Letteratura italiana
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Dante Alighieri


Dante e Farinata degli Uberti
(Inferno, X, 22-120)

Tra gli eresiarchi rinchiusi nelle tombe infuocate della città di Dite, Dante incontra l'anima di Farinata degli Uberti, il capo-fazione dei ghibellini di Firenze che era stato protagonista della storica battaglia di Montaperti del 1260: con lui il poeta ha un vivace scambio di battute polemiche a sfondo politico, che danno modo a Farinata di profetizzare in modo malevolo le future difficoltà dell'esilio per Dante. L'episodio ha una parentesi in cui si inserisce il personaggio di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido che, a suo dire, dovrebbe accompagnare Dante nel viaggio nell'aldilà: la risposta ambigua del protagonista lo getta nello sconforto e gli fa credere, erroneamente, che Guido sia già morto (in realtà l'amico di Dante morirà solo nell'agosto del 1300). Alla fine del passo sarà Farinata a svelare le ragioni dell'equivoco, spiegando che i dannati possono prevedere il futuro, ma non vedere con chiarezza i fatti prossimi o presenti. Il brano è interessante non solo per il tema politico, ma soprattutto per la grandezza maestosa di Farinata che, però, è talmente prigioniero della sua ottica di parte da restare indifferente al dramma psicologico del compagno di pena Cavalcante, nonché ignaro delle ragioni della sua stessa dannazione infernale.

► PERCORSO: La poesia religiosa
► AUTORE: Dante Alighieri
► OPERA: Divina Commedia




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«O Tosco che per la città del foco 
vivo ten vai così parlando onesto, 
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto 
di quella nobil patria natio 
a la qual forse fui troppo molesto».

Subitamente questo suono uscìo 
d’una de l’arche; però m’accostai, 
temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? 
Vedi là Farinata che s’è dritto: 
da la cintola in sù tutto ’l vedrai».

Io avea già il mio viso nel suo fitto; 
ed el s’ergea col petto e con la fronte 
com’avesse l’inferno a gran dispitto.

E l’animose man del duca e pronte 
mi pinser tra le sepulture a lui, 
dicendo: «Le parole tue sien conte».

Com’io al piè de la sua tomba fui, 
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, 
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

Io ch’era d’ubidir disideroso, 
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi; 
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;         

poi disse: «Fieramente furo avversi 
a me e a miei primi e a mia parte, 
sì che per due fiate li dispersi».

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte», 
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata; 
ma i vostri non appreser ben quell’arte».

Allor surse a la vista scoperchiata 
un’ombra, lungo questa, infino al mento: 
credo che s’era in ginocchie levata. 

Dintorno mi guardò, come talento 
avesse di veder s’altri era meco; 
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 

piangendo disse: «Se per questo cieco 
carcere vai per altezza d’ingegno, 
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 

E io a lui: «Da me stesso non vegno: 
colui ch’attende là, per qui mi mena 
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».  

Le sue parole e ’l modo de la pena 
m’avean di costui già letto il nome; 
però fu la risposta così piena.  

Di subito drizzato gridò: «Come? 
dicesti "elli ebbe"? non viv’elli ancora? 
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».  

Quando s’accorse d’alcuna dimora 
ch’io facea dinanzi a la risposta, 
supin ricadde e più non parve fora.  

Ma quell’altro magnanimo, a cui posta 
restato m’era, non mutò aspetto, 
né mosse collo, né piegò sua costa:

e sé continuando al primo detto, 
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa, 
ciò mi tormenta più che questo letto. 

Ma non cinquanta volte fia raccesa 
la faccia de la donna che qui regge, 
che tu saprai quanto quell’arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge, 
dimmi: perché quel popolo è sì empio 
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?». 

Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio 
che fece l’Arbia colorata in rosso, 
tal orazion fa far nel nostro tempio».

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso, 
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo 
sanza cagion con li altri sarei mosso. 

Ma fu’ io solo, là dove sofferto 
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, 
colui che la difesi a viso aperto».

«Deh, se riposi mai vostra semenza», 
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo 
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.

El par che voi veggiate, se ben odo, 
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce, 
e nel presente tenete altro modo». 

«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, 
le cose», disse, «che ne son lontano; 
cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s’appressano o son, tutto è vano 
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, 
nulla sapem di vostro stato umano.

Però comprender puoi che tutta morta 
fia nostra conoscenza da quel punto 
che del futuro fia chiusa la porta».

Allor, come di mia colpa compunto, 
dissi: «Or direte dunque a quel caduto 
che ’l suo nato è co’vivi ancor congiunto;

e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto, 
fate i saper che ’l fei perché pensava 
già ne l’error che m’avete soluto».    

E già ’l maestro mio mi richiamava; 
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio 
che mi dicesse chi con lu’ istava.

Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: 
qua dentro è ’l secondo Federico, 
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio».

«O toscano, che te ne vai per la città del fuoco parlando in modo così dignitoso, abbi la compiacenza di trattenerti.


Il tuo accento indica che sei nato in quella nobile patria alla quale, forse, fui troppo fastidioso».

