Terminologia e periodizzazione

Con il termine Rinascimento gli studiosi indicano il periodo di massima fioritura letteraria e artistica che caratterizzò l'Italia nella prima metà del Cinquecento, approssimativamente tra il 1492 (anno della morte di Lorenzo de' Medici, nonché della scoperta dell'America) e il 1545 (apertura del Concilio di Trento che segna l'inizio della Controriforma). Tale periodo viene diviso in altre due fasi definite "Rinascimento maturo" e "tardo Rinascimento", prendendo come spartiacque l'anno del sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi (1527), e la principale differenza tra i due momenti è il fatto che nei primi trent'anni del secolo sono attivi i principali scrittori e artisti italiani (Machiavelli, Ariosto, Michelangelo...), mentre nella seconda fase c'è carenza di grandi opere e in poesia si anticipa la tendenza del manierismo, che caratterizzerà la successiva età della Controriforma e che consiste in un'imitazione dei modelli classici talvolta priva di originalità. Il termine Rinascimento mette l'accento soprattutto sulla ripresa dei valori classici e dell'arte dopo i secoli "bui" del Medioevo, e in questo senso il periodo si pone in forte continuità con l'Umanesimo, tanto che alcuni studiosi parlano di civiltà umanistico-rinascimentale senza vedere cesure tra i due secoli; in realtà l'età del Rinascimento, almeno sul piano letterario, prosegue sulla stessa linea di quella precedente (riscoperta dei classici, antropocentrismo, rivalutazione della natura e del corpo umano, mecenatismo delle corti...), ma con una maggiore consapevolezza e, soprattutto, con una tendenza alla codificazione e al regolismo in tutti i campi, specie in quello del comportamento e della lingua, mentre conosce un grandissimo sviluppo la stampa e viene letteralmente riscoperto il teatro classico, attraverso i due generi principali della tragedia e della commedia. Altra novità è costituita dalla riflessione politica, che con l'opera fondamentale di Machiavelli introduce il pensiero politico moderno, tagliando i ponti con la trattatistica medievale e la visione teocentrica dello Stato. Se il Rinascimento è ancora una letteratura di corte, prodotta per un pubblico per lo più selezionato di cortigiani e poco interessata al mondo esterno, vi sono tuttavia alcuni scrittori che non si riconoscono in questo modello e propongono opere di carattere affatto opposto, che ricercano squilibrio e disarmonia, quando non addirittura la parodia (è il cosiddetto antirinascimento, per cui si veda oltre).
Il regolismo. La codificazione dei generi letterari

Una delle principali caratteristiche del primo Cinquecento è appunto il regolismo, ovvero la tendenza a fissare norme rigorose in tutti i campi della vita sociale e della produzione artistico-letteraria in accordo con il classicismo e il riconoscimento dei valori dell'equilibrio e dell'armonia contrapposti al "disordine" del Medioevo: tale tendenza "normativa" trova applicazione in molti ambiti culturali, dal comportamento degli uomini di corte alla lingua, dalla prassi politica ai generi letterari, che vengono rigidamente codificati e per ognuno dei quali si fissano regole precise e modelli cui attenersi, gettando le basi per il manierismo che distinguerà l'età successiva. Questa mentalità è espressione di una letteratura e di un'arte aristocratica, che come nel Quattrocento nasce nell'ambito chiuso e raffinato della corte e viene prodotta da scrittori e artisti che si rivolgono a un pubblico selezionato, che spesso si disinteressa agli avvenimenti del mondo esterno ed è indifferente al destino delle classi subalterne, almeno per quanto riguarda la produzione più elevata. Sul piano più strettamente letterario si crea un vero e proprio canone dei principali generi della letteratura "alta", sulla falsariga di quanto già era avvenuto nell'Umanesimo e con una maggiore consapevolezza da parte degli intellettuali, e il genere più nuovo e più largamente usato nel Cinquecento diventa il trattato in prosa, dedicato ai temi più vari (il comportamento, la lingua, la politica...) e che vede tra gli interpreti i principali autori del secolo, da Machiavelli (► VAI ALL'AUTORE), a Bembo, a Guicciardini, per i quali si veda oltre. Grande sviluppo ha anche la poesia lirica, che individua naturalmente in Petrarca il modello quasi esclusivo (si parla addirittura di "petrarchismo") e che è praticata un po' da tutti gli scrittori del Rinascimento, mentre tra gli altri generi poetici occorre citare il poema epico-cavalleresco, che vede come capolavoro l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto (► VAI ALL'AUTORE) e che darà luogo alle interminabili discussioni sul poema eroico della fine del secolo, sino alla Liberata di Tasso. Naturalmente tra i modelli del poema vi sono i capolavori della letteratura classica, dai poemi omerici all'Eneide, ma è indubbio che l'Orlando innamorato di Boiardo costituisca il precedente immediato e apra di fatto la strada al genere nel Cinquecento, specie riguardo alla scelta del ciclo carolingio e alla commistione con gli elementi fiabeschi del ciclo bretone che si ritrovano in Ariosto (► AUTORE: Matteo Maria Boiardo). Di derivazione più strettamente classica è invece il poemetto didascalico, frutto per lo più dell'imitazione virgiliana (delle Georgiche soprattutto), mentre un filone minore è rappresentato dalla novellistica, a tutto vantaggio del trattato che è di gran lunga il genere in prosa più praticato. Il Rinascimento è poi il periodo in cui rinasce letteralmente il teatro classico, riscoperto grazie soprattutto alle discussioni sulla Poetica di Aristotele e largamente imitato, specie nei due generi della tragedia e della commedia pressoché sconosciuti alla letteratura medievale (anche su questo punto si veda oltre).
