Dante Alighieri
«Tre donne intorno al cor mi son venute»
(Rime, 47)
Scritta probabilmente nei primi anni dell'esilio (forse nel 1302-1304), questa canzone è un'alta e dignitosa proclamazione da parte dell'autore dell'ingiustizia subita e della propria dirittura morale, attraverso la metafora delle "tre donne" che fanno visita al suo cuore e che devono quasi certamente essere interpretate come immagine della Giustizia universale, della Giustizia umana e della Legge naturale. Non è escluso che il testo fosse destinato ad essere commentato nel XIV trattato del "Convivio", il cui tema doveva essere proprio la giustizia.
► PERCORSO: La lirica amorosa
► AUTORE: Dante Alighieri
► PERCORSO: La lirica amorosa
► AUTORE: Dante Alighieri
5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 |
Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore: ché dentro siede Amore, lo quale è in segnoria de la mia vita. Tanto son belle e di tanta vertute che ’l possente segnore, dico quel ch’è nel core, a pena del parlar di lor s’aita. Ciascuna par dolente e sbigottita, come persona discacciata e stanca, cui tutta gente manca e cui vertute né beltà non vale. Tempo fu già nel quale, secondo il lor parlar, furon dilette; or sono a tutti in ira ed in non cale. Queste così solette venute son come a casa d’amico: ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico. Dolesi l’una con parole molto, e ’n su la man si posa come succisa rosa: il nudo braccio, di dolor colonna, sente l’oraggio che cade dal volto; l’altra man tiene ascosa la faccia lagrimosa: discinta e scalza, e sol di sé par donna. Come Amor prima per la rotta gonna la vide in parte che il tacere è bello, egli, pietoso e fello, di lei e del dolor fece dimanda. «Oh di pochi vivanda», rispose in voce con sospiri mista, «nostra natura qui a te ci manda: io, che son la più trista, son suora a la tua madre, e son Drittura; povera, vedi, a panni ed a cintura». Poi che fatta si fu palese e conta, doglia e vergogna prese lo mio segnore, e chiese chi fosser l’altre due ch’eran con lei. E questa, ch’era sì di pianger pronta, tosto che lui intese, più nel dolor s’accese, dicendo: «A te non duol de gli occhi miei?». Poi cominciò: «Sì come saper dei, di fonte nasce il Nilo picciol fiume quivi dove ’l gran lume toglie a la terra del vinco la fronda: sovra la vergin onda generai io costei che m’è da lato e che s’asciuga con la treccia bionda. Questo mio bel portato, mirando sé ne la chiara fontana, generò questa che m’è più lontana». Fenno i sospiri Amore un poco tardo; e poi con gli occhi molli, che prima furon folli, salutò le germane sconsolate. E poi che prese l’uno e l’altro dardo, disse: «Drizzate i colli: ecco l’armi ch’io volli; per non usar, vedete, son turbate. Larghezza e Temperanza e l’altre nate del nostro sangue mendicando vanno. Però, se questo è danno, piangano gli occhi e dolgasi la bocca de li uomini a cui tocca, che sono a’ raggi di cotal ciel giunti; non noi, che semo de l’etterna rocca: ché, se noi siamo or punti, noi pur saremo, e pur tornerà gente che questo dardo farà star lucente». E io, che ascolto nel parlar divino consolarsi e dolersi così alti dispersi, l’essilio che m’è dato, onor mi tegno: ché, se giudizio o forza di destino vuol pur che il mondo versi i bianchi fiori in persi, cader co’ buoni è pur di lode degno. E se non che de gli occhi miei ’l bel segno per lontananza m’è tolto dal viso, che m’àve in foco miso, lieve mi conterei ciò che m’è grave. Ma questo foco m’àve già consumato sì l’ossa e la polpa che Morte al petto m’ha posto la chiave. Onde, s’io ebbi colpa, più lune ha volto il sol poi che fu spenta, se colpa muore perché l’uom si penta. Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano, per veder quel che bella donna chiude: bastin le parti nude; lo dolce pome a tutta gente niega, per cui ciascun man piega. Ma s’elli avvien che tu alcun mai truovi amico di virtù, ed e’ ti priega, fatti di color’ novi, poi li ti mostra; e ’l fior, ch’è bel di fori, fa disïar ne li amorosi cori. Canzone, uccella con le bianche penne; canzone, caccia con li neri veltri, che fuggir mi convenne, ma far mi poterian di pace dono. Però nol fan che non san quel che sono: camera di perdon savio uom non serra, ché ’l perdonare è bel vincer di guerra. |
Tre donne sono venute intorno al mio cuore e siedono fuori, poiché dentro regna l'Amore, il quale domina la mia vita. Sono talmente belle e dimostrano tali virtù che il potente signore, intendo quello che è nel cuore [Amore], a malapena osa parlare loro. Ciascuna sembra addolorata e mesta, come qualcuno che è stato cacciato ed è affranto, al quale voltano tutti le spalle e a cui non giova né la virtù né la bellezza. Ci fu un tempo in cui, stando a quel che dicono, furono amate; ora tutti sono adirati con loro e le disprezzano. Queste donne così sole sono venute qui, come a casa di un amico: infatti sanno bene che dentro il mio cuore vi è quello che dico [Amore].
