Ludovico Ariosto
Astolfo sulla Luna
(Orlando furioso, XXXIV, 70-87)
La follia di Orlando a causa del "tradimento" di Angelica ha sottratto il paladino alla guerra contro i Mori e il suo ritorno alla normalità è necessario affinché dia il suo decisivo contributo alla battaglia, ragion per cui Astolfo viene incaricato da Dio di recarsi sulla Luna (dove si raccolgono tutte le cose che si perdono in Terra) per recuperare il senno del campione cristiano. Dopo aver visitato l'Inferno, Astolfo raggiunge in groppa all'ippogrifo la cima del Paradiso Terrestre e qui è accolto da S. Giovanni Evangelista, che lo scorta poi sulla Luna a bordo del carro d'Elia e gli fa da guida. Il viaggio prodigioso di Astolfo diventa l'occasione per biasimare la follia dell'uomo che getta via il tempo inseguendo vane illusioni, ma dà anche modo all'autore di polemizzare contro il "servir de le misere corti", argomento che ricorre anche nella Satira I e in altre opere di Ariosto.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
70
Tutta la sfera varcano del fuoco, ed indi vanno al regno de la luna. Veggon per la più parte esser quel loco come un acciar che non ha macchia alcuna; e lo trovano uguale, o minor poco di ciò ch'in questo globo si raguna, in questo ultimo globo de la terra, mettendo il mar che la circonda e serra. 71 Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia: che quel paese appresso era sì grande, il quale a un picciol tondo rassimiglia a noi che lo miriam da queste bande; e ch'aguzzar conviengli ambe le ciglia, s'indi la terra e 'l mar ch'intorno spande, discerner vuol; che non avendo luce, l'imagin lor poco alta si conduce. 72 Altri fiumi, altri laghi, altre campagne sono là su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c'han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le più magne non vide il paladin prima né poi: e vi sono ample e solitarie selve, ove le ninfe ognor cacciano belve. 73 Non stette il duca a ricercar il tutto; che là non era asceso a quello effetto. Da l'apostolo santo fu condutto in un vallon fra due montagne istretto, ove mirabilmente era ridutto ciò che si perde o per nostro diffetto, o per colpa di tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, là si raguna. 74 Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora; ma di quel ch'in poter di tor, di darlo non ha Fortuna, intender voglio ancora. Molta fama è là su, che, come tarlo, il tempo al lungo andar qua giù divora: là su infiniti prieghi e voti stanno, che da noi peccatori a Dio si fanno. 75 Le lacrime e i sospiri degli amanti, l'inutil tempo che si perde a giuoco, e l'ozio lungo d'uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco, i vani desideri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai. 76 Passando il paladin per quelle biche, or di questo or di quel chiede alla guida. Vide un monte di tumide vesiche, che dentro parea aver tumulti e grida; e seppe ch'eran le corone antiche e degli Assiri e de la terra lida, e de' Persi e de' Greci, che già furo incliti, ed or n'è quasi il nome oscuro. 77 Ami d'oro e d'argento appresso vede in una massa, ch'erano quei doni che si fan con speranza di mercede ai re, agli avari principi, ai patroni. Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede, ed ode che son tutte adulazioni. Di cicale scoppiate imagine hanno versi ch'in laude dei signor si fanno. 78 Di nodi d'oro e di gemmati ceppi vede c'han forma i mal seguiti amori. V'eran d'aquile artigli; e che fur, seppi, l'autorità ch'ai suoi danno i signori. I mantici ch'intorno han pieni i greppi, sono i fumi dei principi e i favori che danno un tempo ai ganimedi suoi, che se ne van col fior degli anni poi. 79 Ruine di cittadi e di castella stavan con gran tesor quivi sozzopra. Domanda, e sa che son trattati, e quella congiura che sì mal par che si cuopra. Vide serpi con faccia di donzella, di monetieri e di ladroni l'opra: poi vide bocce rotte di più sorti, ch'era il servir de le misere corti. 80 Di versate minestre una gran massa vede, e domanda al suo dottor ch'importe. «L'elemosina è (dice) che si lassa alcun, che fatta sia dopo la morte.» Di vari fiori ad un gran monte passa, ch'ebbe già buono odore, or putia forte. Questo era il dono (se però dir lece) che Costantino al buon Silvestro fece. 81 Vide gran copia di panie con visco, ch'erano, o donne, le bellezze vostre. Lungo sarà, se tutte in verso ordisco le cose che gli fur quivi dimostre; che dopo mille e mille io non finisco, e vi son tutte l'occurrenze nostre: sol la pazzia non v'è poca né assai; che sta qua giù, né se ne parte mai. 82 Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, ch'egli già avea perduti, si converse; che se non era interprete con lui, non discernea le forme lor diverse. Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non ferse; io dico il senno: e n'era quivi un monte, solo assai più che l'altre cose conte. 83 Era come un liquor suttile e molle, atto a esalar, se non si tien ben chiuso; e si vedea raccolto in varie ampolle, qual più, qual men capace, atte a quell'uso. Quella è maggior di tutte, in che del folle signor d'Anglante era il gran senno infuso; e fu da l'altre conosciuta, quando avea scritto di fuor: Senno d'Orlando. 84 E così tutte l'altre avean scritto anco il nome di color di chi fu il senno. Del suo gran parte vide il duca franco; ma molto più maravigliar lo fenno molti ch'egli credea che dramma manco non dovessero averne, e quivi dénno chiara notizia che ne tenean poco; che molta quantità n'era in quel loco. 85 Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de' signori, altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d'altro aprezze. Di sofisti e d'astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n'era molto. 86 Astolfo tolse il suo; che gliel concesse lo scrittor de l'oscura Apocalisse. L'ampolla in ch'era al naso sol si messe, e par che quello al luogo suo ne gisse: e che Turpin da indi in qua confesse ch'Astolfo lungo tempo saggio visse; ma ch'uno error che fece poi, fu quello ch'un'altra volta gli levò il cervello. 87 La più capace e piena ampolla, ov'era il senno che solea far savio il conte, Astolfo tolle; e non è sì leggiera, come stimò, con l'altre essendo a monte. [...] |
[Astolfo e S. Giovanni] superano interamente la sfera del fuoco e quindi si recano nel regno della Luna. Vedono che quel luogo in gran parte è simile a un acciaio privo di qualunque macchia; e lo trovano uguale, o un poco più piccolo rispetto a ciò che si raduna in questo globo, in questo ultimo globo che è la Terra, aggiungendo il mare che la circonda e chiude. Qui Astolfo si meravigliò due volte: per il fatto che quel paese [la Luna] da vicino era tanto grande, mentre ricorda una piccola palla a noi che lo osserviamo dalla Terra; e per il fatto che deve aguzzare la vista se vuole distinguere da lì la Terra e il mare che scorre intorno ad essa; infatti, non emettendo luce, la sua immagine non arriva molto in alto. Lassù vi sono fiumi, laghi e campagne diverse da quelle che ci sono qui; vi sono altre pianure, altre valli, altre montagne, ognuna con le sue città e castelli, con case delle quali il paladino non ne vide prima né dopo altre più grandi: e vi sono selve ampie e solitarie, dove le ninfe cacciano sempre le belve. Il duca [Astolfo] non rimase a osservare tutto, poiché non era salito lassù a quello scopo. Fu condotto dal santo apostolo in un vallone stretto tra due montagne, dove prodigiosamente si raccoglieva ciò che si perde [sulla Terra] o per nostra colpa, o a causa del tempo o della fortuna: ciò che si perde qui, si raduna lassù. Non parlo solo di regni o ricchezze, beni sui quali la ruota instancabile della fortuna lavora, ma voglio anche riferirmi a quello che la fortuna non ha il potere di dare o togliere. Lassù c'è molta fama, che il tempo a lungo andare quaggiù divora come un tarlo: lassù stanno infiniti voti e preghiere, che noi peccatori facciamo a Dio. Le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo che si butta via inutilmente nel gioco d'azzardo, il lungo ozio di uomini ignoranti, disegni vani che non si concretizzano mai, i vani desideri sono così tanti, che ingombrano buona parte di quel luogo: insomma, ciò che hai perso sulla Terra, salendo lassù potrai ritrovarlo. Il paladino, passando per quei mucchi di cose, chiede di questo o quello alla sua guida. Vide un monte di vesciche gonfie, che sembravano contenere tumulti e grida; e seppe che erano gli antichi regni degli Assiri e della terra di Lidia, e dei Persiani e dei Greci, che un tempo furono potenti e il cui nome ora è quasi sconosciuto. Vede poi ami d'oro e d'argento ammassati, che erano quei doni che si fanno ai re, ai principi avari e ai protettori potenti con la speranza di una ricompensa. Vede dei lacci nascosti dentro delle ghirlande; chiede [alla guida] e apprende che sono tutte adulazioni. I versi che si scrivono in lode dei signori hanno l'immagine di cicale scoppiate. Vede che