Letteratura italiana
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Torquato Tasso


Il finale dell'Aminta
(Aminta, Atto V, scena I)

Alla fine dell'atto IV un pastore ha portato la terribile notizia del suicidio di Aminta, che disperato per la morte di Silvia (che si credeva sbranata dai lupi) si è gettato da una rupe: Silvia, affranta per essere stata la causa indiretta dell'accaduto, nonché pentita di non essersi concessa ad Aminta, era andata con Dafne in cerca del corpo del giovane, ma ora Elpino rivela che in realtà Aminta si è salvato miracolosamente e che Silvia, ritrovatolo, lo ha baciato appassionatamente ridandogli vita e speranza. Il lieto fine del dramma giunge in modo inaspettato dopo che i due protagonisti sono stati creduti morti per una parte dell'opera, attraverso il racconto "fuori scena" di Elpino che sottolinea lo straordinario potere dell'amore sulla natura umana.

► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso




ATTO V, SCENA I
ELPINO, CORO

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CORO
[...] Ma tu, deh, Elpin, narra qual dio, qual sorte
nel periglioso precipizio Aminta
abbia salvato.

ELPINO
                        Io son contento: udite,
udite quel che con quest'occhi ho visto.
Io era anzi il mio speco [1], che si giace
presso la valle, e quasi a piè del colle,
dove la costa face di sé grembo [2];
quivi con Tirsi ragionando andava [...]
quando ci trasse gli occhi ad alto un grido [3]:
e 'l veder rovinar un uom dal sommo,
e 'l vederlo cader sovra una macchia [4],
fu tutto un punto. [5] Sporgea fuor del colle,
poco di sopra a noi, d'erbe e di spini
e d'altri rami strettamente giunti
e quasi in un tessuti, un fascio grande.
Quivi, prima che urtasse in altro luogo,
a cader venne; e bench'egli co 'l peso
lo sfondasse, e più in giuso indi cadesse,
quasi su' nostri piedi, quel ritegno
tanto d'impeto tolse a la caduta [6],
ch'ella non fu mortal; fu nondimeno
grave così, ch'ei giacque un'ora e piue
stordito affatto e di se stesso fuori.
Noi muti di pietate e di stupore
restammo a lo spettacolo improviso,
riconoscendo lui; ma conoscendo
ch'egli morto non era, e che non era
per morir forse, mitighiam l'affanno.
Allor Tirsi mi diè notizia intiera
de' suoi secreti ed angosciosi amori. [7]
Ma, mentre procuriam di ravvivarlo
con diversi argomenti, avendo in tanto
già mandato a chiamar Alfesibeo,
a cui Febo [8] insegnò la medica arte,
allor che diede a me la cetra e 'l plettro,
sopragiunsero insieme Dafne e Silvia,
che, come intesi poi, givan [9] cercando
quel corpo che credean di vita privo.
Ma, come Silvia il riconobbe, e vide
le belle guancie tenere d'Aminta
iscolorite in sì leggiadri modi,
che viola non è che impallidisca
sì dolcemente, e lui languir sì fatto
che parea già negli ultimi sospiri
essalar l'alma, in guisa di baccante [10]
gridando e percotendosi il bel petto,
lasciò cadersi in su 'l giacente corpo,
e giunse viso a viso e bocca a bocca.

CORO
Or non ritenne adunque la vergogna
lei, ch'è tanto severa e schiva tanto?

ELPINO
La vergogna ritien debile amore:
ma debil freno è di potente amore.
Poi, sì come ne gli occhi avesse un fonte,
inaffiar cominciò co 'l pianto suo
il colui [11] freddo viso, e fu quell'acqua
di cotanta virtù, ch'egli rivenne [12];
e gli occhi aprendo, un doloroso «ohimè»
spinse dal petto interno;
ma quell'«ohimè», ch'amaro
così dal cor partissi,
s'incontrò ne lo spirto
de la sua cara Silvia, e fu raccolto
da la soave bocca, e tutto quivi
subito raddolcissi.
Or chi potrebbe dir come in quel punto
rimanessero entrambi, fatto certo
ciascun de l'altrui vita, e fatto certo
Aminta de l'amor de la sua ninfa,
e vistosi con lei congiunto e stretto?
Chi è servo d'Amor, per sé lo stimi.
Ma non si può stimar, non che ridire.

