Torquato Tasso
Il padre di famiglia
(Dialoghi)
Scritto nel 1580 durante la reclusione a Sant'Anna e dedicato all'amico Scipione Gonzaga, il dialogo riferisce di un incontro avvenuto nell'autunno del 1578 quando l'autore, in fuga da Ferrara e dopo un breve soggiorno a Urbino presso i della Rovere (occasione nella quale scrisse la "Canzone al Metauro"), si diresse in Piemonte nella speranza di ottenere la protezione del duca Emanuele Filiberto di Savoia: mentre viaggiava da Novara a Vercelli, nell'impossibilità di superare il fiume Sesia molto ingrossato, ricevette l'ospitalità di un gentiluomo nella sua residenza di campagna, dove i due intrattennero un discorso sul "padre di famiglia" ideale, sul suo modo di governare la casa, i possedimenti agricoli, la servitù. L'opera, tra le più interessanti nella produzione in prosa di Tasso, rientra nel progetto di idealizzare il perfetto uomo di corte e intellettuale secondo il modello rinascimentale e contiene importanti riferimenti alla cultura classica, mostrando una serenità sorprendente se paragonata al periodo cupo vissuto dall'autore durante la sua forzata prigionia a Ferrara.
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
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Mentre queste cose dicevamo, i famigliari [1] avevan recata l’acqua a le mani: e poiché [2] lavati ci fummo, a tavola ne sedemmo, come piacque al buon vecchio, che volle me come forestiero onorare. E incontinente de’ melloni [3] fu quasi caricata la mensa; e gli altri frutti vidi, che a l’ultimo de la cena ad un suo cenno furono riserbati. Ed egli così cominciò a parlare: ― Quel buon vecchio Coricio, coltivator d’un picciol orto, (del quale mi sovviene d’aver letto in Virgilio): Nocte domum dapibus mensas onerabat inemptis. [4] E a questa imitazione disse il Petrarca, del suo bifolco ragionando: E poi la mensa ingombra Di povere vivande, Simili e quelle ghiande, Le quai fuggendo tutt’il mondo onora. [5] Sì che non dovete maravigliarvi s’anch’io, ad imitazion loro, potrò caricarvi la mensa di vivande non comprate; le quali se tali non saranno quali voi altrove sete [6] solito di gustare, ricordatevi che sete in villa, ed a casa di povero oste vi sete abbattuto. ― [7] ― Estimo, diss’io, parte di felicità il non esser constretto di mandare a le città [8] per cose necessarie al ben vivere, non che al vivere, de le quali mi pare che qui sia abbondanza. ― Non occorre, diss’egli, ch’io per alcuna cosa necessaria o convenevole a vita di povero gentiluomo mandi a la città, percioché da le mie terre ogni cosa m’è, la Dio mercè, copiosamente somministrata; le quali in quattro parti o specie, che vogliam dirle, ho divise. L’ una parte, e la maggiore, è da me arata e seminata di fromento e di ogn’altra sorte di legumi: l’altra è lasciata a gli alberi ed a le piante, i quali sono necessari o per lo fuoco o per l’uso de le fabriche [9] e de gl’instromenti de le case; come che [10] in quella parte ancora che si semina, sian molti ordini d’alberi, su’ quali le viti, secondo l’usanza de’ nostri piccioli paesi, sono appoggiate: la terza è prateria, ne la quale gli armenti e le greggi, ch’io ho, usano di pascolare: la quarta ho riserbata a l’erbe ed a’ fiori, ove sono ancora molti alveari d’api; perciochè, oltre questo giardino, nel quale tanti alberi fruttiferi vedete da me piantati, ed il quale da le possessioni è alquanto separato, ha un broilo [11] molto grande, che d’ogni maniera d’erbaggio è copiosissimo molto. ― Bene avete le vostre terre compartite, diss’io; e ben si pare che di Varrone, non sol di Virgilio, siate studioso. [...] Qui egli si tacque: ed io, mostrando d’approvare ciò ch’egli diceva, mi taceva; sapendo che i vecchi, o quelli che già cominciano ad invecchiare, sogliono essere più vaghi del ragionare che di alcuna altra cosa, e che non si può far loro maggior piacere che ascoltargli con attenzione. Ma egli, quasi pur allora aveduto che la moglie vi mancasse, disse: ― La mia donna, da la vostra presenza ritenuta [12], aspetta forse d’essere invitata; onde, s’a voi pare, la