Iacopo Sannazaro
Selvaggio e Ergasto
(Arcadia, prosa I; egloga I)
Il passo che segue è l'inizio dell'opera, con la presentazione nella prosa dello scenario in cui si svolgeranno le vicende dei pastori (un "locus amoenus" posto in Arcadia, la regione storica della Grecia tradizionalmente associata alla poesia bucolica), mentre la successiva egloga mostra il dialogo tra il pastore Ergasto, triste e sconsolato a causa dell'amore infelice per una ninfa incontrata presso un fiume, e l'amico Selvaggio, che cerca invano di rasserenarlo e di spingerlo a occuparsi del gregge rimasto incustodito. La pagina è un bell'esempio di quella poesia di ambito "bucolico" che tanta fortuna avrebbe avuto nella letteratura del XVI-XVII sec., al punto che il termine "Arcadia" diventerà sinonimo proprio di produzione pastorale e idillica.
► PERCORSO: L'Umanesimo
► PERCORSO: L'Umanesimo
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PROSA I
Giace nella sommità di Partenio [1], non umile monte de la pastorale Arcadia [2], un dilettevole piano, di ampiezza non molto spazioso però che il sito del luogo nol consente, ma di minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che se le lascive pecorelle con gli avidi morsi non vi pascesseno, vi si potrebbe di ogni tempo ritrovare verdura. Ove, se io non mi inganno, son forse dodici o quindici alberi, di tanto strana et eccessiva bellezza, che chiunque li vedesse, giudicarebbe che la maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formarli. Li quali alquanto distanti, et in ordine non artificioso disposti, con la loro rarità la naturale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono. [3] Quivi senza nodo veruno si vede il drittissimo abete, nato a sustinere i pericoli del mare; e con più aperti rami la robusta quercia e l’alto frassino e lo amenissimo platano vi si distendono, con le loro ombre non picciola parte del bello e copioso prato occupando. Et èvi [4] con più breve fronda l’albero, di che Ercule coronarsi solea, nel cui pedale le misere figliuole di Climene furono transformate. [5] Et in un de’ lati si scerne il noderoso castagno, il fronzuto bosso e con puntate foglie [6] lo eccelso pino carico di durissimi frutti; ne l’altro lo ombroso faggio, la incorruttibile tiglia [7] e ’l fragile tamarisco [8], insieme con la orientale palma, dolce et onorato premio de’ vincitori. Ma fra tutti nel mezzo presso un chiaro fonte sorge verso il cielo un dritto cipresso, veracissimo imitatore de le alte mete, nel quale non che Ciparisso, ma, se dir conviensi, esso Apollo [9] non si sdegnarebbe essere transfigurato. Né sono le dette piante sì discortesi, che del tutto con le lor ombre vieteno i raggi del sole entrare nel dilettoso boschetto; anzi per diverse parti sì graziosamente gli riceveno, che rara è quella erbetta che da quelli non prenda grandissima recreazione. E come che di ogni tempo piacevole stanza vi sia [10], ne la fiorita primavera più che in tutto il restante anno piacevolissima vi si ritruova. In questo così fatto luogo sogliono sovente i pastori con li loro greggi dagli vicini monti convenire, e quivi in diverse e non leggiere pruove esercitarse; sì come in lanciare il grave palo [11], in trare con gli archi al versaglio [12], et in addestrarse nei lievi salti e ne le forti lotte, piene di rusticane insidie; e ’l più de le volte in cantare et in sonare le sampogne a pruova l’un de l’altro [13], non senza pregio e lode del vincitore. Ma essendo una fiata [14] tra l’altre quasi tutti i convicini pastori con le loro mandre quivi ragunati, e ciascuno, varie maniere cercando di sollacciare [15], si dava maravigliosa festa, Ergasto solo, senza alcuna cosa dire o fare, appiè di un albero, dimenticato di sé e de’ suoi greggi giaceva, non altrimente che se una pietra o un tronco stato fusse, quantunque per adietro solesse oltra gli altri pastori essere dilettevole e grazioso. Del cui misero stato Selvaggio mosso a compassione, per dargli alcun conforto, così amichevolmente ad alta voce cantando gli incominciò a parlare: |
