Rustico vi affronta soprattutto temi politici, lasciandosi andare a invettive e attacchi personali contro i suoi avversari, ma non mancano componimenti più leggeri e giocosi sull'infedeltà coniugale, in cui emerge una certa misoginia che gli venne attribuita dai contemporanei (► TESTO: Oi dolce mio marito Aldobrandino). Ebbe una discreta notorietà all'epoca e godette della stima di alcuni contemporanei, come testimonia il fatto che Brunetto Latini dedicò a lui il Favolello.
Scrittore completamente diverso ma sempre rientrante nello stile comico fu invece Folgóre da S. Gimignano (fine XIII sec. - 1305), il cui vero nome era Jacopo di Michele e che fu ordinato cavaliere, benché ignoriamo quale fosse la condizione sociale della sua famiglia. Certo doveva vivere come un aristocratico e ciò è testimoniato dal soprannome, che significa certamente "fulgore", "splendore" e allude alla magnificenza della sua vita, se non anche alla sua notorietà letteraria: tra le sue cose più interessanti vi sono le due collane dei sonetti Dei mesi e Della settimana, in cui fa un elenco di cose e occupazioni piacevoli connesse con la vita nobile (secondo il modello provenzale del plazer) e dove emerge da un lato l'idealizzazione del mondo cortese al quale l'autore sente e rivendica di appartenere, dall'altro la nostalgia per un modello di società che sta ormai tramontando ed è soppiantata dagli interessi crescenti della borghesia mercantile (molto evidente nel sonetto Cortesia, cortesia, cortesia chiamo). Lo stesso tipo di polemica anti-borghese si ha anche nell'opera di Dante, dove peraltro si accompagna alla condanna dell'avarizia che ha inquinato la vita pubblica ed è causa della corruzione civile ed ecclesiastica dell'Italia del tempo, tema del tutto assente in Folgóre che, invece, si limita a spiegare ai nobili come trascorrere in modo elegante e liberale il proprio tempo nelle "brigate", le allegre compagnie di giovani aristocratici che ancora caratterizzavano la vita dei Comuni del XIV sec., come leggiamo nel Decameron di Boccaccio (► TESTO: E di febbrai’ vi dono bella caccia). Ai sonetti dei mesi di Folgóre rispose in modo parodistico un giullare, Cenne d'Arezzo, che li trasformò in enueg rovesciandoli in un elenco di cose spiacevoli, il che dimostra che i testi avevano una certa diffusione all'epoca.



La poesia comica nel Quattrocento: il Burchiello


ImmagineRitratto del Burchiello (XV sec.)
Se la produzione propriamente giullaresca venne meno nel corso del XIV sec., parallelamente al tramonto della società feudale e comunale che ne aveva favorito la diffusione, non altrettanto avvenne con il filone della poesia comico-realistica, che proseguì anche durante l'Umanesimo mantenendo immutate le sue caratteristiche di temi e stile e distinguendosi dalla lirica amorosa più colta, talvolta in opposizione ad essa. Tra gli autori più significativi del XV sec. è da ricordare soprattutto il barbiere fiorentino Domenico di Giovanni (1404-1449), noto come il Burchiello e autore di circa 150 sonetti di sicura attribuzione in cui affrontò temi assai vari, ironizzando sulla sua vita turbolenta (fu oppositore dei Medici e venne bandito da Firenze, venendo più volte imprigionato in altre città e finendo i suoi giorni a Roma in miseria), satireggiando sugli uomini politici del suo tempo, oppure abbandonandosi a giochi di parole e bisticci senza senso, come nel famoso testo Nominativi fritti e mappamondi. Il suo stile fu apprezzato dai contemporanei e fece in certo modo scuola, tanto che il suo modo di fare poesia venne definito "burchiellesco" e "alla burchia", influenzando più di un autore del periodo successivo. Un filone poetico giocoso e caratterizzato da invenzioni verbali sopravvisse anche nella letteratura umanistico-rinascimentale del XV-XVI sec., in cui è possibile ricordare operette quali la Nencia da Barberino di Lorenzo de' Medici o i versi del Pulci, che certamente al Burchiello si ispirò moltissimo, mentre nel Cinquecento è attivo Francesco Berni, considerato il poeta "comico" più importante del suo tempo e l'esponente di spicco di quella corrente che fu detta "Antirinascimento", cui appartennero altri scrittori in bilico tra poesia colta e parodistica come Pietro Aretino, Teofilo Folengo e altri (► PERCORSO: Il Rinascimento).


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