Il trattato rinascimentale

Il trattato in prosa volgare diventa il genere di gran lunga più importante nella letteratura del Cinquecento e presenta sicuramente molti elementi di modernità, tagliando i ponti con la trattatistica medievale e del XV sec. ancora legata a vecchi schemi tra cui, ad es., l'uso del latino come lingua di cultura, mentre ora il volgare viene "sdoganato" come mezzo adatto ad affrontare temi anche elevati ed esprimere i valori di una raffinata società aristocratica. Ovviamente ciò non significa che la trattatistica non individui i suoi modelli nella lett. classica e, anzi, il trattato nasce come imitazione delle opere di Platone e di Cicerone, dai quali (dall'autore latino soprattutto) trae la forma dialogica che è la più diffusa almeno nelle opere del primo Cinquecento. Il dialogo consentiva del resto di contrapporre in modo dialettico più tesi e dava al testo una veste narrativa che ne facilitava la lettura, tracciando una strada che sarà ancora percorsa nell'età successiva, almeno sino al Dialogo sopra i massimi sistemi di Galileo nel XVII sec. che, nonostante la novità e l'argomento, avrà molti punti di contatto col trattato rinascimentale. Il modello ciceroniano del dialogo è seguito da molti autori (Bembo, Castiglione, Machiavelli...) e lo schema narrativo prevede una finzione per cui alcuni interlocutori, per lo più personaggi reali del tempo, si riuniscono in una casa o in un'importante corte per discutere di un argomento e ognuno propone la sua tesi, adducendo vari argomenti; solitamente uno dei personaggi funge da portavoce dell'autore e la sua tesi finisce per prevalere ed essere riconosciuta come valida anche dagli altri, cosa che ad es. avviene nelle Prose di Bembo in cui a sostenere le idee dell'autore è il fratello Carlo, o nell'Arte della guerra di Machiavelli in cui questo ruolo è svolto da Fabrizio Colonna. Il trattato poteva spaziare veramente su tutti gli argomenti del dibattito culturale e quelli più importanti del Rinascimento sono dedicati alla politica (come il Principe di Machiavelli, ► VAI ALL'OPERA), al comportamento (come il Cortegiano e il Galateo, per cui si veda oltre), alla lingua, alla filosofia (come gli Asolani di Bembo), mentre un ricco filone è costituito dalla storiografia che si modernizza rispetto a quella del XIII-XV sec. e che vede tra gli autori principali soprattutto Machiavelli e Guicciardini. La centralità del trattato nel primo Cinquecento è dimostrata anche dal fatto che il genere sia stato usato da scrittori che non si riconoscevano nella letteratura di corte e che vengono solitamente accostati al cosiddetto "antirinascimento", tra cui sopratutto Pietro Aretino che fu autore, tra le altre cose, di alcuni dialoghi (i Ragionamenti) che non solo affrontano in modo esplicito la materia erotica, ma fanno la parodia dello stile di vita aristocratico celebrato da Bembo e Castiglione nelle loro opere (si veda oltre). In generale il successo del trattato si può ricondurre al carattere culturalmente vivace e aperto alla discussione dell'ambiente cortigiano del Cinquecento, in cui è vero che la libertà degli intellettuali si va riducendo e i cortigiani sono sottoposti a un più rigido controllo da parte del signore, ma rimane comunque una relativa indipendenza degli uomini di pensiero che stimola una riflessione su molti aspetti del reale e che nell'età successiva, oppressa dall'oscurantismo della Controriforma e della censura, non sempre sarà possibile (► PERCORSO: La Controriforma).
