Letteratura italiana
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Pietro Bembo


La lingua dei morti
(Prose della volgar lingua, I, 17-18)

In questo passo Carlo Bembo, il fratello dell'autore che funge da suo portavoce nel dialogo, risponde all'obiezione di Giuliano de' Medici secondo il quale gli scrittori devono usare una lingua attuale e non quella adoperata dai poeti di due secoli prima, poiché in tal modo si scriverebbe per i morti e non per i vivi: Carlo ribatte col dire che i grandi scrittori del passato (Petrarca e Boccaccio, ovvero i modelli della lingua letteraria) non usarono affatto la lingua del popolo ma un linguaggio pieno di raffinatezze e aggiunge che la lingua letteraria "non dee a quella del popolo accostarsi", poiché lo scopo di uno scrittore non è tanto quello di piacere ai suoi contemporanei bensì di essere ricordato dai posteri.

► PERCORSO: Il Rinascimento







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17.
- Io, messer Carlo, - riprese il Magnifico [1] - lasciando da parte quello che di me avete detto, a che io rispondere non voglio, non vi niego già che egli non possa essere che messer Pietro vostro fratello, e degli altri, che fiorentini non sono, la lingua de’ nostri antichi scrittori con maggiore diligenza non seguano, e piú segnatamente con essa per aventura non scrivano di quello che scriviam noi; e voglio io ripormi tra gli altri, da’ quali voi, per vostra cortesia, tolto m’avete. Ma io non so se egli si debba per questo dire che il vostro scrivere in quella guisa piú sia da lodare che il nostro. [2] Perciò che, come si vede chiaramente in ogni regione e in ogni popolo avenire, il parlare e le favelle non sempre durano in uno medesimo stato, anzi elle si vanno o poco o molto cangiando [3], sí come si cangia il vestire, il guerreggiare, e gli altri costumi e maniere del vivere, come che sia. Perché le scritture, sí come anco le veste e le arme, accostare si debbono e adagiare con l’uso de’ tempi, ne’ quali si scrive, con ciò sia cosa che [4] esse dagli uomini, che vivono, hanno ad esser lette e intese, e non da quelli che son già passati. Era il nostro parlare negli antichi tempi rozzo e grosso e materiale, e molto piú oliva di contado che di città. Per la qual cosa Guido Cavalcanti, Farinata degli Uberti, Guittone, e molt’altri, le parole del loro secolo usando, lasciarono le rime loro piene di materiali e grosse voci altresí; perciò che e Blasmo e Placere e Meo e Deo dissero assai sovente, e Bellore e Fallore e Lucore e Amanza e Saccente e Coralmente, senza risguardo e senza considerazione alcuna avervi sopra, sí come quelli che ancora udite non aveano di piú vaghe. Né stette guari [5], che la lingua lasciò in gran parte la prima dura corteccia del pedal suo. [6] Laonde Dante, e nella Vita Nuova e nel Convito [7] e nelle Canzoni e nella Comedia sua, molto si vede mutato e differente da quelli primieri che io dico, e tra queste sue composizioni piú si vede lontano da loro in quelle alle quali egli pose mano piú attempato, che nelle altre; il che argomento è che secondo il mutamento della lingua si mutava egli, affine di poter piacere alle genti di quella stagione, nella quale esso scrivea. Furono pochi anni appresso il Boccaccio e il Petrarca, i quali, trovando medesimamente il parlare della patria loro altrettanto o piú ancora cangiato da quello che trovò Dante, cangiarono in parte altresí i loro componimenti. Ora vi dico, che sí come al Petrarca e al Boccaccio non sarebbe stato dicevole [8] che eglino si fossero dati allo scrivere nella lingua di quegli antichi lasciando la loro, quantunque essi l’avessero e potuto e saputo fare, cosí né piú né meno pare che a noi si disconvenga, lasciando questa del nostro secolo, il metterci a comporre in quella del loro, ché si potrebbe dire, messer Carlo, che noi scriver volessimo a’ morti piú che a’ vivi. Le bocche acconcie a parlare ha la natura date agli uomini, affine che ciò sia loro de’ loro animi, che vedere compiutamente in altro specchio non si possono, segno e dimostramento; e questo parlare d’una maniera si sente nella Italia, e in Lamagna [9] si vede essere d’un’altra, e cosí da questi diverso negli altri luoghi. Perché, sí come voi e io saremmo da riprendere, se noi a’ nostri figliuoli facessimo il tedesco linguaggio imprendere, piú tosto che il nostro, cosí medesimamente si potrebbe per aventura dire, che biasimo meritasse colui, il quale vuole innanzi con la lingua degli altri secoli scrivere, che con quella del suo -.