[1] Il Partenio è un monte posto ai confini tra Arcadia e Argolide. [2] Regione storica della Grecia, associata alla poesia pastorale antica. [3] Nobilitano. [4] E vi è. [5] Il pioppo, albero sacro a Ercole nel cui tronco (pedale) furono tramutate le sorelle di Fetonte affrante dalla sua morte. [6] Con foglie appuntite (gli aghi). [7] Il tiglio. [8] La tamerice. [9] Nel quale non solo Ciparisso, ma lo stesso Apollo... [10] E benché vi si trascorra piacevolmente il tempo in ogni stagione. [11] Lanciare il giavellotto. [12] Tirare con l'arco a un bersaglio. [13] Suonando la zampogna facendo a gara. [14] Una volta. [15] Cercando vari modi per divertirsi. |
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ECLOGA I
Selvaggio, Ergasto SELVAGGIO Ergasto mio, perché solingo e tacito pensar ti veggio? Oimè, che mal si lassano le pecorelle andare a lor ben placito! Vedi quelle che ’l rio varcando passano; vedi quei duo monton che ’nsieme correno come in un tempo per urtar s’abassano. Vedi c’al vincitor tutte soccorreno e vannogli da tergo, e ’l vitto scacciano e con sembianti schivi ognor l’aborreno. E sai ben tu che i lupi, ancor che tacciano, fan le gran prede; e i can dormendo stannosi, però che i lor pastor non vi s’impacciano. Già per li boschi i vaghi ucelli fannosi i dolci nidi, e d’alti monti cascano le nevi, che pel sol tutte disfannosi. E par che i fiori per le valli nascano, et ogni ramo abbia le foglia tenere, e i puri agnelli per l’erbette pascano. L’arco ripiglia il fanciullin di Venere, che di ferir non è mai stanco, o sazio di far de le medolle arida cenere. Progne ritorna a noi per tanto spazio con la sorella sua dolce cecropia a lamentarsi de l’antico strazio. A dire il vero, oggi è tanta l’inopia di pastor che cantando all’ombra seggiano, che par che stiamo in Scitia o in Etiopia. Or poi che o nulli o pochi ti pareggiano a cantar versi sì leggiadri e frottole, deh canta omai, che par che i tempi il cheggiano. ERGASTO Selvaggio mio, per queste oscure grottole Filomena né Progne vi si vedono, ma meste strigi et importune nottole. Primavera e suoi dì per me non riedono, né truovo erbe o fioretti che mi gioveno, ma solo pruni e stecchi che ’l cor ledono. Nubbi mai da quest’aria non si moveno, e veggio, quando i dì son chiari e tepidi, notti di verno, che tonando pioveno. Perisca il mondo, e non pensar ch’io trepidi; ma attendo sua ruina, e già considero che ’l cor s’adempia di pensier più lepidi. Caggian baleni e tuon quanti ne videro i fier giganti in Flegra, e poi sommergasi la terra e ’l ciel, ch’io già per me il desidero. Come vuoi che ’l prostrato mio cor ergasi a poner cura in gregge umile e povero, ch’io spero che fra’ lupi anzi dispergasi? Non truovo tra gli affanni altro ricovero che di sedermi solo appiè d’un acero, d’un faggio, d’un abete o ver d’un sovero; ché pensando a colei che ’l cor m’ha lacero divento un ghiaccio, e di null’altra curomi, né sento il duol ond’io mi struggo e macero. SELVAGGIO Per maraviglia più che un sasso induromi, udendoti parlar sì malinconico, e ’n dimandarti alquanto rassicuromi. Qual è colei c’ha ’l petto tanto erronico, che t’ha fatto cangiar volto e costume? Dimel, che