I trattati di comportamento: il Cortegiano e il Galateo

Particolare diffusione ebbe nel Rinascimento il trattato comportamentale, che fissa cioè in modo "normativo" il modo d'agire degli uomini e delle donne di corte in ossequio a una visione aristocratica della vita e della società che caratterizza tutto il secolo, e tra gli autori più importanti in questo ambito troviamo Baldassarre Castiglione (1478-1529) il cui Cortegiano è considerato assieme al Principe di Machiavelli e alle Prose di Bembo uno dei trattati più significativi della civiltà rinascimentale. Mantovano, dotato di una seria educazione umanistica, Castiglione fu al servizio di vari signori italiani (Ludovico il Moro, Francesco Gonzaga), finché nel 1504 si stabilì alla corte di Urbino dei Montefeltro dove progettò il suo capolavoro, che pubblicò nel 1528 dopo una gestazione assai lunga e numerose correzioni e revisioni: il Cortegiano è diviso in quattro libri e si presenta come un dialogo che avviene in quattro sere alla corte urbinate della duchessa Elisabetta Gonzaga, intorno alla quale si raccoglieva un circolo di letterati e intellettuali di cui ovviamente l'autore stesso faceva parte. I principali interlocutori del dialogo sono la stessa Elisabetta, sua cognata Emilia Pio, Ottaviano e Federigo Fregoso, Giuliano de' Medici, Ludovico di Canossa, Pietro Bembo, il cardinale Dovizi da Bibbiena, ovvero il fior fiore degli uomini e delle donne di corte del Cinquecento e tutti conosciuti personalmente dall'autore (Giuliano era stato protagonista anche delle Prose di Bembo, avversario delle tesi del fratello Carlo). Il tema del trattato è la definizione del perfetto uomo di corte, di cui i vari interlocutori elencano le qualità e che deve essere nobile, sano nel fisico, esperto nelle armi e nei duelli, buon consigliere del principe, ma anche intenditore di danza e di musica e in grado di comporre versi all'occasione; la sua virtù principale dev'essere la "sprezzatura", ovvero l'estrema disinvoltura e naturalezza nel fare qualsiasi cosa senza affettazione (questo è l'argomento dei due primi libri; ► TESTO: Le virtù del perfetto cortigiano). Nel terzo libro si parla della "dama" di palazzo, che viene vista in modo ambivalente come figura dotata di una certa indipendenza, ma anche come "oggetto di piacere" dell'uomo e a lui subordinata (è l'accezione negativa del termine "cortigiana" che pure si diffuse nel Cinquecento e che divenne a un certo punto sinonimo quasi di prostituta). Il quarto libro torna sull'uomo di corte e della sua collaborazione col principe, mentre alla fine Bembo discetta di amor platonico e inneggia al godimento della bellezza morale, mezzo per elevarsi alla contemplazione di Dio.
Su un piano inferiore si colloca invece il Galateo, trattato scritto da monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556) e dedicato al vescovo Galeazzo Florimonte, da cui deriva il titolo: il libro si rivolge a un pubblico di classe borghese meno elevato socialmente, insegnando una serie di norme spicciole di comportamento (nella vita sociale, a tavola...) che costituiscono una specie di "decalogo" e che ancora oggi sono spesso citate come sinonimo di buona educazione, talvolta senza rapporti con l'opera originale. Nella finzione dell'opera un "vecchio idiota" (nel senso di illetterato, dietro al quale si cela l'autore) si rivolge a un giovane (forse il nipote Annibale) e gli spiega come comportarsi in società, dunque il testo non ha forma dialogica come il Cortegiano e presenta un minor grado di elaborazione, anche se il suo successo tra i contemporanei fu notevole. Il Della Casa fu autore anche di un Canzoniere di liriche di imitazione petrarchesca, per cui può essere inserito nell'ambito del "petrarchismo" al pari di Pietro Bembo e di altri scrittori del Rinascimento, sui quali si veda oltre.
Su un piano inferiore si colloca invece il Galateo, trattato scritto da monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556) e dedicato al vescovo Galeazzo Florimonte, da cui deriva il titolo: il libro si rivolge a un pubblico di classe borghese meno elevato socialmente, insegnando una serie di norme spicciole di comportamento (nella vita sociale, a tavola...) che costituiscono una specie di "decalogo" e che ancora oggi sono spesso citate come sinonimo di buona educazione, talvolta senza rapporti con l'opera originale. Nella finzione dell'opera un "vecchio idiota" (nel senso di illetterato, dietro al quale si cela l'autore) si rivolge a un giovane (forse il nipote Annibale) e gli spiega come comportarsi in società, dunque il testo non ha forma dialogica come il Cortegiano e presenta un minor grado di elaborazione, anche se il suo successo tra i contemporanei fu notevole. Il Della Casa fu autore anche di un Canzoniere di liriche di imitazione petrarchesca, per cui può essere inserito nell'ambito del "petrarchismo" al pari di Pietro Bembo e di altri scrittori del Rinascimento, sui quali si veda oltre.
La questione della lingua
Il regolismo del Cinquecento non poteva non occuparsi anche di una questione ancora aperta nella letteratura italiana, ovvero la definizione di una lingua volgare che fosse adatta alla produzione di opere in prosa e in versi e che rispondesse alle esigenze di armonia e coerenza proprie della cultura rinascimentale, per cui diventava necessario fissare il "canone" anche della lingua oltre che dei generi letterari. Va detto che il volgare aveva una storia relativamente breve in Italia e mancava naturalmente una grammatica come anche un vocabolario, senza contare che la Penisola presentava una forte frammentazione linguistica; il fatto che alcuni dei principali scrittori del XIV-XV sec. si fossero espressi in fiorentino dava a questa lingua un indubbio vantaggio, ma molte erano ancora le eccezioni in tal senso (Boiardo aveva scritto l'Innamorato in volgare emiliano, per fare un solo esempio, e il poema aveva subìto già delle correzioni "toscanizzanti"; ► AUTORE: Matteo Maria Boiardo). Occorre anche sottolineare che l'intento degli intellettuali del XVI sec. non era certo quello di definire una lingua nazionale o di popolo, anche perché l'Italia era divisa politicamente e teatro di guerre tra i principali Stati stranieri, ma unicamente quello di creare un volgare letterario con cui esprimere una produzione di corte, rivolta a un pubblico aristocratico in possesso della necessaria preparazione per intenderlo. Nei paragrafi seguenti sono illustrate le proposte dei principali intellettuali che si occuparono della questione, ovvero quella di Pietro Bembo, di Gian Giorgio Trissino, di Niccolò Machiavelli.