Una di loro si lamenta molto con le sue parole e si appoggia alla mano come una rosa recisa: il braccio nudo, sostegno al suo dolore, sente le lacrime che cadono dal volto; tiene nascosta l'altra mano e il volto bagnato piangente: è seminuda e scalza ed ha aspetto signorile solo per il suo portamento [non per oggetti esteriori]. Non appena l'Amore vide attraverso le sue vesti lacere le sue parti intime, egli, pietoso e triste, le chiese di lei e del suo dolore. Lei rispose con voce mescolata a sospiri: «Oh tu che sei cibo per pochi, è la nostra natura a mandarci qui da te: io, che sono la più triste, sono sorella di tua madre [Venere] e sono la Giustizia [universale]; come vedi, sono povera nei panni e nella cintura». Dopo che la donna si fu presentata, il mio signore [Amore] fu preso da dolore e vergogna e chiese chi fossero le altre due che erano con lei. E questa, che era così pronta a piangere, non appena lo sentì si accese ancor più nel dolore e disse: «Non provi dolore per i miei occhi?» Poi iniziò a dire: «Come devi sapere, il Nilo nasce come piccolo fiume da una sorgente dove il sole toglie alla terra le fronde degli arboscelli [all'Equatore]: sopra le acque pure io generai questa donna che mi sta accanto [la Giustizia umana] e che si asciuga il pianto con i capelli biondi. Questa mia bella figlia, specchiandosi nell'acqua chiara, generò quest'altra [la Legge naturale] che è più lontana da me» I sospiri fecero tacere un poco l'Amore; poi con gli occhi bagnati di pianto, che prima furono sfrontati, salutò le sconsolate sorelle. E dopo aver preso entrambe le frecce [dell'amore e dell'odio], disse: «Alzate le teste: ecco le armi che ho voluto; vedete, per non averle usate sono arrugginite. La Liberalità e la Misura e le altre donne nate dal nostro sangue vanno come mendicanti. Perciò, se avviene questo danno, piangano gli occhi e si lamenti la bocca degli uomini cui questo tocca, che sono colpiti dagli influssi di una simile congiunzione astrale; non noi, che apparteniamo alla rocca eterna [siamo immortali]: infatti, se adesso noi siamo colpiti, noi continueremo ad esistere e verrà poi gente che manterrà lucenti queste frecce». E io, che ascolto in questo discorso divino questi nobili esiliati che si consolano e si lamentano, ritengo un onore l'esilio che mi è toccato: infatti, se il giudizio di Dio o la forza del destino vuole che il mondo faccia diventare scuri i fiori bianchi [che il male trionfi sul bene], cadere insieme ai giusti è pur sempre degno di lode. E se non fosse per il fatto che a causa dell'esilio non posso più vedere l'oggetto che mi ha fatto innamorare [Firenze], considererei lieve quel che invece per me è grave [l'esilio]. Ma questa pena mi ha già consumato le ossa e la carne, al punto che la morte mi ha già messo la chiave al petto [sta per uccidermi]. Perciò, se ho avuto una colpa, il sole ha fatto passare molti mesi dopo che questa si è estinta, se una colpa vien meno per il pentimento dell'uomo. Canzone, nessuno metta mano ai tuoi panni per vedere quel che una bella donna nasconde [nessuno cerchi di interpretarti]: bastino le parti visibili; nega a chiunque il tuo dolce frutto [il senso allegorico], per il quale ognuno tende la mano. Ma se accade che tu trovi qualcuno che è amico della virtù e ti prega, assumi nuovi colori e poi mostrati a lui; e fa' desiderare nei cuori pieni d'amore il fiore che appare bello esteriormente. Canzone, va' a caccia di uccelli con le penne bianche; canzone, va' a caccia con i cani neri, che ho dovuto fuggire ma che potrebbero donare il perdono. Non lo fanno perché non sanno quello che io sono: l'uomo saggio non chiude la camera del perdono, poiché perdonare è un bel modo di vincere la guerra. |
Interpretazione complessiva
- Metro: canzone formata da cinque stanze di diciotto versi ciascuna (endecasillabi e settenari), con schema della rima AbbCAbbCCDdEeFEfGG; è presente un doppio congedo, il primo di dieci versi (schema che riprende la sirma, CDdEeFEfGG) e il secondo di sette (schema ABaCCDD), probabilmente frutto di un'aggiunta posteriore. È presente un provenzalismo (v. 11, "tutta gente" che riprende l'occitanico tota gen) e un sicilianismo (v. 83, "miso").