con altrui mai nol commonico. ERGASTO Menando un giorno gli agni presso un fiume, vidi un bel lume in mezzo di quell’onde, che con due bionde trecce allor mi strinse, e mi dipinse un volto in mezzo al core che di colore avanza latte e rose; poi si nascose in modo dentro all’alma, che d’altra salma non mi aggrava il peso. Così fui preso; onde ho tal giogo al collo, ch’il pruovo e sollo più c’uom mai di carne, tal che a pensarne è vinta ogni alta stima. Io vidi prima l’uno e poi l’altro occhio; fin al ginocchio alzata al parer mio in mezzo al rio si stava al caldo cielo; lavava un velo, in voce alta cantando. Oimè, che quando ella mi vide, in fretta la canzonetta sua spezzando tacque, e mi dispiacque che per più mie’ affanni si scinse i panni e tutta si coverse; poi si sommerse ivi entro insino al cinto, tal che per vinto io caddi in terra smorto. E per conforto darmi, ella già corse, e mi soccorse, sì piangendo a gridi, c’a li suo’ stridi corsero i pastori che eran di fuori intorno a le contrade, e per pietade ritentàr mill’arti. Ma i spirti sparti al fin mi ritornaro e fen riparo a la dubbiosa vita. Ella pentita, poi ch’io mi riscossi, allor tornossi indietro, e ’l cor più m’arse, sol per mostrarse in un pietosa e fella. La pastorella mia spietata e rigida, che notte e giorno al mio soccorso chiamola, e sta soperba e più che ghiaccio frigida, ben sanno questi boschi quanto io amola; sannolo fiumi, monti, fiere et omini, c’ognor piangendo e sospirando bramola. Sallo, quante fiate il dì la nomini, il gregge mio, che già a tutt’ore ascoltami, o ch’egli in selva pasca o in mandra romini. Eco rimbomba, e spesso indietro voltami le voci che sì dolci in aria sonano, e nell’orecchie il bel nome risoltami. Quest’alberi di lei sempre ragionano e ne le scorze scritta la dimostrano, c’a pianger spesso et a cantar mi spronano. Per lei li tori e gli arieti giostrano. |
SELVAGGIO: O mio Ergasto, perché ti vedo così pensieroso, solitario e silenzioso? Ahimè, non conviene lasciare che le pecorelle vadano al pascolo liberamente! Vedi quelle che stanno oltrepassando il ruscello; vedi quei due montoni che corrono insieme e si abbassano al tempo stesso per dar di cozzo. Vedi che tutte le pecore corrono dal vincitore e lo seguono, e scacciano il vinto e gli riservano atteggiamenti schivi. E sai bene che i lupi, anche se in silenzio, fanno molte prede; e i cani stanno dormendo, poiché i pastori non li sorvegliano. Già gli uccelli deliziosi si fanno il dolce nido nei boschi e dagli alti monti cadono le nevi, che si sciolgono al sole [è primavera]. E sembra che i fiori nascano nelle valli e che su ogni ramo spuntino le tenere foglie, e che i puri agnelli pascolino tra le erbette. Il figlio di Venere [Cupido], che non si stanca mai di colpire né è soddisfatto di trasformare il cuore in arida cenere, riprende l'arco. Progne [l'usignolo] torna a noi dopo tanto tempo con sua sorella ateniese [Filomela, la rondine] a lamentarsi dell'antico oltraggio. A dire il vero, oggi c'è tanta mancanza di pastori che siedano cantando all'ombra che ci sembra di essere in Scizia o in Etiopia. Poiché pochi tra noi sono bravi come te a cantare versi e frottole così soavi, canta, su, poiché i tempi sembrano richiederlo. ERGASTO: O mio Selvaggio, in queste oscure grotte non si vedono né Progne né Filomela [né l'usignolo né la rondine], ma tristi civette e nottole fastidiose. La primavera e i suoi giorni non ritornano per me, né trovo erbe o fiorellini che mi piacciano, ma solo pruni e spine che mi feriscono il cuore. Le nubi non vengono mai rimosse da questo cielo e quando i giorni sono