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La proposta di Bembo: le Prose della volgar lingua

Pietro Bembo (1470-1547), veneziano di origine, fu uno dei principali letterati italiani del Cinquecento e un raffinato uomo di corte, che nella sua vita soggiornò a Firenze (dove entrò in contatto con l'Accademia Platonica di Marsilio Ficino), a Ferrara (dove ebbe rapporti con Lucrezia Borgia), a Urbino presso i Montefeltro, mentre nel 1539 fu nominato cardinale da papa Paolo III; scrisse vari trattati, tra cui gli Asolani (1505), un dialogo di argomento neoplatonico e amoroso ambientato ad Asolo presso la residenza dell'ex-regina di Cipro Caterina Corner, e fu autore anche di poesie liriche che lo fanno rientrare nel "petrarchismo" rinascimentale (sul punto si veda oltre). La sua opera più importante sono tuttavia le Prose della volgar lingua, un trattato in tre libri pubblicato nel 1525 in cui affronta la questione della lingua letteraria e propone come tesi l'adozione del fiorentino del Trecento, attraverso i modelli di Petrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa: Bembo immagina che si svolga un dialogo in casa di suo fratello Carlo, a Venezia, della durata di tre giorni in cui si confrontano come interlocutori lo stesso Carlo Bembo (suo portavoce), Giuliano de' Medici, Federigo Fregoso, Ercole Strozzi. Alla tesi sostenuta dal fratello, ovvero l'adozione come modello letterario del fiorentino del XIV sec. giudicato superiore, si contrappone soprattutto la posizione di Giuliano de' Medici, che argomenta la necessità di usare invece il fiorentino contemporaneo, tesi affermata anche da Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua (si veda oltre). Giuliano contesta la proposta di Carlo parlando di "lingua dei morti", essendo il fiorentino di Petrarca e Boccaccio non più attuale, ma la superiorità della lingua del Trecento è affermata sia sul piano strettamente formale che su quello dell'autorità, potendo appoggiarsi al modello di due prestigiosi scrittori come gli autori del Canzoniere e del Decameron (per quanto Boccaccio andasse imitato per la lingua dell'Introduzione e non tanto delle novelle; ► TESTO: La lingua dei morti). Nel terzo libro delle Prose Bembo delinea inoltre una grammatica del volgare a partire dall'esempio dei due autori trecenteschi, ed è chiaro che il suo intento è definire una lingua che sia strumento letterario a uso e consumo di un pubblico di corte, espressione del suo raffinato modo di vivere e pertanto lontanissima da quella del popolo alla quale "non dee... accostarsi". La "soluzione" proposta da Bembo trovò molti detrattori e venne avversata con vari argomenti, tuttavia risultò vincente in quanto rispondeva all'esigenza della cultura rinascimentale di "normare" attraverso l'imitazione di grandi modelli e trovò di lì a poco uno straordinario interprete in Ludovico Ariosto, che (pur essendo emiliano) decise di riscrivere il Furioso adottando la lingua di Bembo e il successo della terza edizione del poema determinò anche quello della proposta dell'intellettuale veneziano, destinata a oscurare le altre. Il fiorentino letterario di Bembo si impose dunque come la lingua della letteratura in Italia e fu adottata dai principali scrittori dei secoli successivi, tanto che si parlò di "bembismo" e tale orientamento influenzò profondamente lo sviluppo culturale in Italia, almeno sino all'Ottocento quando la questione linguistica verrà nuovamente sollevata e diversamente risolta da Alessandro Manzoni. Va detto inoltre che le posizioni di Bembo influenzarono in parte la nascita dell'Accademia della Crusca di Firenze, alla fine del Cinquecento, istituzione che produrrà nel 1612 la prima edizione di un vocabolario del volgare fiorentino quale strumento sino ad allora inesistente in Italia.
