Ludovico Ariosto
L'abbandono di Olimpia
(Orlando furioso, X, 10-34)
Grazie all'aiuto di Orlando la bella Olimpia, figlia del defunto duca d'Olanda, è riuscita a liberare l'amato Bireno dalla prigionia e a sconfiggere il malvagio re Cimosco, che si era impadronito del suo territorio; ora sta tornando col suo sposo per nave in Selandia, portando con sé la giovane figlia di Cimosco che Bireno progetta di dare in sposa a un suo fratello minore. Ma durante il viaggio l'uomo si invaghisce della fanciulla e, dopo aver fatto sosta in un'isola deserta, riparte abbandonando qui la povera Olimpia, che svegliandosi da sola capisce l'inganno e si abbandona a un pianto disperato. L'episodio si rifà a celebri precedenti letterari, tra cui spiccano soprattutto l'abbandono di Arianna da parte di Teseo e anche la tragedia di Didone nel libro IV dell'«Eneide».
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
10
Di sopra io vi dicea ch'una figliuola del re di Frisa quivi hanno trovata, che fia, per quanto n'han mosso parola, da Bireno al fratel per moglie data. Ma, a dire il vero, esso v'avea la gola; che vivanda era troppo delicata: e riputato avria cortesia sciocca, per darla altrui, levarsela di bocca. 11 La damigella non passava ancora quattordici anni, ed era bella e fresca, come rosa che spunti alora alora fuor de la buccia e col sol nuovo cresca. Non pur di lei Bireno s'innamora, ma fuoco mai così non accese esca, né se lo pongan l'invide e nimiche mani talor ne le mature spiche; 12 come egli se n'accese immantinente, come egli n'arse fin ne le medolle, che sopra il padre morto lei dolente vide di pianto il bel viso far molle. E come suol, se l'acqua fredda sente, quella restar che prima al fuoco bolle; così l'ardor ch'accese Olimpia, vinto dal nuovo successore, in lui fu estinto. 13 Non pur sazio di lei, ma fastidito n'è già così, che può vederla a pena; e sì de l'altra acceso ha l'appetito, che ne morrà se troppo in lungo il mena: pur fin che giunga il dì c'ha statuito a dar fine al disio, tanto l'affrena, che par ch'adori Olimpia, non che l'ami, e quel che piace a lei, sol voglia e brami. 14 E se accarezza l'altra (che non puote far che non l'accarezzi più del dritto), non è chi questo in mala parte note; anzi a pietade, anzi a bontà gli è ascritto: che rilevare un che Fortuna ruote talora al fondo, e consolar l'afflitto, mai non fu biasmo, ma gloria sovente; tanto più una fanciulla, una innocente. 15 Oh sommo Dio, come i giudìci umani spesso offuscati son da un nembo oscuro! i modi di Bireno empi e profani, pietosi e santi riputati furo. I marinari, già messo le mani ai remi, e sciolti dal lito sicuro, portavan lieti pei salati stagni verso Selandia il duca e i suoi compagni. 16 Già dietro rimasi erano e perduti tutti di vista i termini d'Olanda (che per non toccar Frisa, più tenuti s'eran vêr Scozia alla sinistra banda), quando da un vento fur sopravenuti, ch'errando in alto mar tre dì li manda. Sursero il terzo, già presso alla sera, dove inculta e deserta un'isola era. 17 Tratti che si fur dentro un picciol seno, Olimpia venne in terra; e con diletto in compagnia de l'infedel Bireno cenò contenta e fuor d'ogni sospetto: indi con lui, là dove in loco ameno teso era un padiglione, entrò nel letto. Tutti gli altri compagni ritornaro, e sopra i legni lor si riposaro. 18 Il travaglio del mare e la paura che tenuta alcun dì l'aveano desta, il ritrovarsi al lito ora sicura, lontana da rumor ne la foresta, e che nessun pensier, nessuna cura, poi che 'l suo amante ha seco, la molesta; fur cagion ch'ebbe Olimpia sì gran sonno, che gli orsi e i ghiri aver maggior nol ponno. 19 Il falso amante che i pensati inganni veggiar facean, come dormir lei sente, pian piano esce del letto, e de' suoi panni fatto un fastel, non si veste altrimente; e lascia il padiglione; e come i vanni nati gli sian, rivola alla sua gente, e li risveglia; e senza udirsi un grido, fa entrar ne l'alto e abandonare il lido. 20 Rimase a dietro il lido e la meschina Olimpia, che dormì senza destarse, fin che l'Aurora la gelata brina da le dorate ruote in terra sparse, e s'udir le Alcione alla marina de l'antico infortunio lamentarse. Né desta né dormendo, ella la mano per Bireno abbracciar stese, ma invano. 