- Al centro del testo vi è l'esilio ingiustamente subìto da Dante e contro il quale il poeta celebra la sua alta dignità, attraverso la metafora delle "tre donne" che fanno visita al suo cuore: secondo un'interpretazione avvalorata già dal figlio dell'autore Pietro, esse sarebbero allegoria della Giustizia universale, della Giustizia umana e della Legge naturale, bene accolte dall'autore in quanto nel suo cuore alberga l'amore per queste virtù (la scena è descritta secondo gli schemi della poesia cortese). Le tre donne sono scacciate e trascurate da tutti, in quanto nel mondo la giustizia è ormai calpestata a causa delle prepotenze politiche e della corruzione della Chiesa, per cui esse sanno di trovare accoglienza presso Dante in quanto lui, esule per gli stessi motivi, può comprendere la loro triste condizione. Dante proclama in modo accorato la propria dirittura morale e afferma che l'esilio patito è un onore, proprio in quanto condivide lo stesso destino con "così alti dispersi" (da intendersi come le tre donne e lo stesso amore, poiché nessuno nel mondo ama la giustizia).
- Delle tre donne allegoriche è solo la prima a parlare, ovvero la Giustizia universale che si presenta come una nobile donna che indossa vestiti laceri ed è scalza, in lacrime per la sua triste condizione di esule: dichiara di condividere la stessa natura di Amore, in quanto sorella di sua madre (cioè di Venere, poiché Astrea, immagine della giustizia, era come lei figlia di Giove) e di essere nata alle foci del Nilo, presso l'Equatore dove il sole inaridisce le piante ("del vinco la fronda") per il troppo calore; il Nilo era interpretato già da B. Latini come uno dei quattro fiumi che scorrevano nell'Eden e ciò avvalora l'identificazione della donna con la Giustizia universale, propria dell'umanità prima della cacciata di Adamo. Nello stesso luogo essa generò la Giustizia umana e questa, specchiandosi nella "chiara fontana" del fiume, generò a sua volta la Legge naturale, applicazione della Giustizia.
- Le armi che Amore mostra alle tre donne e che, a suo dire, sono ormai arrugginite per il poco uso da parte degli uomini, sono ovviamente le due frecce dell'amore e dell'odio attribuite al dio classico e fuor di metafora alludono probabilmente al potere temporale e spirituale (per quanto non siano mancate altre ipotesi): il dio afferma che a causa del comportamento umano lui, le tre donne e altre virtù sono scacciate dal mondo, ma esse continuano comunque ad esistere in quanto immortali e presto torneranno a trionfare grazie all'azione di altra "gente", anche se è arduo capire a cosa in particolare alluda qui l'autore (il tono sembra già quello profetico della Commedia). Il v. 68 sembra fare riferimento alla teoria degli influssi astrali che sarebbe responsabile di tale situazione, anche se in Purg., XVI Marco Lombardo attribuirà piuttosto la colpa della corruzione al libero arbitrio degli uomini.
- Nell'ultima stanza Dante considera un onore l'ingiusto esilio patito in quanto ad essere esuli sono anche le virtù del mondo, e afferma inoltre che il bando gli pesa soprattutto per la lontananza da Firenze oggetto del suo amore: l'accenno ai fiori bianchi che diventano scuri (vv. 78-79) sembra una chiara allusione alle due fazioni politiche dei Guelfi, anche se il poeta vuol dire forse soltanto che l'ingiustizia degli uomini ha calpestato i normali valori e rovesciato la situazione facendo prevalere il male sul bene; inoltre, poiché l'aggettivo "perso" indica propriamente un rosso porpora tendente al nero, c'è chi ha visto anche un'allusione alla sconfitta della Lastra in cui i Bianchi fuorusciti tentarono di rientrare a Firenze e vennero sconfitti in modo sanguinoso. Ciò potrebbe spiegare cosa intende Dante quando fa riferimento a una "colpa" (v. 88) che il tempo ha ormai cancellato, dal momento che pare poco probabile che egli si dichiari responsabile delle accuse di baratteria che gli furono rivolte, mentre è più verosimile che egli si riferisca ai contatti che ebbe con gli altri esuli prima della battaglia del 1304 al fine di rientrare in città con la forza.
- Il primo congedo della canzone è quello che chiude il componimento in quasi tutti i codici e l'autore raccomanda al testo di non svelare il senso allegorico ("dolce pome") se non a chi è "amico di virtù", limitandosi a mostrare a tutti gli altri il senso letterale definito come "fiore" (il senso profondo è la denuncia della mancanza di giustizia nel mondo, quindi non può essere compreso che dagli uomini giusti, amanti delle virtù ormai scacciate). Il secondo congedo sembra un'aggiunta posteriore ed è stato ipotizzato che sia addirittura apocrifo, specie per l'accorato appello ai Neri affinché perdonino il poeta e gli consentano di rientrare a Firenze: qui l'allusione politica è trasparente, tuttavia non è escluso che Dante alluda al fatto che ormai ha troncato i rapporti con gli altri esuli di parte bianca e ciò farebbe risalire la composizione del congedo a dopo il 1304, ipotesi problematica per altri aspetti (la questione resta sostanzialmente insoluta).