La proposta di G. G. Trissino e N. Machiavelli

Alle tesi sostenute da Bembo nelle Prose e risultate poi vincenti si contrapposero varie altre posizioni, tra cui quella più originale fu espressa dal letterato vicentino Gian Giorgio Trissino (1478-1550) al centro di un interessante "caso letterario" riguardante il De vulgari eloquentia di Dante, opera di cui si erano perse le tracce da tempo: Trissino ne pubblicò una traduzione nel 1529, asserendo di aver trovato non si sa dove il manoscritto, e se ne servì per corroborare le proprie tesi linguistiche facendo proprie quelle dantesche del trattato latino. Com'è noto, Dante nel De vulgari negava al fiorentino la superiorità linguistica e definiva il "volgare illustre" come una sorta di lingua composita, comprendente i migliori elementi dei volgari d'Italia (► AUTORE: Dante Alighieri), per cui Trissino appoggiandosi all'autorità dantesca asseriva che la lingua letteraria non dovesse essere il fiorentino del Trecento come sostenuto da Bembo, bensì una sorta di koiné sovraregionale che mettesse insieme le lingue di tutte le corti d'Italia, per quanto tale soluzione fosse artificiosa e di difficile attuazione. Le inattese rivelazioni sul trattato dantesco sollevarono un vespaio di polemiche e molti intellettuali negarono l'autenticità dell'opera, mentre altri accusarono addirittura Trissino di aver prodotto un falso. Lo scrittore espose le sue tesi linguistiche in un trattato edito nel 1529, Il castellano, che inscena un dialogo svoltosi a Roma tra Giovanni Rucellai, comandante della fortezza papale di Castel Sant’Angelo (da cui il titolo) e portavoce delle idee dell'autore, lo scrittore napoletano Jacopo Sannazaro e il fiorentino Filippo Strozzi; Trissino delinea anche una grammatica ideale del volgare e propone alcune innovazioni ortografiche, come l'uso delle lettere greche ε, ω per indicare la "e" aperta e la "o" chiusa (ne farà uso in alcune opere a stampa, anche se la riforma verrà presto abbandonata). La proposta di Trissino non poteva essere accolta per l'oggettiva difficoltà di essere messa in pratica e fu presto oscurata da quella di Bembo indubbiamente più pratica, anche se lo scrittore ebbe il merito soprattutto di aver riportato alla luce il trattato dantesco dopo circa due secoli di oblio (► SCHEDA: Il De vulgari eloquentia e la questione della lingua).
Decisamente diversa la proposta avanzata invece da Niccolò Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua (1524-25), operetta di non certa attribuzione in cui l'autore del Principe sostiene la necessità di usare il fiorentino contemporaneo come volgare letterario, scelta peraltro da lui adottata in tutte le sue opere e avente come vantaggio il fatto di essere una lingua attuale, viva e non confinata nei libri come il fiorentino letterario di Bembo. Nel testo l'autore immagina persino un dialogo con Dante accusandolo di aver infamato il fiorentino nel De vulgari (la cui autenticità non mette in dubbio), rimprovero che il grande poeta nella finzione accetta. La proposta di Machiavelli, certamente più pratica di quella degli altri autori citati, venne tuttavia trascurata in quanto non presentava dei modelli prestigiosi come il "bembismo" e non rispondeva all'esigenza di fissare rigorose regole grammaticali, inoltre lo scrittore fiorentino era visto come uomo politico più che letterato di professione e forse era giudicato estraneo al circuito di quella letteratura di corte nell'ambito della quale il problema della lingua veniva dibattuto (► AUTORE: Niccolò Machiavelli).
Decisamente diversa la proposta avanzata invece da Niccolò Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua (1524-25), operetta di non certa attribuzione in cui l'autore del Principe sostiene la necessità di usare il fiorentino contemporaneo come volgare letterario, scelta peraltro da lui adottata in tutte le sue opere e avente come vantaggio il fatto di essere una lingua attuale, viva e non confinata nei libri come il fiorentino letterario di Bembo. Nel testo l'autore immagina persino un dialogo con Dante accusandolo di aver infamato il fiorentino nel De vulgari (la cui autenticità non mette in dubbio), rimprovero che il grande poeta nella finzione accetta. La proposta di Machiavelli, certamente più pratica di quella degli altri autori citati, venne tuttavia trascurata in quanto non presentava dei modelli prestigiosi come il "bembismo" e non rispondeva all'esigenza di fissare rigorose regole grammaticali, inoltre lo scrittore fiorentino era visto come uomo politico più che letterato di professione e forse era giudicato estraneo al circuito di quella letteratura di corte nell'ambito della quale il problema della lingua veniva dibattuto (► AUTORE: Niccolò Machiavelli).
