Letteratura italiana
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Dante Alighieri


Pier della Vigna
(Inferno, XIII, 22-108)

Dante e Virgilio si addentrano nella selva dei suicidi del settimo cerchio dell'Inferno, dove le anime dei dannati sono imprigionate dentro mostruosi alberi e soffrono a causa delle Arpie che si cibano dei loro rami, provocando loro dolore. Dopo che Dante, su suggerimento del maestro, ha spezzato un ramoscello di una delle piante (da cui escono sangue e lamenti), i due poeti hanno un incontro con l'anima di Pier della Vigna, che fu poeta alla corte di Federico II di Svevia e intimo consigliere dell'imperatore, fino a cadere in disgrazia e a uccidersi nel carcere dove era stato rinchiuso. Dante sostiene la sua innocenza e, da un lato, condanna l'invidia dei cortigiani che ne hanno provocato la rovina, dall'altro fa pronunciare a Piero un discorso di grande raffinatezza retorica che lo caratterizza come personaggio di alto rango, benché ancora attaccato agli onori della vita terrena che nell'Oltretomba non contano più nulla.

► PERCORSO: La lirica amorosa
► AUTORE: Dante Alighieri
► OPERA: Divina Commedia




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Io sentia d’ogne parte trarre guai, 
e non vedea persona che ’l facesse; 
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

Cred’io ch’ei credette ch’io credesse 
che tante voci uscisser, tra quei bronchi 
da gente che per noi si nascondesse.

Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi 
qualche fraschetta d’una d’este piante, 
li pensier c’hai si faran tutti monchi».

Allor porsi la mano un poco avante, 
e colsi un ramicel da un gran pruno; 
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno, 
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? 
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: 
ben dovrebb’esser la tua man più pia, 
se state fossimo anime di serpi».

Come d’un stizzo verde ch’arso sia 
da l’un de’capi, che da l’altro geme 
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme 
parole e sangue; ond’io lasciai la cima 
cadere, e stetti come l’uom che teme.

«S’elli avesse potuto creder prima», 
rispuose ’l savio mio, «anima lesa, 
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa; 
ma la cosa incredibile mi fece 
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.

Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece 
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi 
nel mondo sù, dove tornar li lece».

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi, 
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi 
perch’io un poco a ragionar m’inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi 
del cor di Federigo, e che le volsi, 
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi: 
fede portai al glorioso offizio, 
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.

La meretrice che mai da l’ospizio 
di Cesare non torse li occhi putti, 
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti; 
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, 
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

L’animo mio, per disdegnoso gusto, 
credendo col morir fuggir disdegno, 
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d’esto legno 
vi giuro che già mai non ruppi fede 
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede, 
conforti la memoria mia, che giace 
ancor del colpo che ’nvidia le diede».

Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace», 
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora; 
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».  

Ond’io a lui: «Domandal tu ancora 
di quel che credi ch’a me satisfaccia; 
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».                    

Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia 
liberamente ciò che ’l tuo dir priega, 
spirito incarcerato, ancor ti piaccia                           

di dirne come l’anima si lega 
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, 
s’alcuna mai di tai membra si spiega».                  

Allor soffiò il tronco forte, e poi 
si convertì quel vento in cotal voce: 
«Brievemente sarà risposto a voi.                           

Quando si parte l’anima feroce 
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, 
Minòs la manda a la settima foce.                            

Cade in la selva, e non l’è parte scelta; 
ma là dove fortuna la balestra, 
quivi germoglia come gran di spelta.                       

Surge in vermena e in pianta silvestra: 
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie, 
fanno dolore, e al dolor fenestra.                             

Come l’altre verrem per nostre spoglie, 
ma non però ch’alcuna sen rivesta, 
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.                 

Qui le trascineremo, e per la mesta 
selva saranno i nostri corpi appesi, 
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».
Io sentivo levarsi lamenti da ogni parte, ma non vedevo nessuno che li emettesse; allora mi fermai, confuso.