farò chiamare: perchè se ben so che i modesti forestieri con alquanto di vergogna e di rispetto maggiore dimorano in presenza de le donne che de gli uomini, nondimeno non solo la villa, ma l’uso de’ nostri paesi porta seco una certa libertà, a la quale sarà bene che cominciate ad avvezzarvi. ― Venne la moglie chiamata, e s’assise [13] in capo di tavola, in quel luogo che voto era rimaso per lei; ed il buon padre di famiglia rincominciò: ― Ormai avete vedute tutte le mie più care cose, perchè figliuola femina non m’è stata concessa dal cielo; del che io certo molto avrei da ringraziarlo, se non fosse che la mia donna, che da’ maschi, com’ è costume de’ gioveni, spesso è abbandonata, de la solitudine si lamenta; ond’io penserei di dar moglie al maggior, di questi miei figliuoli, s’egli l’animo molto alieno non ne dimostrasse. ― Allora io dissi: ― Io non posso in alcun modo lodar questa usanza di dar così tosto [14] moglie a’ gioveni; perciochè, ragionevolmente, non si dovrebbe prima attendere a l’uso de la generazione, che l’età de l’accrescimento fosse fornita [15], ne la quale vostro figliuolo ancora mi par che sia. Oltre di ciò, i padri dovrebbon sempre eccedere i lor figliuoli [16] almeno di ventiotto o di trent’anni; conciosia cosa che, di meno eccedendoli [17], sono anco nel vigor de l’età quando la giovinezza de’ figliuoli comincia a fiorire [...]. Ed in questo proposito mi ricordo che, leggendo Lucrezio, ho considerata quella leggiadra forma di parlare, che egli usa, Natis munire senectam [18]: percioché i figliuoli sono, per natura, difesa e fortezza del padre; né tali potrebbon essere, s’in età ferma e vigorosa non fossero, quando i padri a la vecchiaia sono arrivati; a la quale voi essendo già vicino, mi par, che non meno de l’età, che de le altre condizioni de’ vostri figliuoli debbiate esser sodisfatto, e rimaner parimente contento, che ’l vostro maggior figliuolo, che ragionevol certo è molto, non cerchi di piacervi nel prender moglie, la qual fra dieci o dodici anni a tempo prenderà. ― Io m’accorgeva, mentre queste cose diceva, che più al figliuolo che al padre il mio ragionamento era grato [19]; ed egli, del mio accorgere accorgendosi, con volto ridente disse: ― Non in tutto indarno [20] sarò uscito oggi fuori a la caccia, poi che non solo ho fatto preda, ma (quel ch’ anco non isperai) così buono avocato [21] ne la mia causa ho ritrovato. ― Così dicendo, mi mise su ’l piatto alcune parti più delicate del capriolo, che parte era stato arrostito, e parte condito in una maniera di manicaretti assai piacevole al gusto. |
[1] I membri della servitù. [2] Dopo che. [3] Meloni. [4] Georgiche, IV, 133. [5] Canzoniere, 50, 21-24. [6] Siete. [7] Siete in campagna e avete incontrato un ospite povero. [8] Comprare in città. [9] Per la costruzione di utensili. [10] Benché. [11] Un orto. [12] Restia a venire per la vostra presenza. [13] Sedette. [14] Così presto, a un'età così precoce. [15] Non si dovrebbero fare figli prima che fosse finita l'età dello sviluppo. [16] I padri dovrebbero sempre essere più vecchi dei figli. [17] Poiché, se la differenza d'età è inferiore. [18] De rerum natura, IV, 1256. [19] Gradito. [20] Invano. [21] Avvocato (si riferisce a Tasso, che parla in suo favore). |
Interpretazione complessiva
- Il passo descrive l'inizio del colloquio tra Tasso, capitato per caso nell'abitazione di campagna del gentiluomo piemontese, e il padrone di casa, che offre una cena da "povero oste" ma ricca di cibi provenienti dalle terre che lui coltiva e che si sforza di mettere l'imprevisto e illustre ospite a proprio agio: è fin troppo ovvio che vi sono forti analogie tra questo brano e l'episodio di Erminia tra i pastori nel canto VII della Liberata (► VAI AL TESTO), in cui la principessa viene accolta dopo una fuga disperata dal pastore e dalla sua famiglia che la terranno con loro per un periodo di tempo (anche il poeta, giova ricordarlo, era in fuga da Ferrara e timoroso delle presunte insidie dei suoi nemici di corte). Naturalmente il gentiluomo è ricco e la sua ospitalità non è certo