gli amori infelici hanno forma di ceppi d'oro e di gemme. Vi erano artigli d'aquile e seppi che erano l'autorità che i signori danno ai loro uomini. I mantici che riempivano tutt'intorno i declivi sono i fumi e i favori che i principi danno ai loro giovani amanti, e che svaniscono poi col fiore degli anni. Qui stavano sottosopra rovine di città e castelli, insieme a grandi tesori. Domanda e apprende che sono i trattati politici, e quella congiura che sembra che si nasconda così male. Vide serpi col volto di fanciulla, ovvero l'opera di falsari di monete e di ladroni: poi vide ampolle di diverso tipo che erano rotte, che rappresentavano la servitù delle misere corti. Vede una gran massa di minestre versate e domanda alla sua guida cosa voglia dire. S. Giovanni dice: «È l'elemosina che qualcuno lascia perché sia fatta dopo la sua morte.» Passa accanto a una gran montagna di fiori variopinti che una volta avevano un buon profumo, mentre adesso puzzavano fortemente. Questo era il dono (se posso dirlo) che Costantino fece al buon papa Silvestro. Vide una gran quantità di trappole con vischio, che erano, o donne, le vostre bellezze. Sarà lungo se io racconto nei miei versi tutte le cose che gli furono mostrate qui; infatti dopo mille e mille non finirei, e vi sono tutte le cose che ci riguardano: solo la pazzia lì non è poca né molta, poiché essa sta sulla Terra e non se ne allontana mai. Qui Astolfo si concentrò su alcuni suoi fatti e giorni, che aveva perduto; e se non c'era con lui una guida [che glieli indicasse] non ne avrebbe distinto la forma diversa. Poi arrivò a quella cosa che noi pensiamo di avere, al punto che nessuno ne ha mai pregato Dio; dico il senno: e qui ce n'era una montagna, da solo in misura assai maggiore di tutte le altre cose descritte. Esso era come un liquido poco denso e fluido, rapido a esalare se non si tiene ben chiuso; e si vedeva raccolto in varie ampolle adatte a quell'uso, quale più, quale meno capiente. La più grande di tutte è quella in cui era racchiuso il senno del folle signor d'Anglante; e Astolfo la riconobbe poiché di fuori aveva scritto: Senno d'Orlando. E così tutte le altre ampolle avevano scritto il nome di quelli che una volta avevano il senno. Il duca franco [Astolfo] vide gran parte del suo; ma lo fecero meravigliare assai di più molti a cui lui credeva non dovesse mancare neppure di una goccia di senno, e qui invece diedero notizia che ne avevano poco; infatti in quel luogo ce n'era una gran quantità. Alcuni perdono il senno in amore, altri nel ricercare gli onori, altri cercando le ricchezze per mare; altri nelle speranze dei signori, altri dietro alle sciocchezze della magia; altri in gemme, altri nelle opere dei pittori, ed altri in altre cose che apprezzano più di altro. Lì era raccolto il senno di sofisti e astrologi, e anche molto dei poeti. Astolfo prese il suo, cosa che gli fu concessa dall'autore dell'oscura "Apocalisse" [S. Giovanni]. Si limitò a mettere sotto il naso l'ampolla in cui era racchiuso, e sembra che il senno se ne tornò al suo luogo naturale: e pare che Turpino confessi che da lì in avanti Astolfo visse lungo tempo come un uomo saggio; ma un errore che poi commise, fu quello che lo fece impazzire un'altra volta. Astolfo prese l'ampolla più capiente e più piena, dove era il senno che era solito far saggio il conte Orlando; e non era così leggera, come aveva pensato quando era ammonticchiata insieme alle altre. |
Interpretazione complessiva
- Il passo è uno dei più celebri del poema, quello che descrive il viaggio prodigioso del paladino Astolfo sulla Luna che, nell'invenzione di Ariosto, diventa il luogo metaforico dove si raccoglie tutto ciò che si getta via sulla Terra: l'episodio riveste un ruolo centrale nella trama, dal momento che recuperare il senno di Orlando è decisivo per le sorti della guerra contro i Mori e infatti grazie al contributo del campione dei cristiani il nemico sarà definitivamente sconfitto. Il motivo dell'assenza dell'eroe che causa gravi danni all'esercito in guerra deriva ovviamente dall'Iliade, in cui Achille si ritira dalla battaglia e lascia gli Achei privi del suo insostituibile aiuto, e verrà ripreso anche da Tasso nella Gerusalemme liberata, in cui Rinaldo si allontana dal campo dei crociati e sarà poi tenuto lontano dalla guerra dalla maga Armida (in tutti e tre i casi il motivo dell'assenza è riconducibile all'amore, poiché anche Achille litigava con Agamennone per via della schiava Briseide).