Questa voce uscì improvvisamente da una delle tombe, per cui ebbi paura e mi strinsi un poco al mio maestro.


Ed egli mi disse: «Voltati, che fai? Non vedi laggiù Farinata che si è sollevato? Lo puoi vedere dalla cintola in su».


Io avevo già fitto il mio sguardo nel suo; e lui si ergeva con la fronte e il petto alti, come se disprezzasse tutto l'Inferno.


E le mani di Virgilio, pronte e animose, mi spinsero fra le tombe verso di lui, mentre il maestro diceva: «Fa' che le tue parole siano misurate».

Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi guardò un poco e poi, quasi con disdegno, mi domandò: «Chi furono i tuoi avi?»


Io, che ero smanioso di obbedire, non glieli nascosi ma, anzi, risposi pienamente; allora lui sollevò un poco le ciglia, poi disse: «Essi furono aspri nemici miei, dei miei avi e della mia parte politica [i Ghibellini], al punto che per due volte li cacciai da Firenze».




Io gli risposi: «Se essi furono cacciati, tornarono poi da ogni parte, in entrambe le occasioni; ma i vostri avi, invece, non furono altrettanto bravi».

In quel momento apparve alla nostra vista un'anima, che si sporgeva accanto a quella di Farinata fino al mento: credo che fosse inginocchiata.

Mi guardò intorno, come se avesse desiderio di vedere se c'era qualcun altro con me; e poi che smise di osservare, mi disse piangendo: «Se tu vai per questo cieco carcere per i tuoi meriti di intellettuale, dov'è mio figlio [Guido Cavalcanti]? E perché non è qui con te?»




E io a lui: «Non sono qui per mio solo merito: colui che attende là [Virgilio] mi conduce attraverso l'Inferno verso colei [Beatrice] che vostro figlio Guido, forse, ebbe a disdegno [disprezzò]».

Le sue parole e il fatto che fosse tra gli Epicurei mi avevano fatto capire il nome di costui [Cavalcante]; perciò risposi così prontamente.

E lui, improvvisamente sollevatosi, gridò: «Come? Hai detto "egli ebbe"? Guido non vive ancora? la dolce luce del sole non colpisce più i suoi occhi?»

Quando si accorse che esitavo a rispondere, ricadde supino e non ricomparve più fuori dalla tomba.


Ma quell'altro nobile dannato, alla cui domanda mi ero fermato, non mutò aspetto, né parve minimamente colpito dall'accaduto:


e proseguendo il discorso iniziato, disse: «Se i miei avi hanno appreso male l'arte di rientrare in Firenze, ciò mi procura più sofferenza di questa tomba.

Ma non passeranno cinquanta fasi lunari [quattro anni] che anche tu saprai quant'è dolorosa quell'arte.


E ora dimmi (e possa tu tornare nel dolce mondo terreno): perché i fiorentini sono così duri in ogni loro provvedimento contro la mia famiglia?»
E io a lui: «Lo strazio e l'orrenda strage di Montaperti, che colorarono di rosso il fiume Arbia, ci inducono a emanare queste leggi».


Dopo che ebbe scosso il capo sospirando, disse: «Non fui certo il solo a combattere quella battaglia, né certo ci sarei andato senza una valida ragione.

In compenso fui l'unico a difendere Firenze a viso aperto, quando ciascun capo ghibellino era pronto a raderla al suolo».


Allora lo pregai: «Orsù, possa la vostra discendenza trovare pace: risolvetemi quel dubbio che aggroviglia i miei ragionamenti.


Mi sembra che voi dannati vediate, se ho capito bene, gli eventi futuri, mentre abbiate altra conoscenza del presente».


Disse: «Noi, come chi ha un difetto di vista [chi è presbite], vediamo le cose che sono lontane nel tempo; soltanto questo ci permette Dio.

Quando le cose si avvicinano o accadono, il nostro intelletto è vano e se altri non ci porta notizie, non sappiamo nulla della vostra condizione umana.

Perciò puoi capire che la nostra conoscenza [del futuro] sarà totalmente annullata dal momento in cui sarà chiusa la porta del futuro, ovvero il giorno del Giudizio».

Allora, come pentito della mia colpa, dissi: «Direte poi a quel dannato che suo figlio è ancora in vita;

e se poc'anzi non gli diedi subito risposta, ditegli che lo feci perché ero nell'errore che voi mi avete spiegato».


E ormai Virgilio mi richiamava; perciò pregai in fretta lo spirito che mi dicesse  chi erano i suoi compagni di pena.


Mi rispose: «Qui giaccio con più di mille dannati: qua dentro è Federico II di Svevia, nonché il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; non ti dico nulla degli altri».