rozza come modestamente vuol far credere, né Tasso si tratterrà a casa sua travestendosi da contadino come Erminia nel poema, tuttavia il breve soggiorno nella "villa" è presentato come una pausa di serenità nelle traversie personali dell'autore e l'uomo viene idealizzato come il perfetto padrone di casa e capofamiglia, esprimendo quei valori legati al mondo classico cui Tasso profondamente aspirava e che nel periodo cupo della Controriforma erano ormai minacciati dalle inquietudini sociali e religiose. Il protagonista del dialogo è in fondo presentato come un uomo che sa accontentarsi di poco e trascorre una vita tranquilla nel conforto delle gioie familiari, modello che rimanda non solo al pastore della Liberata ma soprattutto all'Ariosto della Satira III, desideroso anche lui di una esistenza simile ma costretto per motivi economici a vivere nelle "misere corti" (► TESTO: La felicità delle piccole cose). Tasso non potrà mai raggiungere una simile serenità, soprattutto per i disturbi psicologici che avrebbero sconvolto il suo equilibrio e l'avrebbero confinato per anni nella prigionia di Sant'Anna.
- Il riferimento al vecchio di Corico (Georgiche, IV.125 ss.), che coltiva il proprio orticello e riempie la tavola di cibi non comperati ma frutto delle sue fatiche, ritornerà con citazione quasi letterale nel discorso del pastore ad Erminia (Liberata, VII.10.7-8: "e questa greggia e l’orticel dispensa / cibi non compri a la mia parca mensa"), mentre il passo era già stato citato da Petrarca nella canzone 50 del Canzoniere che il gentiluomo, mostrando una notevole cultura letteraria, recita a Tasso (► TESTO: Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina). La cultura classica è riecheggiata anche nella descrizione che il protagonista fa dell'organizzazione delle proprie terre, che segue strettamente la trattazione virgiliana nelle Georgiche (campi coltivati a cereali, frutteti, pascoli per l'allevamento del bestiame, apicultura), mentre subito dopo oltre a Virgilio viene menzionato Varrone Reatino, autore nel I sec. a.C. del trattato De re rustica. Ovviamente Tasso, gentiluomo di corte e letterato, poco o nulla sapeva di cose agricole e le sue conoscenze in questo campo erano di derivazione libresca, carattere comune del resto a gran parte degli intellettuali del XVI sec. (fino a tutto il XVIII sec. la rappresentazione letteraria del mondo contadino sarà sempre di tipo idillico e pochissimo rispondente alla realtà sociale delle campagne, mentre ancora Leopardi nel Sabato del villaggio riprenderà l'immagine virgiliana del vecchio di Corico nel descrivere lo "zappatore" che "riede alla sua parca mensa").
- L'inizio del dialogo fra Tasso e il padrone di casa riguarda il governo della famiglia e l'opportunità o meno che i figli si sposino presto, con l'autore che sostiene la tesi per cui bisognerebbe mettere al mondo figli quando si hanno almeno trent'anni, in modo che essi possano essere sostegno della vecchiaia dei genitori: l'autore si appoggia alla citazione classica di Lucrezio che nel De rerum natura (IV.1256) afferma proprio che occorre fortificare la vecchiaia con i figli (Gnatis munire senectam, con citazione lievemente imperfetta), sposando un ideale familiare di tipo "romano", fondato sull'autorità del paterfamilias cui sono sottoposti sia la moglie (che infatti esita a unirsi alla tavola, per non creare imbarazzo all'ospite) sia i figli. Tale motivo verrà ulteriormente sviluppato nel dialogo e costituirà l'elemento centrale del ragionamento, oltre alle questioni più propriamente pratiche del governo economico delle proprietà e dei servi, anch'esse pure importanti. Il figlio maggiore del gentiluomo, che non intende ancora sposarsi e trova in Tasso un "avvocato" tanto abile e convincente, se ne compiace e arricchisce la tavola con un capriolo che ha ucciso a caccia, con cui l'ospite viene onorato (la caccia era una delle occupazioni che il nobile romano svolgeva nei periodi di otium quando si tratteneva nella "villa" in campagna, per cui anche questo è un rimando alla cultura classica).