- La descrizione del paesaggio lunare diventa l'occasione per l'autore di ironizzare sulla vanità delle occupazioni umane, poiché gli uomini sprecano il loro tempo e la vita inseguendo cose che non raggiungono o che svaniscono presto col passare del tempo: tra queste la fama del mondo, i sospiri degli amanti, ma anche la grandezza degli imperi del passato destinati a cadere, mentre un certo disprezzo viene dimostrato verso le "magiche sciocchezze" così come più avanti verso gli "astrologhi" (la negromanzia era ampiamente praticata negli ambienti anche di corte del Rinascimento; ► SCHEDA: Magia e astrologia nel Cinquecento). Di particolare interesse è anche la descrizione della Terra vista dalla Luna, ovvero di un minuscolo "globo" che sembra assai più piccolo di quanto non appaia a noi e quasi insignificante, dunque la prospettiva di Ariosto è rovesciata e demistificante (l'autore relativizza la scala dei valori umani, che sembrano importanti a noi ma che in realtà, visti da un'altra prospettiva, acquistano una consistenza decisamente inferiore).
- L'autore attraverso questo brano rivolge una dura polemica contro la vita delle corti, specie nelle ott. 77-79 in cui descrive ironicamente i doni che si fanno ai signori sperando di ingraziarseli, rappresentati come vesciche gonfie, mentre i lacci nascosti dentro ghirlande sono le adulazioni e le cicale scoppiate sono i versi della poesia encomiastica (le cicale rappresentano in modo sarcastico i poeti, di cui più avanti si dice che hanno ben poco senno, e c'è evidentemente molta auto-ironia da parte di Ariosto che inserì parti encomiastiche nel poema stesso). L'autorità data dai signori ai loro faccendieri è paragonata ad artigli di aquile, mentre sferzante è l'accusa contro i potenti che si circondano di favoriti e amanti (i "Ganimedi"), che quando non sono più giovani vengono messi da parte. La polemica contro il "servir de le misere corti" ricorre in altre opere dell'autore, specie nella Satira I in cui Ariosto si giustifica per il rifiuto a seguire il cardinale Ippolito in Ungheria e rivendica con coraggio la propria libertà (► TESTO: La vita del cortigiano).
- L'errore di Astolfo cui qui l'autore allude (86, 7-8) è narrato nei Cinque canti e si tratta di un innamoramento del paladino che lo porta di nuovo alla follia. Il senno di Orlando verrà invece recuperato dal conte nel canto XXXIX (ott. 36 ss.), quando Astolfo aiutato da altri paladini (tra cui Brandimarte, Dudone, Oliviero) riesce a sopraffare l'eroe in preda alla furia e a legarlo, facendogli poi odorare l'ampolla con dentro il senno per farglielo recuperare; il passo che descrive Orlando che rinsavisce (XXXIX, 58) verrà in parte ripreso da Tasso nella Liberata (XVI, 31), quando Rinaldo verrà sciolto dall'incantesimo di Armida (► TESTO: L'amore di Rinaldo e Armida).