CORO
Aminta è sano sì, ch'egli sia fuori
del rischio de la vita?

ELPINO
                                   Aminta è sano,
se non ch'alquanto pur graffiat'ha 'l viso,
ed alquanto dirotta la persona [13];
ma sarà nulla, ed ei per nulla il tiene.
Felice lui, che sì gran segno ha dato
d'amore, e de l'amor il dolce or gusta [14],
a cui gli affanni scorsi ed i perigli
fanno soave e dolce condimento;
ma restate con Dio, ch'io vo' seguire
il mio viaggio, e ritrovar Montano. [...]








[1] Il mio antro, la mia caverna.



[2] Dove la parete del monte forma un avvallamento.
[3] Quando un grido ci fece alzare gli occhi.

[4] Un cespuglio.
[5] Fu un tutt'uno.







[6] Quell'ostacolo tolse alla caduta abbastanza violenza.








[7] Mi informò del suo amore segreto e infelice per Silvia.



[8] Apollo.


[9] Andavano.






[10] Come una baccante, in preda al delirio.













[11] Il suo (di lui).
[12] Rinvenne, tornò in sé.





















[13] E ha diverse lesioni in tutto il corpo.


[14] E ora gusta le dolcezze dell'amore.


Interpretazione complessiva

  • Metro: versi settenari ed endecasillabi liberamente rimati, con prevalenza di endecasillabi. La lingua è il fiorentino letterario della proposta di Bembo, con presenza di alcuni latinismi (v. 59, "speco"; v. 82, "pietate"). La forma "givan" (v. 95, andavano) è propria della lingua letteraria delle Origini; anche l'epitesi "piue" (v. 85) è tipica della poesia del Due-Trecento, per ragioni metriche.
  • Tasso si rifà in questo passo alla tradizione della tragedia classica, che relegava i fatti più cruenti in un "fuori scena" e ne affidava il racconto a un personaggio che solitamente si rivolgeva al coro, come fa in questo caso Elpino: la differenza è ovviamente il lieto fine della vicenda amorosa, poiché Aminta si è salvato dal suo tentativo di suicidio e ha potuto congiungersi felicemente con Silvia, anche se a questo finale si giunge in modo inaspettato e dopo che i due protagonisti hanno attraversato una zona d'ombra, venendo creduti entrambi morti dal pubblico per circa un atto e mezzo. La vicenda dei due amanti che si uccidono dopo essersi creduti morti a vicenda ha un precedente nella storia di Piramo e Tisbe narrata da Ovidio (Met., IV.55 ss.), specie per il particolare del velo insaguinato di Silvia che tutti credono sia stata sbranata dai lupi, mentre nel mito classico Tisbe era stata inseguita da una leonessa; Piramo si trafiggeva con la spada e, morente, si rianimava alla voce dell'amata Tisbe, come avviene qui con Aminta che però si salva. Una narrazione simile si ha ovviamente anche nella novella di Matteo Bandello che ha per protagonisti Romeo e Giulietta (II.9), successivamente rielaborata da William Shakespeare nella tragedia omonima (► TESTO: Romeo e Giulietta).
  • I vv. 99-101 sono una ripresa di Eneide, XI.68-71, quando il pallore del giovane Pallante morto viene paragonato a quello di una viola o di un giacinto reciso che inizia a illanguidire, poiché non riceve più il nutrimento della terra (qualem virgineo demessum pollice florem / seu mollis violae seu languentis hyacinthi, / cui neque fulgor adhuc nec dum sua forma recessit, / non iam mater alit tellus virisque ministrat), con la differenza che Aminta si sta rianimando grazie al bacio di Silvia. Anche l'immagine della "fonte" al v. 111 si rifà alla tradizione della poesia petrarchista del Cinquecento, ad es. nell'episodio del Furioso in cui Orlando perde il senno (XXIII.125; ► TESTO: La follia di Orlando).

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