18.
Tacevasi, dette queste parole, il Magnifico, e gli altri medesimamente si tacevano, aspettando quello che mio fratello recasse allo ’ncontro [10], il quale incontanente in questa guisa rispose [11]: - Debole e arenoso [12] fondamento avete alle vostre ragioni dato, se io non m’inganno, Giuliano, dicendo, che perché le favelle si mutano, egli si dee sempre a quel parlare, che è in bocca delle genti, quando altri si mette a scrivere, appressare e avicinare i componimenti, con ciò sia cosa che d’esser letto e inteso dagli uomini che vivono si debba cercare e procacciare per ciascuno. Perciò che se questo fosse vero, ne seguirebbe che a coloro che popolarescamente scrivono, maggior loda si convenisse dare che a quegli che le scritture loro dettano e compongono piú figurate e piú gentili; e Virgilio meno sarebbe stato pregiato, che molti dicitori di piazza e di volgo per aventura non furono, con ciò sia cosa che egli assai sovente ne’ suoi poemi usa modi del dire in tutto lontani dall’usanze del popolo, e costoro non vi si discostano giamai. La lingua delle scritture, Giuliano, non dee a quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non perde gravità non perde grandezza; che altramente ella discostare se ne dee e dilungare [13], quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato. Il che aviene per ciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono, come voi dite, ma a quelle ancora, e per aventura molto piú, che sono a vivere dopo loro: con ciò sia cosa che ciascuno la eternità alle sue fatiche piú ama, che un brieve tempo. E perciò che non si può per noi compiutamente sapere quale abbia ad essere l’usanza delle favelle di quegli uomini, che nel secolo nasceranno che appresso il nostro verrà, e molto meno di quegli altri, i quali appresso noi alquanti secoli nasceranno [...]. Credete voi che se il Petrarca avesse le sue canzoni con la favella composte de’ suoi popolani, che elle cosí vaghe, cosí belle fossero come sono, cosí care, cosí gentili? Male credete, se ciò credete. Né il Boccaccio altresí con la bocca del popolo ragionò; quantunque alle prose ella molto meno si disconvenga, che al verso. Che come che egli alcuna volta, massimamente nelle novelle, secondo le proposte materie, persone di volgo a ragionare traponendo [14], s’ingegnasse di farle parlare con le voci con le quali il volgo parlava, nondimeno egli si vede che in tutto ’l corpo delle composizioni sue esso è cosí di belle figure, di vaghi modi e dal popolo non usati, ripieno, che meraviglia non è se egli ancora vive, e lunghissimi secoli viverà. Il somigliante hanno fatto nelle altre lingue quegli scrittori, a’ quali è stato bisogno, per conto delle materie delle quali essi scriveano, le voci del popolo alle volte porre nel campo delle loro scritture; sí come sono stati oratori e compositori di comedie o pure di cose che al popolo dirittamente si ragionano, se essi tuttavia buoni maestri delle loro opere sono stati. [...] Perché, se volete dire, Giuliano, che agli scrittori stia bene ragionare in maniera, che essi dal popolo siano intesi, io il vi potrò concedere non in tutti, ma in alquanti scrittori tuttavia; ma che essi ragionar debbano, come ragiona il popolo, questo in niuno vi si concederà giamai. [...]



[1]
Giuliano de' Medici
.



[2] Che il vostro modo di scrivere in fiorentino antico sia da lodare più del nostro in fiorentino moderno. [3] Trasformando.

[4] Poiché.





[5] E non passò molto tempo.
[6] Della sua parte bassa, iniziale.
[7] Nel Convivio.





