Letteratura italiana
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Angelo Poliziano


Iulio e Simonetta
(Stanze, I, 37-55)

In questo passo del primo libro delle "Stanze" avviene il primo incontro tra Iulio, che adombra il dedicatario dell'opera Giuliano de' Medici, e una bellissima ninfa la cui figura si ispira alla nobildonna genovese Simonetta Cattaneo, amata dal giovane: Cupido, irritato per la noncuranza che Iulio mostra verso l'amore, lo attira in un tranello e durante una battuta di caccia lo induce a seguire una splendida cerva, che giunta in una radura lascia il posto ad una ninfa e lo fa innamorare di sé grazie alla freccia scagliata dal dio. L'incontro propone vari motivi tratti dalla letteratura dei secoli precedenti, pure inseriti in un contesto nuovo (la visione laica e terrena della cultura umanistica) in cui la rivisitazione di immagini classiche prelude a un sereno abbandono all'amore e ai sensi, che sarebbe stato impensabile solo un secolo prima.

► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Angelo Poliziano


37
Era già drieto alla sua desianza
gran tratta da’ compagni allontanato,
né pur d’un passo ancor la preda avanza,
e già tutto el destrier sente affannato;
ma pur seguendo sua vana speranza,
pervenne in un fiorito e verde prato:
ivi sotto un vel candido li apparve
lieta una ninfa, e via la fera sparve.

38
La fera sparve via dalle suo ciglia,
ma ’l gioven della fera ormai non cura;
anzi ristringe al corridor la briglia,
e lo raffrena sovra alla verdura.
Ivi tutto ripien di maraviglia
pur della ninfa mira la figura:
parli che dal bel viso e da’ begli occhi
una nuova dolcezza al cor gli fiocchi.

39
Qual tigre, a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator li suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
poi resta d’uno specchio all’ombra vana,
all’ombra ch’e suoi nati par somigli;
e mentre di tal vista s’innamora
la sciocca, el predator la via divora.

40
Tosto Cupido entro a’ begli occhi ascoso,
al nervo adatta del suo stral la cocca,
poi tira quel col braccio poderoso,
tal che raggiugne e l’una e l’altra cocca;
la man sinistra con l’oro focoso,
la destra poppa colla corda tocca:
né pria per l’aer ronzando esce ’l quadrello,
che Iulio drento al cor sentito ha quello.

41
Ahi qual divenne! ah come al giovinetto
corse il gran foco in tutte le midolle!
che tremito gli scosse il cor nel petto!
d’un ghiacciato sudor tutto era molle;
e fatto ghiotto del suo dolce aspetto,
giammai li occhi da li occhi levar puolle;
ma tutto preso dal vago splendore,
non s’accorge el meschin che quivi è Amore.

42
Non s’accorge ch’Amor lì drento è armato
per sol turbar la suo lunga quiete;
non s’accorge a che nodo è già legato,
non conosce suo piaghe ancor segrete;
di piacer, di disir tutto è invescato,
e così il cacciator preso è alla rete.
Le braccia fra sé loda e ’l viso e ’l crino,
e ’n lei discerne un non so che divino.

43
Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d’erba;
lo inanellato crin dall’aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell’atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.

44
Folgoron gli occhi d’un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l’aier d’intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.

45
Con lei sen va Onestate umile e piana
che d’ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.

46
Sembra Talia se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l’asta;
se l’arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s’arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l’è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.

47
Ell’era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de’ quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.

48
Già s’inviava, per quindi partire,
la ninfa sovra l’erba, lenta lenta,
lasciando il giovinetto in gran martire,
che fuor di lei null’altro omai talenta.
Ma non possendo el miser ciò soffrire,
con qualche priego d’arrestarla tenta;
per che, tutto tremando e tutto ardendo,
così umilmente incominciò dicendo:

49
«O qual che tu ti sia, vergin sovrana,
o ninfa o dea, ma dea m’assembri certo;
se dea, forse se’ tu la mia Diana;
se pur mortal, chi tu sia fammi certo,
ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
né so già io qual sia tanto mio merto,
qual dal cel grazia, qual sì amica stella,
ch’io degno sia veder cosa sì bella».

50
Volta la ninfa al suon delle parole,
lampeggiò d’un sì dolce e vago riso,
che i monti avre’ fatto ir, restare il sole:
ché ben parve s’aprissi un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole,
tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso;
soave, saggia e di dolceza piena,
da innamorar non ch’altri una Sirena:

51
«Io non son qual tua mente invano auguria,
non d’altar degna, non di pura vittima;
ma là sovra Arno innella vostra Etruria
sto soggiogata alla teda legittima;
mia natal patria è nella aspra Liguria,
sovra una costa alla riva marittima,
ove fuor de’ gran massi indarno gemere
si sente il fer Nettunno e irato fremere.