chiari e tiepidi io vedo notti invernali, che tra i tuoni fanno cadere la pioggia. Muoia il mondo e non pensare che io abbia paura; ma attendo la sua rovina, e già penso che il cuore si riempirà di pensieri più dolci. Vengano pure fulmini e tuoni quanti ne videro i fieri giganti nella battaglia di Flegra, e poi vengano sommersi terra e cielo, poiché io desidero questo per me. Come pretendi che il mio cuore rattristato si desti a curare il povero umile gregge, che anzi spero che sia disperso tra i lupi? Tra i miei affanni non trovo altro rimedio che di sedere solo ai piedi di un acero, di un faggio, di un abete oppure di un albero di sughero; infatti, pensando a colei che mi ha strappato il cuore, divento di ghiaccio e non mi curo di nessun'altra, né sento il dolore con cui mi struggo e mi macero. SELVAGGIO: Per lo stupore divento più duro di un sasso, sentendoti parlare in modo così malinconico, e voglio farti delle domande per rassicurarmi. Chi è la donna dal cuore tanto fallace che ti ha fatto cambiare volto e abitudini? Dimmelo, non lo rivelerò a nessun altro. ERGASTO: Un giorno, mentre portavo gli agnelli al fiume, vidi una splendida luce [una donna] in mezzo alle onde, che allora mi legò a sé con due bionde trecce e mi dipinse un volto nel cuore il cui aspetto supera quello del latte e delle rose; poi si nascose nella mia anima al punto che non sopporto il peso di nessun altro carico. Così fui catturato; per cui al collo porto un giogo tale che nessun altro uomo mortale ha mai provato o conosciuto, tale che supera ogni alta immaginazione. Io vidi prima i due occhi [della donna]; a mio parere stava alzata sino alle ginocchia in mezzo al ruscello, nell'aria calda; lavava un velo e cantava a voce alta. Ahimè, quando mi vide tacque e interruppe subito la sua canzone, e con mio dispiacere e affanno afferrò le vesti e si coprì tutta; poi si immerse in acqua sino alla cintola, in modo tale che io caddi a terra privo di sensi. E per confortarmi corse a soccorrermi, piangendo e gridando così che alle sue urla giunsero i pastori che erano tutt'intorno in quelle contrade, e per pietà di me tentarono di rianimarmi in tutti i modi. Ma i miei spiriti alla fine tornarono e ristorarono la mia vita incerta. Lei, pentita dopo che ripresi i sensi, tornò indietro e arse di più il mio cuore, solo per mostrarsi pietosa e crudele al tempo stesso. La mia pastorella spietata e dura, che invoco giorno e notte al mio soccorso, ed è superba e più fredda del ghiaccio, lo sanno questi questi boschi quanto la amo; lo sanno i fiumi, i monti, le belve e gli uomini, poiché la desidero piangendo e sospirando. Anche il mio gregge che mi ascolta sempre sa quante volte al giorno la nomini, sia che vada al pascolo nei boschi o che rumini nel recinto. L'eco rimbomba e spesso mi fa voltare indietro per le voci che risuonano dolci nell'aria, e il bel nome della donna riecheggia nelle mie orecchie. Questi alberi parlano sempre di lei e la mostrano scritta nelle cortecce, per cui mi spronano spesso a piangere e a cantare. Per lei lottano tra loro i tori e gli arieti. |
Interpretazione complessiva
- Metro: i vv. 1-60 son tutti endecasillabi sdruccioli e rimano secondo lo schema ABC, BCB, CDC..., quindi riproducendo le terzine dantesche (unica eccezione il v. 59, piano); i vv. 61-90 sono endecasillabi piani e presentano tutti rima al mezzo, per cui ogni verso rima col primo emistichio del successivo (il v. 61 rima però col v. 59, mentre il v. 90 rima col primo emistichio del v. 91, sdrucciolo). I vv. 91-106 sono nuovamente sdruccioli e rimano secondo lo schema delle terzine dantesche.