21 Nessuno truova: a sé la man ritira: di nuovo tenta, e pur nessuno truova. Di qua l'un braccio, e di là l'altro gira, or l'una or l'altra gamba; e nulla giova. Caccia il sonno il timor: gli occhi apre, e mira: non vede alcuno. Or già non scalda e cova più le vedove piume, ma si getta del letto e fuor del padiglione in fretta: 22 e corre al mar, graffiandosi le gote, presaga e certa ormai di sua fortuna. Si straccia i crini, e il petto si percuote, e va guardando (che splendea la luna) se veder cosa, fuor che 'l lito, puote; né fuor che 'l lito, vede cosa alcuna. Bireno chiama: e al nome di Bireno rispondean gli Antri che pietà n'avieno. 23 Quivi surgea nel lito estremo un sasso, ch'aveano l'onde, col picchiar frequente, cavo e ridutto a guisa d'arco al basso; e stava sopra il mar curvo e pendente. Olimpia in cima vi salì a gran passo (così la facea l'animo possente), e di lontano le gonfiate vele vide fuggir del suo signor crudele: 24 vide lontano, o le parve vedere; che l'aria chiara ancor non era molto. Tutta tremante si lasciò cadere, più bianca e più che nieve fredda in volto; ma poi che di levarsi ebbe potere, al camin de le navi il grido volto, chiamò, quanto potea chiamar più forte, più volte il nome del crudel consorte: 25 e dove non potea la debil voce, supliva il pianto e 'l batter' palma a palma. «Dove fuggi, crudel, così veloce? Non ha il tuo legno la debita salma. Fa che lievi me ancor: poco gli nuoce che porti il corpo, poi che porta l'alma.» E con le braccia e con le vesti segno fa tuttavia, perché ritorni il legno. 26 Ma i venti che portavano le vele per l'alto mar di quel giovene infido, portavano anco i prieghi e le querele de l'infelice Olimpia, e 'l pianto e 'l grido; la qual tre volte, a se stessa crudele, per affogarsi si spiccò dal lido: pur al fin si levò da mirar l'acque, e ritornò dove la notte giacque. 27 E con la faccia in giù stesa sul letto, bagnandolo di pianto, dicea lui: «Iersera desti insieme a dui ricetto; perché insieme al levar non siamo dui? O perfido Bireno, o maladetto giorno ch'al mondo generata fui! Che debbo far? che poss'io far qui sola? chi mi dà aiuto? ohimè, chi mi consola? 28 Uomo non veggio qui, non ci veggio opra donde io possa stimar ch'uomo qui sia; nave non veggio, a cui salendo sopra, speri allo scampo mio ritrovar via. Di disagio morrò; né chi mi cuopra gli occhi sarà, né chi sepolcro dia, se forse in ventre lor non me lo dànno i lupi, ohimè, ch'in queste selve stanno. 29 Io sto in sospetto, e già di veder parmi di questi boschi orsi o leoni uscire, o tigri o fiere tal, che natura armi d'aguzzi denti e d'ugne da ferire. Ma quai fere crudel potriano farmi, fera crudel, peggio di te morire? darmi una morte, so, lor parrà assai; e tu di mille, ohimè, morir mi fai. 30 Ma presupongo ancor ch'or ora arrivi nochier che per pietà di qui mi porti; e così lupi, orsi, leoni schivi, strazi, disagi ed altre orribil morti: mi porterà forse in Olanda, s'ivi per te si guardan le fortezze e i porti? mi porterà alla terra ove son nata, se tu con fraude già me l'hai levata? 31 Tu m'hai lo stato mio, sotto pretesto di parentado e d'amicizia, tolto. Ben fosti a porvi le tue genti presto, per avere il dominio a te rivolto. Tornerò in Fiandra? ove ho venduto il resto di che io vivea, ben che non fossi molto, per sovenirti e di prigione trarte. Mischina! dove andrò? non so in qual parte. 32 Debbo forse ire in Frisa, ove io potei, e per te non vi volsi esser regina? il che del padre e dei fratelli miei e d'ogn'altro mio ben fu la ruina. Quel c'ho fatto per te, non ti vorrei, ingrato, improverar, né disciplina dartene; che non men di me lo sai: or ecco il guiderdon che me ne dai. 33 Deh, pur che da color che vanno in corso io non sia presa, e poi venduta schiava! Prima che questo, il lupo, il leon, l'orso venga, e la tigre e ogn'altra fera brava, di cui l'ugna mi stracci, e franga il morso; e morta mi strascini alla sua cava.» Così dicendo, le mani si caccia ne' capei d'oro, e a chiocca a chiocca straccia. 34 Corre di nuovo in su l'estrema sabbia, e ruota il capo e sparge all'aria il crine; e sembra forsennata, e ch'adosso abbia non un demonio sol, ma le decine; o, qual Ecuba, sia conversa in rabbia, vistosi morto Polidoro al fine. Or si ferma s'un sasso, e guarda il mare; né men d'un vero sasso, un sasso pare. |