52
Sovente in questo loco mi diporto,
qui vegno a soggiornar tutta soletta;
questo è de’ mia pensieri un dolce porto,
qui l’erba e’ fior, qui il fresco aier m’alletta;
quinci il tornare a mia magione è accorto,
qui lieta mi dimoro Simonetta,
all’ombre, a qualche chiara e fresca linfa,
e spesso in compagnia d’alcuna ninfa.

53
Io soglio pur nelli ociosi tempi,
quando nostra fatica s’interrompe,
venire a’ sacri altar ne’ vostri tempî
fra l’altre donne con l’usate pompe;
ma perch’io in tutto el gran desir t’adempi
e ’l dubio tolga che tuo mente rompe,
meraviglia di mie bellezze tenere
non prender già, ch’io nacqui in grembo a Venere.

54
Or poi che ’l sol sue rote in basso cala,
e da questi arbor cade maggior l’ombra,
già cede al grillo la stanca cicala,
già ’l rozo zappator del campo sgombra,
e già dell’alte ville il fumo essala,
la villanella all’uom suo el desco ingombra;
omai riprenderò mia via più accorta,
e tu lieto ritorna alla tua scorta».

55
Poi con occhi più lieti e più ridenti,
tal che ’l ciel tutto asserenò d’intorno,
mosse sovra l’erbetta e passi lenti
con atto d’amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l’erba verde sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.


[Iulio] si era allontanato di molto dai suoi compagni [di caccia], inseguendo la preda desiderata [la cerva], ma non riesce a guadagnare terreno e sente il suo cavallo senza fiato;
eppure, seguendo la sua vana speranza, giunse in un prato verde e pieno di fiori: lì, sotto un velo candido, apparve lieta una ninfa e scomparve la bestia.




La bestia scomparve dal suo sguardo, ma ormai il giovane non si cura più di essa; anzi, allenta la briglia al suo cavallo e lo fa fermare sopra l'erba. Lì, tutto pieno di stupore, osserva solo la figura della ninfa: gli sembra che dal bel viso e dai begli occhi gli scenda in cuore una nuova dolcezza.






[Iulio fa] Come la tigre a cui il cacciatore ha sottratto i figli dalla tana scavata nella roccia, e lo insegue rabbiosa nella selva dell'Ircania, credendo di insanguinare presto i suoi artigli; poi resta istupidita dal riflesso di uno specchio, che sembra somigliare ai suoi figli, e mentre la sciocca resta ammaliata da quella visione
il cacciatore si allontana a grandi passi.




Cupido, nascosto dentro i begli occhi [della ninfa], adatta la cocca della sua freccia alla corda dell'arco, poi lo tira col braccio muscoloso, a tal punto che le due estremità dell'arco stanno per toccarsi; tocca la mano sinistra con la punta dorata della freccia, la parte destra del petto con la corda: e la freccia viene scagliata ronzando nell'aria, quasi nello stesso istante in cui Iulio la sente conficcarsi nel suo cuore.




Ahimè, come diventò! Ah, come corse il grande fuoco in tutte le viscere del giovinetto! Che tremore gli scosse il cuore in petto! Era tutto bagnato di
un sudore freddo; e, invaghitosi del dolce aspetto della ninfa, non può più toglierle gli occhi di dosso; tutto preso dal suo bellissimo splendore, il poverino non si accorge che qui c'è il dio Amore.




Non s'accorge che Amore è lì, armato, solo per turbare la sua durevole pace; non s'accorge a quale nodo è già legato, non conosce ancora le sue segrete pene amorose; è tutto invischiato nel piacere, nel desiderio, e così il cacciatore è preso nella rete. Fra sé e sé loda le braccia e il viso e i capelli [della ninfa], e in lei distingue qualche cosa di divino.





Lei è candida e candida è la sua veste, anche se è dipinta di rose, di fiori e d'erba; i capelli ricci della testa bionda scendono sulla sua fronte, umile eppure superba. Intorno a lei tutto il bosco sorride
e, per quanto possibile, allevia le sue pene; è regalmente mansueta in ogni suo atto e anche col ciglio sembra acquietare le tempeste.




Gli occhi scintillano di una dolce serenità, dove Cupido tiene nascoste le sue fiaccole; l'aria intorno si fa tutta amena, ovunque lei ruoti gli occhi pieni d'amore. Ha il volto pieno di celeste allegria, un dolce dipinto di ligustri e rose; ogni soffio di vento tace al suo parlare divino e ogni uccellino canta con il proprio verso.