Riflessione politica e storiografia

Il Rinascimento, pur essendo un periodo di splendida fioritura letteraria e di grande sviluppo delle corti come centro di diffusione culturale, coincise tuttavia con una fase di grave crisi politica e militare dell'Italia il cui punto di partenza si può individuare nella morte di Lorenzo de' Medici (1492) e nella fine della sua politica di equilibrio, cui seguì già nel 1494 la discesa in Italia delle truppe di Carlo VIII: si aprì per il nostro Paese un'età di grave instabilità in cui le principali potenze europee (Francia e Impero, soprattutto) si disputarono il controllo di importanti porzioni del nostro territorio in guerre sanguinose, sino alla pace di Cateau-Cambrésis del 1559 che segnò di fatto la "spartizione" dell'Italia a tutto vantaggio della monarchia spagnola e l'inizio di un lento declino sociale ed economico destinato a influenzare profondamente la successiva storia italiana. Alcuni scrittori del primo Cinquecento ebbero chiarissima coscienza di questa crisi e ne analizzarono le origini e i possibili rimedi in molte loro opere, giungendo a conclusioni non sempre concordi: fra questi ebbe un'importanza decisiva Niccolò Machiavelli, che nel Principe e nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio ricondusse le cause del declino al problema delle milizie mercenarie e auspicò che gli Stati italiani ancora indipendenti si dotassero di armi proprie, riconquistando militarmente la loro indipendenza (nel Principe egli si rivolge a un sovrano ideale spiegandogli con quali criteri governare, per cui anche questo trattato riguarda in fondo il comportamento; ► AUTORE: Niccolò Machiavelli; ► OPERA: Il principe). Machiavelli ebbe il merito di modernizzare la riflessione politica e di elevare quest'ultima al rango di una "scienza" vera e propria, svincolandola dalle questioni morali, benché la sua visione dei problemi militari fosse alquanto miope e non tenesse conto del progresso riportato ad es. dalle armi da fuoco, che avevano rivoluzionato il modo di combattere le guerre e che lui colpevolmente sottovalutava. Lo scrittore fiorentino era legato a una visione politica ancora di tipo "classico", che paragonava il governo degli Stati italiani all'antica Repubblica di Roma (specie riguardo all'organizzazione degli eserciti) e ciò costituisce il limite più evidente alle sue dottrine politiche, che pure nascevano anche dalla diretta osservazione degli Stati europei e non solo della speculazione teorica, come avveniva per lo più nel XV sec.
Di tipo diverso e più pragmatico invece la riflessione del suo concittadino Francesco Guicciardini, meno incline ad accostare i fatti italiani moderni alla storia antica di Roma (famosa la sua polemica con Machiavelli su questo punto) e più consapevole del fatto che le vicende italiane andassero inquadrate in un contesto più ampio ed europeo, cosa che fece nella sua Storia d'Italia che costituisce la prima vera opera di storiografia moderna del Cinquecento italiano. Guicciardini fu infatti più storico che pensatore politico e la sua opera mostra già la tendenza a descrivere i fatti in modo oggettivo, appoggiandosi a documenti e "pezzi d'archivio" in modo innovativo e aprendo la strada ad altri storici attivi nel secolo seguente, per quanto la sua opera ancora risenta di un'impostazione ispirata dai grandi storiografi latini, da Sallustio a Livio (► AUTORE: Francesco Guicciardini). Accanto a Machiavelli e Guicciardini, i principali scrittori di storia e politica del primo Cinqucento, vanno ricordati altri storici minori che pure contribuirono al dibattito culturale a un livello inferiore, tra cui Benedetto Varchi (1503-1565), fiorentino, autore di una Storia fiorentina in 16 libri molto benevola verso la signoria dei Medici, e Pier Francesco Giambullari (1495-1555), anche lui di Firenze e autore di una Storia d'Europa dall'887 al 947 e che è interessante più per il valore oratorio che scientifico. Affine al genere storiografico è poi l'aretino Giorgio Vasari (1511-1574), pittore, architetto e autore delle Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri, una raccolta di oltre duecento biografie di artisti che costituisce la prima del genere in Italia e nella quale lo scrittore definì il canone dell'arte italiana fra Trecento e Cinquecento, influenzando non poco lo sviluppo della storia dell'arte sino al tardo Settecento.
Di tipo diverso e più pragmatico invece la riflessione del suo concittadino Francesco Guicciardini, meno incline ad accostare i fatti italiani moderni alla storia antica di Roma (famosa la sua polemica con Machiavelli su questo punto) e più consapevole del fatto che le vicende italiane andassero inquadrate in un contesto più ampio ed europeo, cosa che fece nella sua Storia d'Italia che costituisce la prima vera opera di storiografia moderna del Cinquecento italiano. Guicciardini fu infatti più storico che pensatore politico e la sua opera mostra già la tendenza a descrivere i fatti in modo oggettivo, appoggiandosi a documenti e "pezzi d'archivio" in modo innovativo e aprendo la strada ad altri storici attivi nel secolo seguente, per quanto la sua opera ancora risenta di un'impostazione ispirata dai grandi storiografi latini, da Sallustio a Livio (► AUTORE: Francesco Guicciardini). Accanto a Machiavelli e Guicciardini, i principali scrittori di storia e politica del primo Cinqucento, vanno ricordati altri storici minori che pure contribuirono al dibattito culturale a un livello inferiore, tra cui Benedetto Varchi (1503-1565), fiorentino, autore di una Storia fiorentina in 16 libri molto benevola verso la signoria dei Medici, e Pier Francesco Giambullari (1495-1555), anche lui di Firenze e autore di una Storia d'Europa dall'887 al 947 e che è interessante più per il valore oratorio che scientifico. Affine al genere storiografico è poi l'aretino Giorgio Vasari (1511-1574), pittore, architetto e autore delle Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri, una raccolta di oltre duecento biografie di artisti che costituisce la prima del genere in Italia e nella quale lo scrittore definì il canone dell'arte italiana fra Trecento e Cinquecento, influenzando non poco lo sviluppo della storia dell'arte sino al tardo Settecento.