Io credo che Virgilio credette che io credessi che tra quei cespugli uscissero tante voci, emesse da anime che si nascondevano da noi.

Perciò il maestro disse: «Se tu spezzi qualche ramoscello da una di queste piante, i tuoi pensieri non avranno più ragion d'essere».


Allora stesi un poco la mano e strappai un ramoscello da un gran pruno; e il suo tronco gridò: «Perché mi spezzi?»


Dopo aver perso sangue nero, ricominciò a dire: «Perché mi laceri? non hai alcuno spirito di pietà?


Fummo uomini, e adesso siamo diventati cespugli: la tua mano sarebbe certamente più pietosa, se anche fossimo state anime di serpenti».


Come quando si brucia un ramoscello verde da una delle estremità, e dall'altra cola la linfa e si sente un cigolio in quanto esce dell'aria, così dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue; allora io lasciai cadere il ramo spezzato e restai lì pieno di timore.



Il mio maestro rispose: «Se egli avesse potuto credere ciò che ha letto solo nei miei versi, anima offesa, (Dante) non avrebbe certo levato la mano contro di te; ma la cosa incredibile mi costrinse a indurlo a un'azione che pesa anche a me.



Ma digli chi fosti in vita, così che per rimediare lui possa restaurare la tua fama nel mondo terreno, dove può tornare».


E il tronco: «Con le tue dolci parole mi alletti in tal modo che non posso stare zitto; e a voi non sia fastidioso se io mi attardo un po' a parlare di me.

Io sono colui che tenni entrambe le chiavi del cuore di Fererico II, e che le usai così bene nel chiudere e nell'aprire che esclusi dai suoi segreti quasi tutti (divenni il suo più fidato consigliere): fui fedele al mio alto incarico, al punto che persi per questo la pace e la vita.




La prostituta (invidia) che non distolse mai gli occhi disonesti dalla reggia dell'imperatore, e che è morte di tutti e vizio delle corti, infiammò tutti gli animi (dei cortigiani) contro di me; ed essi infiammarono a loro volta l'imperatore, al punto che i miei onori si trasformarono in lutti (caddi in disgrazia).


Il mio animo, spinto da un amaro piacere, credendo di sfuggire il disonore con la morte, mi rese ingiusto contro me stesso, che pure non avevo colpe.

Per le nuove radici di questo albero, vi giuro che non fui mai infedele al mio signore, che fu tanto degno di onore.


E se qualcuno di voi tornerà nel mondo terreno, riabiliti la mia memoria, che ancora soffre del colpo subìto a causa dell'invidia».


Virgilio rimase un poco in silenzio, poi mi disse: «Dal momento che tace, non perdere tempo; parla e chiedigli quello che vuoi».


E io a lui: «Domandagli tu ancora di quegli argomenti che credi possano interessarmi; io non potrei, tanto è il turbamento che provo».

Allora Virgilio riprese: «Possa realizzarsi ciò che le tue parole hanno richiesto grazie all'azione spontanea (di Dante), o spirito imprigionato: ti prego ancora di dirci come l'anima si lega a questi tronchi, e dicci, se puoi, se mai accade che qualcuna si liberi da queste piante».




Allora il tronco soffiò forte e poi quell'aria si tramutò in queste parole: «Vi risponderò in breve.


Quando l'anima feroce (del suicida) si separa dal corpo dal quale ella stessa si è staccata, Minosse la manda al settimo Cerchio.


Cade nella selva e non finisce in un punto prestabilito; ma dove il caso la scaglia, lì germoglia come un seme di farro.

Cresce come un arbusto e una pianta selvatica: le Arpie, poi, nutrendosi delle sue foglie provocano dolore, e aprono una via attraverso la quale il dolore fuoriesce.

Come le altre anime, anche noi andremo a riprendere i nostri corpi (il giorno del Giudizio), ma non per rivestircene: infatti non è giusto riavere ciò che ci si è tolti.

