Michelangelo Buonarroti
«Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni»
(Rime, 92)
In questo elegante madrigale Michelangelo rimpiange il fatto che la sua età ormai avanzata, che lo avvicina sempre più alla morte, non impedisca all'amore di straziare ancora il suo cuore, cosicché esso a forza di ardere per la passione è ormai tramutato in "cenere e carbone". Scritta per il giovinetto Tommaso de' Cavalieri che il grande artista toscano amò in tarda età, la lirica mostra un'evidente imitazione di celebri versi petrarcheschi, caratterizzati anche dall'ansia della morte imminente che risponde anch'essa a un "topos" letterario.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► PERCORSO: Il Rinascimento
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Quantunche ’l tempo ne costringa e sproni
ognor con maggior guerra a rendere alla terra le membra afflitte, stanche e pellegrine, non ha per ’ncor fine chi l’alma attrista e me fa così lieto. Né par che men perdoni a chi ’l cor m’apre e serra, nell’ore più vicine e più dubiose d’altro viver quieto: ché l’error consueto, com più m’attempo, ognor più si fa forte. O dura mia più c’altra crudel sorte! tardi orama’ puo’ tormi tanti affanni; c’un cor che arde e arso è già molt’anni torna, se ben l’ammorza la ragione, non più già cor, ma cenere e carbone. |
Anche se il tempo mi incalza e mi costringe con sempre maggior sofferenza a restituire alla terra il corpo afflitto, stanco e pellegrino, non ha ancora fine l'amore, colui che rattrista la mia anima e rende me così felice.
E non sembra che l'amore, che mi apre e chiude il cuore, intenda farmi grazia, nelle ore più vicine alla quiete della morte e più dubbiose [riguardo alla salvezza]: infatti il consueto errore [della passione] si fa più forte man mano che invecchio. O mia dura sorte, più crudele di ogni altra! Tardivamente ormai puoi togliermi tanti affanni; poiché un cuore che arde ed è arso da molti anni, anche se la ragione tenta di spegnere il fuoco, non può che diventare cenere e carbone. |
Interpretazione complessiva
- Metro: madrigale di endecasillabi e settenari, con schema della rima AbbCcDabcDdEEFFGG (A, G in forte assonanza). Allitterazione della "c" ai vv. 13, 15 e 17, della "t" al v. 14, per sottolineare l'asprezza della condizione dell'autore, il cui cuore è ancora straziato dalla passione. La lingua è il fiorentino letterario di stretta imitazione petrarchesca, conforme alla proposta del Bembo.
- Il tema centrale della lirica è l'amarezza dell'autore, che pur essendo avanti negli anni e ormai non lontano dalla morte non riesce a smettere di amare (l'oggetto della sua passione è il giovane Tommaso de' Cavalieri, da lui conosciuto nel 1532 a cinquantasette anni): l'amore (o forse, in modo ambiguo, il ragazzo da lui amato) continua ad avere le chiavi per aprire e chiudere il suo cuore, inoltre rattrista la sua anima, distogliendola dai pensieri religiosi, e rende il suo cuore lieto anche se lui è ormai "attempato" e dovrebbe essere libero da queste sollecitazioni. Ciò rende il momento ormai imminente della morte molto "dubbioso", poiché Michelangelo teme di perdere la salvezza, inoltre il suo cuore continua a bruciare ed è ormai ridotto in "cenere e carbone", nonostante la ragione tenti di spegnere le fiamme. I temi della poesia sono tipicamente petrarcheschi, ovvero l'incapacità dell'autore di contrastare la passione amorosa, la consapevolezza che la vita sta per finire (le membra sono "pellegrine" in quanto accompagnano l'anima nel suo soggiorno terreno) e il timore del giudizio divino, il lamento per la crudeltà della sorte cui è sottoposto.
- Numerose le citazioni del Canzoniere di Petrarca nel testo, a cominciare dall'immagine iniziale del tempo che incalza e che riprende il sonetto 272 (► TESTO: La vita fugge, et non s'arresta una hora), mentre i vv. 3-4 ricordano 36.4 ("colle mie mani avrei già posto in terra / queste mie membra noiose"); i vv. 9-10 sono una ripresa di 126.22 (► TESTO: Chiare, fresche et dolci acque), così come il v. 12 riecheggia Inf., XXVI, 12 ("ché più mi graverà, com' più m'attempo") e anche Canz., 37.16 ("or vien mancando, et troppo in lei m'attempo). L'espressione "tanti affanni" ricorre di frequente in Petrarca, ad es. in 234.6 (► TESTO: O cameretta che già fosti un porto).