Nel canto precedente vi dicevo che qui [a Dordrecht] hanno trovato una figlia del re di Frisa [Cimosco], che sarà data in sposa al fratello di Bireno, almeno a quanto è stato detto. Ma, per dire la verità, Bireno se ne è invaghito, poiché era una vivanda troppo delicata [era troppo bella]: e avrebbe giudicato una sciocca cortesia levarsela di bocca per darla a un altro. La fanciulla non aveva ancora quattordici anni ed era bella e fresca, come una rosa appena sbocciata dal suo involucro e che cresce col nuovo sole. Bireno non solo si innamora di lei, ma il fuoco non accese mai in tal modo un'esca [materia infiammabile], né le mani invidiose e nemiche lo pongono così talvolta nelle spighe mature; come lui si infiammò subito, come lui ne bruciò fin nel midollo, non appena la vide addolorata sul padre morto [Cimosco] e bagnare il bel viso di lacrime. E come accade quando l'acqua che bolle si smorza, se tocca l'acqua fredda, così l'ardore che accese Olimpia, vinto da quello nuovo, fu del tutto spento in lui. Non solo Bireno è sazio di lei, ma talmente infastidito che può a malapena vederla; ed è invece così preso dall'altra, che morirà se la mena troppo per le lunghe: pure, per arrivare al giorno in cui ha stabilito di soddisfare il suo desiderio, lo frena in modo tale da sembrare che adori Olimpia, che l'ami, che voglia e brami solo quello che piace a lei. E quando accarezza l'altra (non può evitare di accarezzarla più del lecito) nessuno nota in questo cattive intenzioni; anzi, ciò è attribuito alla sua pietà, alla sua bontà: infatti sollevare qualcuno che la fortuna ha abbattuto e consolare gli afflitti non è mai stato biasimato, ma spesso lodato; tanto più una innocente fanciulla. O sommo Dio, quanto spesso i giudizi degli uomini sono offuscati da una nube oscura! I modi di Bireno, empi e interessati, furono giudicati pietosi e santi. I marinai, messe le mani ai remi e salpati dal lido sicuro, portavano lieti il duca e i suoi compagni sul mare verso la Selandia. Ormai erano rimasti indietro e non si vedevano più le coste olandesi (infatti, per non toccare la Frisa, si erano tenuti più a sinistra verso la Scozia), quando furono colpiti da un vento che li mandò alla deriva per tre giorni in alto mare. Il terzo, quasi sul far della sera, giunsero presso un'isola deserta e incolta. Entrati in una piccola rada, Olimpia sbarcò; e felice, in compagnia dell'infedele Bireno, cenò contenta senza nutrire alcun sospetto: quindi andò a letto con lui, là dove c'era una tenda in un luogo ameno. Tutti gli altri compagni tornarono a riposarsi sulla nave. Il travaglio del viaggio e la paura che l'avevano tenuta sveglia alcuni giorni, il ritrovarsi ora sicura a terra, lontana dai rumori nella foresta, e il fatto che non è molestata da alcun pensiero o preoccupazione, visto che ha accanto il suo amato; tutto ciò fece sì che Olimpia cadde in un sonno profondo, tale che forse quello di orsi e ghiri non è maggiore. Il falso amante, che era tenuto sveglio dai meditati inganni, non appena la sente dormire esce pian piano dal letto, e fatto un fagotto dei suoi panni non si veste in altro modo; lascia la tenda e, come se gli fossero spuntate le ali, vola di nuovo alla sua gente e la sveglia; e ordina di entrare in alto mare e abbandonare il lido, senza che si senta un rumore. Il lido restò indietro con la povera Olimpia, che dormì senza svegliasi finché l'Aurora sparse in terra la brina gelata dal cielo dorato, e si sentirono sul mare i versi dei gabbiani che si lamentano dell'antica sciagura [la punizione inferta da Zeus ad Alcyone]. Tra il sonno e la veglia Olimpia