[8] Non sarebbe stato conveniente.




[9] In Germania.







[10] Quello che mio fratello dicesse per controbattere.
[11] Il quale rispose subito così.
[12] Fondato sulla sabbia, debole.







[13] Allontanarsi.










[14] Introducendo.


Interpretazione complessiva

  • Questo scambio di battute tra i due principali interlocutori del dialogo affronta il nodo centrale della questione della lingua, ovvero se sia meglio usare in letteratura una lingua attuale e moderna, come sostiene Giuliano de' Medici che, in questo, è della stessa opinione espressa anche da Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua, oppure usare una lingua più antica e resa prestigiosa dall'esempio di illustri modelli, che ovviamente è la tesi di Carlo Bembo fratello e portavoce dell'autore. Le argomentazioni di Giuliano si basano sul fatto che la lingua è soggetta a continui mutamenti nel tempo e non è mai uguale a se stessa (è quanto sosteneva già Dante nel De vulgari eloquentia, ► VAI ALL'AUTORE), quindi è assurdo usare quella di due secoli prima che ormai è molto diversa da quella attuale, poiché sarebbe come volere "scriver... a’ morti piú che a’ vivi" e la lingua della letteratura deve appunto essere lingua di vivi, non di morti. Giuliano corrobora tale tesi citando proprio l'esempio dei grandi scrittori toscani del XIII-XIV sec., i più antichi dei quali (come Guittone d'Arezzo) usarono una lingua ancora rozza e primitiva, mentre il volgare di Dante mostrava una maggiore evoluzione e così quello di Petrarca e Boccaccio, poiché la lingua è in continua evoluzione; conclude dicendo che usare nel Cinquecento il volgare del Trecento equivarrebbe a insegnare ai bambini il tedesco piuttosto che l'italiano, poiché la lingua ha come scopo principale la comunicazione.
  • Carlo Bembo ribatte alle argomentazioni di Giuliano affermando che i grandi autori del passato (e fra questi cita quelli rientranti nel "canone" del classicismo rinascimentale, ovvero Petrarca e Boccaccio tra i moderni e Virgilio e Cicerone fra gli antichi) usarono una lingua molto diversa da quella popolare e proprio per questo furono lodati, poiché "La lingua delle scritture... non dee a quella del popolo accostarsi" e deve anzi essere molto diversa da essa, piena di artifici retorici ed eleganze. È chiaro che nella prospettiva di Pietro Bembo la lingua letteraria non deve avere come unico fine la trasmissione di contenuti ma un grado di elaborazione stilistica che la distingua da quella parlata, per cui è accettabile che uno scrittore si rivolga a un pubblico popolare nelle sue opere ma non che ne imiti il linguaggio, poiché questo renderebbe i suoi scritti meno "gravi" e senz'altro meno prestigiosi. Lo scopo dello scrittore non è quello di essere apprezzato dai contemporanei, ma piuttosto da coloro che vivranno molti anni dopo e a questo fine è del tutto irrilevante la preoccupazione di usare una lingua attuale, che proprio in quanto tale non sarà più compresa entro poche generazioni. Da qui la proposta di usare la lingua di Petrarca e Boccaccio che si appoggia all'esempio prestigioso di due grandi modelli e che è ormai fissata in un "canone" riconosciuto dai principali autori italiani, dal momento che la visione linguistica di Bembo non è "storica" o sociale, bensì mira a creare uno strumento "cristallizzato" in una forma giudicata perfetta e immobile, sottratto ai mutamenti temporali e staccato dall'uso quotidiano che è riservato ad altri ambiti, mentre la letteratura deve avere tutt'altri scopi. Si comprende allora perché Bembo ritenesse che gli scrittori toscani fossero più restii a usare una lingua che essi avvertivano come estranea a quella dei loro tempi, mentre la sua proposta fu più facilmente adottata da autori non toscani che non riscontravano questa difficoltà (non a caso lo stesso Bembo era veneziano e i due autori del Cinquecento che sposarono le sue tesi furono l'emiliano Ariosto e il napoletano Sannazaro).


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