La corte come centro culturale

Nonostante la crisi politica che investe l'Italia agli inizi del Cinquecento, le corti mantengono il loro ruolo di primo piano come centri di diffusione culturale e mecenatismo, il che vale soprattutto per quella dei Medici a Firenze e quella degli Este a Ferrara, senza scordare la Roma dei papi tra i principali committenti artistici. Questo non toglie però che la corte rinascimentale sia un ambiente diverso da quella del XV sec., nel senso che il signore diventa un sovrano più attento alle dinamiche politiche e all'uso dell'arte e della letteratura come strumento per accrescere il proprio prestigio e, di conseguenza, lo scrittore vede diminuire la propria libertà d'azione e diviene sempre più uno "stipendiato" del principe a cui è legato economicamente e a cui deve obbedienza, da pagare il più delle volte in "opere d'inchiostro" (così si esprime Ariosto nel proemio dell'Orlando furioso, alludendo al carattere encomiastico della propria opera). Il rapporto fra letterato e principe è sempre meno di tipo paritetico e fondato sulla generosità del signore, come nel caso di Lorenzo de' Medici e dei poeti della sua cerchia, e la reazione dei principali autori del Rinascimento di fronte a questa mutata situazione è diversa, a seconda delle circostanze e anche del temperamento dei singoli individui: Machiavelli non sembra risentire di questo mutato clima culturale e anzi, dopo il ritorno dei Medici a Firenze nel 1512, tenta in ogni modo di mettersi al loro servizio, scrive il Principe per cattivarsi il loro favore e dimostrare la propria competenza politica, una volta rientrato nella loro cerchia scrive le Istorie fiorentine come opera encomiastica che sottolinea la grandezza della loro famiglia (► AUTORE: Niccolò Machiavelli). Differente è il caso di Ariosto, che invece sopporta con fatica il ruolo subordinato cui lo costringono le difficoltà economiche ed entra in rotta con il cardinale Ippolito d'Este, che rifiuta di seguire in Ungheria, venendo tuttavia costretto a entrare al servizio del duca Alfonso I per l'impossibilità di mantenersi (l'acquisto di una casa propria a Ferrara verrà vissuto come una sorta di "emancipazione" economica, come testimonia il celebre distico che vi fece scrivere sulla facciata; ► AUTORE: Ludovico Ariosto). Ariosto affronta il tema del rapporto tra il cortigiano e il suo signore in varie opere, a cominciare dalla Satira I in cui si giustifica per la scelta di non seguire Ippolito in Ungheria e tratteggia la triste vita dell'uomo di corte, costretto a compiacere il principe in ogni suo capriccio (► TESTO: La vita del cortigiano), mentre la vita di corte è messa alla berlina anche nel celebre episodio del Furioso in cui Astolfo va sulla Luna e vede le cose sprecate sulla Terra, molte delle quali attinenti al "servir de le misere corti" (► TESTO: Astolfo sulla Luna). In ogni caso la vita di corte nel Rinascimento presentava luci ed ombre e non c'è dubbio che molti intellettuali considerassero l'ambiente cortigiano come positivo e in grado di stimolare opere innovative (anche sul piano teatrale, per cui si veda oltre), fatto testimoniato dalla celebrazione che di quello spazio viene fatta in molte importanti opere, a cominciare naturalmente dal Cortegiano di Baldassarre Castiglione. Gran parte della produzione letteraria (e artistica) del Rinascimento nasce all'interno della corte per un pubblico aristocratico e gli scrittori che non si riconoscono in questo modello culturale se ne distaccano in modo netto, come nel caso di F. Berni o P. Aretino che proprio per questo vengono inseriti nel cosiddetto "Antirinascimento", per quanto tale definizione contenga molte ambiguità (sul punto si veda oltre). Da sottolineare inoltre che il carattere "cortigiano" della letteratura italiana si manterrà anche nei secoli successivi, pur con sfumature diverse (nella Controriforma la corte riduce notevolmente gli spazi di libertà e indipendenza dello scrittore, come il caso di Torquato Tasso dimostra) e solo nel Settecento con l'Illuminismo nascerà una letteratura di tipo sociale e attenta ai bisogni della popolazione, non più destinata solo all'intrattenimento di un pubblico aristocratico.