Li trascineremo qui e i nostri corpi saranno appesi per la triste selva, ciascuno all'albero della propria ombra nemica».


Interpretazione complessiva

  • Protagonista assoluto dell'episodio è Pier della Vigna, giurista di Capua che fu poeta della scuola siciliana alla corte di Federico II di Svevia e retore al servizio del sovrano, di cui divenne primo consigliere: partecipò alla stesura delle Costituzioni di Melfi (1231) e giunse all'apice della potenza con la nomina a protonotaro e logoteta del regno, finché cadde in disgrazia per imprecisate ragioni (forse per maneggi di altri cortigiani) e venne imprigionato e accecato. Si uccise a Pisa nel 1249, sbattendo violentemente la testa contro una parete. Dante crede alla sua innocenza e lo indica quale vittima dell'invidia delle corti, facendo di lui una figura tragica e solitaria (l'uomo di governo che paga con ingiuste accuse il suo impegno civile, proprio come lui era stato esiliato da Firenze), anche se condanna fermamente il suicidio che ne ha causato la dannazione eterna. Come altri personaggi infernali, anche Piero si mostra poco consapevole del peccato commesso e si preoccupa che Dante riabiliti la sua reputazione nel mondo, mostrandosi ancora attaccato ai valori della vita terrena che ormai non contano più nulla per lui.
  • Il passo è ricco di riferimenti letterari ed è retoricamente complesso, in modo conforme all'altezza del personaggio protagonista: già al v. 25 c'è un'elegante replicazione ("Cred’io ch’ei credette ch’io credesse"), mentre il discorso di Piero è stilisticamente elevato, con il dannato che usa termini venatori (vv. 55-57, "adeschi" e "inveschi", con riferimento alla caccia quale attività aristocratica e al trattato sulla falconeria attribuito a Federico II) e si presenta con l'elegante metafora delle due chiavi da lui tenute per aprire e chiudere il cuore del sovrano (vv. 58-61); l'invidia delle corti è indicata con la personificazione della "meretrice" (v. 64), mentre l'imperatore è indicato con i termini antonomastici di Cesare e Augusto (vv. 65 e 68); ai vv. 67-68 è presente un poliptoto ("infiammò... / e li ’nfiammati infiammar...") e al v. 66 c'è un chiasmo ("morte comune e de le corti vizio"), così come al v. 72 ("ingiusto fece me contra me giusto"). Il giuramento con cui il dannato si proclama innocente è fatto sulle radici dell'albero in cui è prigioniero (vv. 73-74), che rappresenta un rovesciamento grottesco del solenne rituale in uso nell'ambito giuridico di cui Piero era esperto.
  • La scena di Dante che spezza un ramo dall'albero di Pier della Vigna e ne provoca i lamenti facendo uscire il sangue è chiaramente ispirata al passo dell'Eneide (III, 42 ss.) in cui Enea strappa da terra la pianta sotto cui è sepolto Polidoro, che apostrofa l'eroe troiano in maniera assai simile. A questo passo dantesco si rifarà invece T. Tasso nel canto XIII della Gerusalemme liberata, quando Tancredi sarà vittima degli incanti della selva di Saron e crederà di parlare con l'anima di Clorinda imprigionata dentro un cipresso (► TESTO: Tancredi nella selva di Saron).
  • L'ultima parte del discorso di Piero è la spiegazione della pena dei suicidi, in particolare il triste destino di queste anime che il giorno del Giudizio non si riapproprieranno dei propri corpi come tutte le altre, ma le trascineranno nella selva e le appenderanno ciascuna al proprio albero. L'episodio si conclude nei vv. seguenti con la comparsa sulla scena degli scialacquatori, che corrono nudi e graffiati nella selva e sono inseguiti da nere cagne che, una volta raggiuntili, li sbranano; alla fine Dante parlerà con l'anima di un suicida fiorentino non bene identificato, il cui albero è stato dilaniato dagli animali infernali.


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