- La prosa costituisce una sorta di introduzione generale all'opera e descrive lo spazio in cui si svolgeranno le vicende dei pastori e i loro amori, presentato esattamente come il locus amoenus della tradizione classica e trobadorica: si tratta di una tranquilla radura sulla cima del monte Partenio, abbellita da alcuni alberi disposti dalla natura in modo aggraziato ma non artificioso (quindi non come il prodotto dell'architettura dell'uomo), tra cui figurano le piante più note della poesia pastorale e del mito classico in generale, come la quercia sacra a Giove, il pioppo sacro ad Ercole, e poi il bosso, le tamerici (le myricae delle Egloghe virgiliane), il frassino, la palma. Al centro dello spiazzo si erge altissimo un cipresso che viene evocato attraverso il mito di Ciparisso, il giovane amato da Apollo che si trasformò nell'albero per il dolore della morte di un cervo da lui addomesticato e da lui stesso ucciso per sbaglio (da ciò il tradizionale accostamento tra il cipresso e i luoghi funebri). È ovvio che la vita dei pastori in questo luogo ricalca la rappresentazione idealizzata della poesia bucolica dell'antichità e non ha nulla di realistico, per cui essi vengono descritti mentre conducono le greggi al pascolo, si sfidano in gare campestri o gareggiano in canto e poesia, sulla falsariga delle analoghe descrizioni che appaiono soprattutto nelle Egloghe di Virgilio.
- L'egloga mostra un dialogo tra due pastori, Selvaggio e Ergasto, con quest'ultimo affranto per un amore infelice e il primo intento senza molto successo a consolarlo: Selvaggio ricorda all'amico che è primavera, dunque la stagione tradizionalmente associata agli amori, per cui gli uccelli vanno facendo il nido, le nevi si sciolgono, i fiori sbocciano nei prati, mentre Ergasto ribatte che per lui è sempre inverno e ha il ghiaccio nel cuore, quindi si augura non solo che il suo gregge venga disperso dai lupi, ma addirittura che il mondo finisca dato che non può offrirgli alcuna consolazione (il riferimento mitologico è alla battaglia di Flegra in cui Giove abbatté i giganti ribelli coi fulmini e al diluvio che sommerse la terra). Il lamento amoroso di Ergasto riprende la tradizione della poesia trobadorica e due-trecentesca, così come la descrizione della bellissima pastorella che lui ha incontrato un giorno per caso e che gli ha rubato il cuore, le cui trecce bionde e la ritrosia all'amore ricordano sia le ninfe della letteratura classica (specie Dafne che rifuggiva Apollo), sia le donne-angelo della poesia stilnovista e trecentesca, sia pure con un riferimento puramente esteriore data l'estraneità di qualunque elemento religioso. Il racconto dell'incontro tra Ergasto e la donna ricorda in parte quello di Africo e Mensola nel Ninfale fiesolano di Boccaccio (► TESTO: Africo e Mensola) e anche quello tra Iulio e Simonetta delle Stanze di Poliziano (► TESTO: Iulio e Simonetta).
- L'ambientazione pastorale dell'Arcadia avrà un'enorme influenza sulla poesia italiana del Sei-Settecento, al punto che il termine "arcadico" diventerà sinonimo di "bucolico" e "Arcadia" sarà il nome dell'accademia nata nel 1690 a Roma come reazione al cattivo gusto secentesco, la cui produzione sarà essenzialmente di argomento pastorale. Le vicende dell'opera di Sannazaro verranno riprese in parte anche dal dramma pastorale del tardo Cinquecento, a cominciare dall'Aminta di T. Tasso in cui la ninfa Silvia (amata dal protagonista ma inizialmente ritrosa all'amore) ricorda in alcuni aspetti la fanciulla descritta da Ergasto in questo passo.