Con lei va l'Onestà, umile e affabile, che gira la chiave per aprire ogni cuore; con lei va la Gentilezza umana a vedersi, e apprende da lei la dolce andatura soave. Un'anima non nobile non può guardarla in viso, se prima non prova rimorso dei suoi peccati; quanto lei parla o ride dolcemente, altrettanti cuori
Amore cattura, ferisce o uccide.




Sembra la musa Talìa se prende in mano la cetra, sembra Minerva se impugna la lancia: se ha in mano l'arco
e al fianco la faretra, potresti giurare che sia la casta Diana. La triste ira si allontana dal suo volto, e la Superbia rimane poco tempo di fronte a lei; ogni dolce virtù la accompagna, la Bellezza e la Leggiadria la mostrano a dito.




La ninfa era seduta sopra l'erba, allegra, e aveva intrecciato una piccola ghirlanda con tutti i fiori creati dalla natura, dei quali la sua veste era dipinta. E non appena rivolse lo sguardo al giovane, alzò la testa un po' impaurita; poi, preso il lembo della veste con la mano bianca, si alzò in piedi col grembo pieno di fiori.





Già la ninfa si apprestava ad allontanarsi da qui, lenta sopra l'erba, lasciando il giovinetto nelle sue pene amorose, che ormai non desidera nient'altro all'infuori di lei. Ma poiché il misero non poteva sopportarlo, tenta di trattenerla con preghiere; e infatti, tremando e ardendo tutto, iniziò a dire così umilmente:




«Chiunque tu sia, bellissima vergine, o ninfa o dea, ma mi sembri certamente una dea; se sei una dea, tu sei la mia Diana; se invece sei mortale, dimmi chi sei, poiché il tuo aspetto è superiore a quello degli esseri umani; e non so quale sia il mio merito, quale grazia dal cielo o quale stella favorevole, per cui io sia degno di vedere una creatura così bella».





La ninfa, rivolta al suono delle sue parole, fece brillare un sorriso così dolce e bello che avrebbe fatto muovere le montagne e arrestare il sole: infatti sembrò che si aprisse un paradiso. Poi emise una voce tra i denti bianchi come perle e le labbra rosse come viole, in modo tale che avrebbe
spezzato un marmo; soave, saggia e piena di dolcezza, tale da far innamorare persino una sirena:



[disse:] «Io non sono colei che la tua mente pensa vanamente, non sono una dea degna di un altare e di una vittima pura; invece presso l'Arno, nella vostra Etruria, sono sottoposta alla legittima fiaccola nuziale [sono sposata]; il mio luogo natio è nell'aspra Liguria, su una collina sulla costa, dove fuori degli scogli si sente invano gemere e fremere adirato il fiero Nettuno [il mare in tempesta].




Spesso mi diletto in questo luogo, qui vengo a soggiornare tutta sola; questo è un dolce luogo dove riposano i miei pensieri, qui l'erba e i fiori, l'aria fresca mi allettano; la via del ritorno da qui alla mia casa
è breve e io, Simonetta, mi trattengo qui lieta all'ombra, vicino a qualche chiara e fresca acqua, spesso in compagnia di qualche ninfa.




Io sono solita nei giorni festivi, quando le nostre fatiche hanno tregua, venire ai sacri altari nei vostri templi in mezzo alle altre donne, con gli ornamenti di rito; ma per esaudire ogni tuo desiderio e toglierti il dubbio che tormenta la tua mente, non meravigliarti della mia tenera bellezza, poiché io nacqui in grembo alla dea Venere [in riva al mare, in Liguria].





Ora, poiché il sole sta tramontando e da questi alberi scende un'ombra più lunga, e ormai la stanca cicala lascia il posto al grillo, e il rozzo contadino se ne va dai campi, e il fumo sale dai comignoli delle alte case, e la contadina apparecchia la tavola al suo uomo; ormai riprenderò la via più breve, e tu tornatene lieto con la tua compagnia di cacciatori
».




Poi, con occhi più lieti e più sorridenti, tali che rasserenò tutto il cielo intorno, mosse sull'erbetta i passi lenti, con un atto adorno di grazia amorosa. I boschi allora emisero dolci lamenti e gli uccellini iniziarono a piangere; ma l'erba sotto i suoi dolci passi divenne bianca, gialla, rossa e azzurra.