stese la mano per abbracciare Bireno, ma invano. Non trova nessuno e ritrae a sé la mano: tenta di nuovo, senza trovare nessuno. Gira un braccio di qua e l'altro di là, ora l'una ora l'altra gamba, senza esito. Il timore caccia via il sonno: apre gli occhi e guarda, senza vedere nessuno. Non sta più lì a scaldare e covare quel letto privo del suo uomo, ma se ne getta fuori ed esce in fretta dalla tenda: e corre al mare, graffiandosi le guance, intuendo ed essendo ormai certa del suo destino. Si strappa i capelli e si batte il petto, e va guardando alla luce lunare se può vedere qualcosa oltre al lido, ma non vede nient'altro che spiaggia. Chiama Bireno: e al nome di Bireno gli antri rispondevano con l'eco, avendone pietà. Qui sorgeva sul lido più esterno una roccia, che le onde col frequente picchiare avevano scavato e ridotto come un arco che tende al basso; e stava sopra il mare ricurvo, in pendenza. Olimpia salì in cima ad esso a grandi passi (l'animo le dava quella forza), e vide in lontananza le vele gonfiate dal vento della nave del suo crudele uomo, che fuggiva via: vide in lontananza, o così le parve, poiché l'aria non era ancora molto chiara. Si lasciò cadere tutta tremante, più bianca e fredda in volto della neve; ma quando trovò la forza di alzarsi, rivolto il grido alle navi in viaggio, chiamò più volte e il più forte possibile il nome del suo crudele consorte: e quando la debole voce veniva meno, supplivano il pianto e lo sbattere delle palme delle mani. «Dove fuggi così veloce, o crudele? La tua nave non ha il carico che dovrebbe. Fa' in modo che prenda anche me, non lo danneggia portare il mio corpo visto che porta la mia anima». E fa continuamente cenno con le braccia e con le vesti affinché la nave torni indietro. Ma i venti che gonfiavano le vele di quel giovane infido in alto mare portavano via anche le preghiere e i lamenti dell'infelice Olimpia, e i suoi pianti e le sue grida; ed ella tre volte tentò di gettarsi dal lido per affogarsi, crudele verso se stessa: pure, alla fine si distolse dal guardare le acque e tornò nella tenda dove aveva dormito. E con la faccia stesa in giù sul letto, bagnandolo di pianto, diceva ad esso: «Ieri sera hai accolto due persone; perché non siamo due al risveglio? O perfido Bireno, maledetto il giorno in cui sono stata generata! Cosa devo fare? cosa posso fare, qui sola? chi può aiutarmi? ahimè, chi mi consola? Non vedo qui anima viva, non vedo opere che mi facciano pensare che l'isola sia abitata; non vedo navi con cui possa partire e cercare salvezza. Morirò di stenti; e non ci sarà chi mi copra gli occhi o mi dia sepoltura, a meno che non me la diano nel loro ventre i lupi, ahimè, che stanno in queste foreste. Io ho paura e mi sembra già di vedere uscire orsi o leoni da questi boschi, o tigri o belve cui la natura ha dato denti aguzzi e unghie per ferire. Ma quali belve crudeli potrebbero farmi morire peggio di quanto fai tu, Bireno, belva crudele? darmi una morte sarà abbastanza per loro, lo so; invece tu mi fai morire di mille morti. Ma supponiamo che ora arrivi qui un navigatore che mi porti via per pietà, così che io possa evitare lupi, orsi, leoni, strazi, disagi e altre morti orribili: mi porterà forse in Olanda, se qui le fortezze e i porti sono in mano tua? Mi porterà forse alla mia terra natia, se tu me l'hai già tolta con l'inganno? Tu mi hai sottratto lo stato, sotto pretesto di parentela e amicizia. Fosti veloce a mettervi le tue genti, per avere in pugno il dominio. Tornerò in Fiandra? Lì ho venduto tutto quello che mi dava da vivere, anche se non era molto, per aiutarti e farti uscire di prigione. Povera me! dove andrò, da che parte? Devo forse andare in Frisa, dove avrei potuto essere regina e non volli per amor tuo? Questo è stata la rovina di mio padre, dei miei fratelli e d'ogni altro mio bene. Quello che ho fatto per te, ingrato, non ti vorrei rinfacciare né spiegare, perché lo sai bene quanto me: ecco la ricompensa che me ne dai. Ahimè, potrei anche venire catturata dai corsari e poi essere venduta come schiava! Piuttosto venga il lupo, il leone, l'orso, la tigre e ogni altra belva feroce, mi strazino con le unghie e mi sbranino; e mi trascinino morta alla loro tana». Dicendo così, si caccia le mani nei capelli biondi e se li strappa ciocca a ciocca. Corre di nuovo sulla spiaggia e ruota la testa e sparge i capelli al vento; sembra fuori di sé e che abbia addosso non solo un demonio, ma decine; oppure sembra Ecuba, preda del furore dopo aver visto la morte di Polidoro. Ora si ferma su un sasso e guarda il mare; e non sembra molto diversa da un vero sasso. |