Interpretazione complessiva

  • Nei versi iniziali del canto Dante e Virgilio, dopo essere entrati nella città di Dite che ospita il sesto cerchio dell'Inferno, passeggiano tra le tombe infuocate che ospitano le anime degli eresiarchi, in particolare gli epicurei che "l'anima col corpo morta fanno" (la filosofia epicurea era materialista e riteneva l'anima mortale, per cui è chiaro il contrappasso). Tra i dannati è Farinata a rivolgersi a Dante, che ha riconosciuto come suo concittadino dall'accento, e il potente capo di parte ghibellina è il protagonista assoluto dell'episodio: Manente degli Uberti (detto Farinata, pare, per il colore biondo dei capelli) aveva preso parte alla battaglia di Montaperti del 1260 e aveva visto trionfare la sua fazione politica sui guelfi, che sarebbero rientrati nel 1266 dopo Benevento (ma lui era morto nel 1264); erano note le sue idee in campo religioso e subì un processo postumo per eresia, in seguito al quale le sue ossa vennero dissepolte e poste in terra sconsacrata. Dante lo dipinge come una figura altera e disdegnosa, che sembra disprezzare l'Inferno e il giudizio divino, ma Farinata è anche prigioniero di un'ottica politica di parte che gli impedisce di cogliere le ragioni della sua perdizione, così come lo rende indifferente al dramma che coinvolge il compagno di pena Cavalcante (si veda oltre).
  • Il colloquio tra Dante e Farinata è, almeno all'inizio, un vivace scambio polemico tra i due sulla rispettiva appartenenza politica: Dante si presenta come guelfo indicando i suoi "maggior" (antenati) e l'altro ribatte che lui, in quanto ghibellino, ha inflitto due sonore sconfitte alla parte di Dante (nel 1248 e nel 1260, a Montaperti), al che il poeta risponde che in entrambi i casi i guelfi seppero tornare (nel 1251 e nel 1266, dopo Benevento), mentre i ghibellini "non appreser ben quell'arte". Dopo la parentesi di Cavalcante, che non smuove Farinata dal suo assunto, questi riprende profetizzando in modo velato a Dante l'esilio e, in particolare, la sconfitta della Lastra del 1304, dopo la quale anche lui saprà "quanto quell'arte pesa": il dialogo tra i due si configura come un "contrasto" di tipo politico e Farinata sembra indifferente a tutto ciò che lo circonda, poiché non pone attenzione all'importante discorso sulla salvezza che Dante fa a Cavalcante sul figlio Guido e che i due dannati non sembrano neppure comprendere. Cavalcante era oltretutto un esponente di parte guelfa, quindi nemico di Farinata, e il clima di scontro civile tra le due fazioni è rievocato anche col ricordo di Montaperti, la cui strage che colorò di sangue le acque dell'Arbia aveva indotto i guelfi dopo il 1266 a consumare molte vendette contro i ghibellini; Farinata si rammarica di ciò, ricordando che nel convegno di Empoli, quando altri avevano proposto di radere al suolo Firenze, lui era stato l'unico a difenderla "a viso aperto". Come in altri passi del poema, Dante condanna gli scontri e le lotte intestine ai Comuni italiani (Firenze in particolare, ma non solo) come la causa principale dei disordini e dell'ingiustizia di cui lui stesso era stato vittima nell'esilio, cosa che fra l'altro lo aveva spinto a teorizzare la necessità che l'imperatore ristabilisse la sua autorità sulla Penisola.
  • Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido amico di Dante, era un noto esponente dell'epicureismo a Firenze (come del resto anche lo stesso figlio, almeno secondo varie testimonianze) e quando si affaccia dalla tomba e non vede Guido si stupisce, poiché crede che Dante compia questo viaggio nell'aldilà "per altezza d'ingegno", per meriti esclusivamente intellettuali: in realtà Dante, come spiega al dannato, è qui perché oggetto della grazia di Dio ed è guidato da Virgilio a Beatrice, anche se il suo discorso è ambiguo e induce Cavalcante a credere che Guido sia già morto, mentre il poeta dello Stilnovo morirà solo nell'agosto del 1300 (qui siamo nella primavera). Lo sconforto di Cavalcante si spiega anche alla luce del fatto che lui, in quanto eretico, non comprende il discorso sulla salvezza fatto da Dante, come del resto non lo capisce neppure Farinata, inoltre si preoccupa solo del fatto che Guido non è stato scelto per accompagnare Dante nell'Oltretomba, mentre dovrebbe temere piuttosto per la sua salvezza spirituale. Guido Cavalcanti sarà protagonista anche di una novella del Decameron di G. Boccaccio (VI, 9) in cui il poeta è descritto come un intellettuale e un filosofo, spesso impegnato in ragionamenti per dimostrare la non esistenza di Dio (► TESTO: Guido Cavalcanti).
  • Nella conclusione dell'episodio Farinata spiega a Dante l'equivoco in cui è caduto Cavalcante: i dannati possono prevedere gli eventi futuri quando sono lontani nel tempo, mentre quando si avvicinano o sono imminenti non possono più vederli e quindi ignorano quanto stia avvenendo nel presente. Le ultime parole del dannato spiegano a Dante quali sono gli altri suoi compagni di pena, tra cui cita solamente l'imperatore Federico II di Svevia (molto ammirato da Dante, ma che aveva fama di epicureo) e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, zio del più famoso arcivescovo Ruggieri che Dante includerà fra i traditori del nono cerchio (canti XXXII-XXXIII).

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