Giovanni Pico della Mirandola
L'uomo è padrone del suo destino
(Oratio de hominis dignitate)
Composta tra 1485 e 1486, pubblicata postuma nel 1496, l' "Orazione sulla dignità dell'uomo" venne concepita come l'introduzione a un'opera molto più ampia in cui l'autore intendeva sostenere novecento tesi filosofiche tratte da varie tradizioni culturali, al centro delle quali stava l'esaltazione dell'uomo come sublime creatura di Dio e della sua superiorità su tutti gli altri esseri, data specialmente dalla sua capacità di cogliere la grandezza divina. Nell'orazione Pico sottolinea in particolare come l'uomo, creato da Dio a sua immagine, non sia legato a una forma o a una natura predeterminata come gli animali bruti, ma sia in grado di plasmarsi a proprio piacimento e, dunque, di forgiare egli stesso il proprio destino.
► PERCORSO: L'Umanesimo
► PERCORSO: L'Umanesimo
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Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania [1], aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo [2], pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti ormai erano pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell’ultima fattura [3]; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare _nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». O suprema liberalità di Dio padre! O suprema e mirabile felicità dell’uomo! A cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere seco [4] recano dal seno materno tutto quello che avranno. Gli spiriti superni [5] o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose. [Traduzione di E. Garin, Pisa 1985] |
[1] L'iperuranio è la zona, secondo la dottrina platonica, in cui hanno sede le idee perfette. [2] Il riferimento è alla Genesi (I, 26-28) e al dialogo platonico del Timeo. [3] Nell'ultimo atto della creazione. [4] Con sé. [5] Gli spiriti superiori (gli angeli). |
Interpretazione complessiva
- Il brano descrive la creazione dell'uomo da parte di Dio come l'atto finale con cui il supremo architetto dà vita all'universo, dunque con la volontà di porre nel mondo un essere dotato di razionalità e in grado di cogliere la bellezza del creato, "di afferrare la ragione di un’opera sì grande": l'uomo viene quindi esaltato come creatura superiore a tutti gli altri esseri viventi e Pico sottolinea come la sua natura non sia stata determinata da Dio al pari degli altri animali, ma sia stato reso capace di plasmare a proprio piacimento il suo essere, scegliendo il ruolo più adatto a sé nel mondo. L'autore "drammatizza" questo concetto immaginando le parole con cui il creatore si rivolge ad Adamo dopo averlo creato e gli dice in tono solenne che lo ha posto al centro del mondo, dotato del "libero arbitrio" e capace di "degenerare nelle cose inferiori" così come di elevarsi "nelle cose superiori che sono divine", che è forse la più alta espressione del concetto di antropocentrismo che caratterizza la cultura dell'Umanesimo. Il brano ha forti analogie con il trattato di Giannozzo Manetti De dignitate et excellentia hominis, composto tra 1450-51 e contenente un'esaltazione dell'uomo molto simile a quella fatta da Pico nella sua orazione, con in più la rivalutazione della fisicità del corpo e dei piaceri che esso può procurare (tra cui quello sessuale, per nulla condannato come avveniva invece nella prospettiva religiosa del Medioevo; ► TESTO: I piaceri del corpo).
- Le parole con cui Pico immagina che Dio si rivolga ad Adamo dopo averlo creato puntano molto sul concetto di "libero arbitrio" e forse il discorso è derivato in parte dal passo della Commedia (Purg., XXVII) in cui Virgilio invita Dante a entrare da solo nel Paradiso Terrestre e a seguire la sua volontà che ormai è stata purificata, poiché "fallo fora non fare a suo senno" (► TESTO: Virgilio e Dante alle soglie dell'Eden). Naturalmente il contesto è del tutto diverso, in quanto Dante aveva riguadagnato la possibilità di agire in modo libero dopo una redenzione morale in seguito allo smarrimento nella selva oscura, mentre Pico afferma che l'uomo è destinato da Dio fin dall'inizio a diventare artefice del proprio destino e in tutto il brano non è presente neppure un riferimento al peccato originale o al concetto di "caduta" da uno stato primigenio di felicità, che in Dante invece era rappresentato allegoricamente dall'Eden.