Interpretazione complessiva
- Il passo è la continuazione della narrazione del canto IX, in cui Orlando ha aiutato Olimpia a sconfiggere il malvagio Cimosco che aveva invaso l'Olanda e tenuto prigioniero Bireno, l'amato della donna, anche grazie al possesso di un micidiale archibugio poi distrutto dal paladino (► TESTO: Orlando e l'archibugio): Cimosco era stato ucciso e i due novelli sposi si erano imbarcati per tornare in Selandia, portando con sé una giovane figlia del defunto re di Frisa con l'intenzione di darla in sposa a un fratello di Bireno. Durante il viaggio l'uomo si invaghisce di lei e decide di abbandonare su un'isola deserta la povera Olimpia, elaborando un inganno che è l'evidente ripresa del mito di Arianna abbandonata sull'isola di Nasso da Teseo, anche lui invaghitosi della sorella Fedra. Il lamento cui si lascia andare Olimpia quando vede la nave di Bireno che si allontana sul mare ricalca quello della relicta tipico della letteratura classica, quale possiamo vedere ad es. nel carme 64 di Catullo che mostra proprio Arianna sul lido di Nasso: molto stretta l'imitazione dei vv. 152-3 del testo latino, in cui Arianna temeva di essere sbranata dalle belve o dagli uccelli e di morire insepolta (dilaceranda feris dabor alitibusque / praeda, neque iniacta tumulabor mortua terra), ed anche dei vv. 177 ss. in cui la fanciulla si chiedeva a chi potesse rivolgersi, avendo lasciato il padre Minosse dopo averlo tradito. Ariosto si rifà ovviamente anche all'episodio dell'Eneide in cui Didone veniva abbandonata da Enea e, vedendo la flotta troiana allontanarsi sul mare, si abbandonava a un lamento del tutto simile: cfr. soprattutto Aen., IV.584 ss., quando la regina si sveglia all'aurora (dettaglio ripreso da Ariosto) e, vistasi sola, si batte il petto e si strappa i capelli, invocando poi la vendetta divina sull'uomo che l'ha tradita. In precedenza Didone aveva rinfacciato a Enea l'aiuto che gli aveva dato, poiché lo aveva raccolto dopo un naufragio e reso partecipe del suo regno proprio come Olimpia ha fatto con Bireno, inoltre anche la regina di Cartagine vedeva preclusa ogni altra via di salvezza e temeva che re Iarba, che lei aveva rifiutato come sposo, si vendicasse di lei. Anche il particolare di Olimpia che preme il volto sul letto riprende Aen., IV.650, quando Didone si accingeva a uccidersi con la spada donata da Enea (incubuitque toro dixitque novissima verba).
- L'episodio di Olimpia avrà un ulteriore svolgimento, poiché nel canto XI apprenderemo che la giovane è stata in effetti rapita dai pirati che l'hanno venduta agli abitanti dell'isola di Ebuda, che poi l'hanno incatenata a uno scoglio per esporla al mostro: giungerà in suo soccorso ancora una volta Orlando, che ucciderà l'orca e poi scorterà Olimpia sino al re d'Irlanda, Oberto, che innamoratosi di lei la sposerà e invaderà la Selandia mettendo a morte il malvagio Bireno (► TESTO: L'orca di Ebuda). La conclusione della storia è una giusta celebrazione del personaggio di Olimpia, donna forte e coraggiosa che per amore ha affrontato prove indicibili ed è stata crudelmente respinta dal suo uomo, ma viene poi "risarcita" con un matrimonio che le restituisce il rango regale che le spettava per nascita (la sua figura si può accostare a quelle di Bradamante e Isabella, anch'esse pronte all'estremo sacrificio in nome dell'uomo amato, e dimostra la grande cura posta dall'autore nel tratteggiare i personaggi femminili del poema; ► SCHEDA: La figura femminile nel '500).