Interpretazione complessiva

  • Il brano descrive il primo incontro tra Iulio e la bellissima Simonetta, in cui l'autore ripropone motivi derivanti dalla tradizione della poesia cortese e stilnovista (il locus amoenus, la descrizione della donna con attribuzioni tipiche della "donna-angelo"...), sia pure rielaborati e inseriti in un contesto classico che riflette la nuova mentalità umanistica: tutto è trasfigurato attraverso una favola mitologica, in cui Iulio-Giuliano è presentato come un giovane che si dedica alla caccia e disdegna l'amore, suscitando l'ira di Cupido che lo attira in un tranello e, durante una battuta di caccia, gli fa incontrare la ninfa di cui si innamora (il riferimento è, almeno in parte, al libro IV dell'Eneide, in cui Venere e Giunone fanno nascere l'amore tra Didone ed Enea in circostanze analoghe); Iulio si trasforma suo malgrado da cacciatore a preda, poiché non colpisce la cerva con la propria freccia ma è colpito da quella di Cupido, innamorandosi perdutamente della ninfa come Apollo di Dafne (altro collegamento evidente al mito classico); si rivolge alla fanciulla con un discorso elogiativo che ricorda le parole di Odisseo a Nausicaa nel libro VI dell'Odissea; e, soprattutto, l'atmosfera prelude a un abbandono gioioso ai sensi e all'amore, senza ombra di remore religiose e senza la spiritualizzazione del sentimento amoroso che costituiva parte essenziale dello Stilnovo, cui pure Poliziano si rifà formalmente. L'intera opera si configura inoltre come poema encomiastico e celebrativo della famiglia Medici, esprimendo quei valori della poesia di corte che si sviluppa pienamente nel Quattrocento e che come tale era quasi del tutto assente in età comunale.
  • Simonetta Cattaneo (1453-1476) fu una nobildonna genovese andata in sposa al fiorentino Marco Vespucci e che visse a Firenze sino alla morte precoce, celebrata da molti artisti e poeti come la donna più bella della città e amata da vari uomini, tra cui lo stesso Giuliano de' Medici e il fratello Lorenzo: qui viene presentata attraverso il travestimento mitologico con una splendida ninfa, che compare sulla scena dopo che la bianca cerva inseguita da Iulio è svanita nel nulla e viene descritta con motivi sia classici che della tradizione cortese (indossa una veste bianca a fiori, ha lunghi capelli biondi e ricci, ha atteggiamento umile e regale insieme, è accompagnata da Onestà e Gentilezza, ovvero due termini tipici dello Stilnovo). Viene inoltre paragonata alle principali divinità femminili del mito classico (la musa Talìa, Minerva, Diana) ed è presentata nell'atto di cogliere fiori per intrecciare una ghirlanda, gesto che da un lato ricorda la Matelda dantesca (Purg., XXVIII) e dall'altro raffigurazioni simili della pittura quattrocentesca. Quando risponde a Iulio si presenta col suo vero nome e ricorda le sue origini liguri, che la accostano tra l'altro alla bellezza di Venere, mentre dichiara di vivere in Toscana (Etruria) e di essere sposata, con un riferimento diretto alla sua biografia. Simonetta venne celebrata da molti contemporanei e S. Botticelli realizzò di lei il ritratto più famoso, cui forse si è ispirato lo stesso Poliziano nel comporre questa pagina, mentre anche la Venere e la Primavera dei famosi dipinti hanno (secondo molti studiosi) il volto della Cattaneo, il che spiegherebbe sia l'accostamento alla dea "nata dalle acque" che compare in questi versi, sia la descrizione della veste a fiori che richiama proprio quella della Primavera.
  • L'ottava 54, in cui Simonetta preannuncia il calare della sera e si dice pronta ad andarsene, contiene un chiaro riferimento alla I Egloga di Virgilio, specie al v. 2 ("da questi arbor cade maggior l’ombra", che riecheggia Ecl., I, 83: maioresque cadunt altis de montibus umbrae) e al v. 5 ("già dell’alte ville il fumo essala", che riprende il v. 82 dell'Egloga: iam summa procul villarum culmina fumant), mentre il v. 3 parafrasa Inf., XXVI, 28: "come la mosca cede alla zanzara", a indicare anche in questo caso il sopraggiungere della sera. Questo passo rivela il tipico procedimento della poesia di Poliziano, che traeva ispirazione da varie fonti (classiche e moderne) per rielaborarle in modo personale secondo il principio della varia eruditio, da lui difeso contro l'umanista Paolo Cortese che invece sosteneva la necessità di rifarsi a un solo modello (soprattutto Cicerone nella prosa).


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