La lirica amorosa e il "petrarchismo"

Il genere della lirica amorosa è nel Cinquecento il corrispettivo del trattato in prosa, dal momento che tale filone è straordinariamente diffuso ed è praticato da letterati di professione e non, inoltre viene fissato un "canone" che influenzerà profondamente il successivo sviluppo della poesia "alta" per almeno tre secoli, almeno sino alla novità delle poetiche romantiche di inizio Ottocento. Il modello privilegiato e quasi esclusivo di tale lirica è ovviamente Petrarca, per quanto il grande poeta del Trecento fosse conosciuto e apprezzato in età umanistica soprattutto per l'opera latina e il solo ad essersi ispirato alla sua poesia volgare era stato Boiardo, autore di un Canzoniere che anticipava molte delle caratteristiche della lirica rinascimentale (► AUTORE: Matteo Maria Boiardo). Nel Cinquecento nasce invece un vero e proprio "culto" della poesia petrarchesca e i Rerum vulgarium fragmenta diventano un'opera studiata e imitata, portando alla nascita di una scuola poetica che gli studiosi moderni chiamano "petrarchismo" e che eserciterà un'influenza grandissima sulla poesia italiana: Petrarca è indicato quale modello di stile e versificazione, ma anche di lingua (specie dopo che le Prose di Bembo lo avevano scelto quale fonte privilegiata per la poesia, per cui si veda sopra) e di comportamento, dal momento che il Canzoniere sembrava rispondere a quell'idea aristocratica di società che i trattati del Rinascimento celebravano, per quanto tale posizione fosse ai limiti della forzatura. Il risultato fu che a comporre versi alla maniera di Petrarca furono un po' tutti e gli imitatori scarsamente originali crebbero a dismisura, al punto che si stamparono persino dei manuali di versificazione secondo il modello del Canzoniere, detti "petrarchini", mentre è indubbio che gli esiti artistici di molti epigoni furono decisamente scadenti e il termine "petrarcheggiare" assunse presto un'accezione negativa, nel senso di un'imitazione fiacca e di maniera.
Tra i petrarchisti più seri e originali vi sono i principali scrittori del secolo e tra essi va incluso anzitutto Ludovico Ariosto, autore di Rime di indubbia ispirazione petrarchesca anche se dotate di una certa originalità (► AUTORE: Ludovico Ariosto), mentre il principale autore di poesie amorose fu naturalmente Pietro Bembo, il cui Canzoniere è modellato quale imitazione di quello trecentesco e in cui l'interesse centrale è per la lingua di Petrarca, con una certa attenzione all'amore platonico che l'autore aveva rielaborato sulla base del neoplatonismo dell'Accademia di Firenze e che è trattato anche negli Asolani (► TESTO: Crin d'oro crespo). Figura in parte simile è poi quella di Giovanni Della Casa, l'autore del Galateo (si veda sopra) che produsse anche lui un Canzoniere di stretta imitazione petrarchesca, benché con degli accenti patetici ed enfatici estranei all'autore del Trecento.
Merita una citazione particolare anche Michelangelo Buonarroti (1475-1564), il principale pittore, scultore e architetto del Rinascimento la cui attività letteraria ebbe un ruolo marginale e che tuttavia scrisse dei versi rientranti nel petrarchismo e ispirati al neoplatonismo di stampo "bembiano", dedicati all'amore per un giovinetto (il romano Tommaso de' Cavalieri, conosciuto nel 1532; ► TESTO: Quantunche 'l tempo) e a Vittoria Colonna, che corteggiò vanamente sino alla morte di lei nel 1547. La stessa Vittoria Colonna fu poetessa, nonché nobildonna e "cortigiana" tra le più celebrate del secolo, e la sua figura si può accostare a quella di altre scrittrici contemporanee (Veronica Gambara, Tullia D'Aragona, Gaspara Stampa...) i cui canzonieri si ispirarono variamente a Petrarca e che costituirono un vero filone di "letteratura femminile" senza precedenti in Italia, destinato a rimanere un caso isolato almeno sino alla fine del Settecento (► TESTO: Vittoria Colonna, Mentre io vissi qui in voi; ► SCHEDA: La figura femminile nel '500). Completano il quadro del petrarchismo di alto livello i cosiddetti lirici meridionali, tra cui i napoletani Angelo di Costanzo e Galeazzo di Tarsia autori di versi lontani dal manierismo di Bembo e dotati di un certo vigore passionale, apprezzati anche nel secolo successivo.
Tra i petrarchisti più seri e originali vi sono i principali scrittori del secolo e tra essi va incluso anzitutto Ludovico Ariosto, autore di Rime di indubbia ispirazione petrarchesca anche se dotate di una certa originalità (► AUTORE: Ludovico Ariosto), mentre il principale autore di poesie amorose fu naturalmente Pietro Bembo, il cui Canzoniere è modellato quale imitazione di quello trecentesco e in cui l'interesse centrale è per la lingua di Petrarca, con una certa attenzione all'amore platonico che l'autore aveva rielaborato sulla base del neoplatonismo dell'Accademia di Firenze e che è trattato anche negli Asolani (► TESTO: Crin d'oro crespo). Figura in parte simile è poi quella di Giovanni Della Casa, l'autore del Galateo (si veda sopra) che produsse anche lui un Canzoniere di stretta imitazione petrarchesca, benché con degli accenti patetici ed enfatici estranei all'autore del Trecento.
Merita una citazione particolare anche Michelangelo Buonarroti (1475-1564), il principale pittore, scultore e architetto del Rinascimento la cui attività letteraria ebbe un ruolo marginale e che tuttavia scrisse dei versi rientranti nel petrarchismo e ispirati al neoplatonismo di stampo "bembiano", dedicati all'amore per un giovinetto (il romano Tommaso de' Cavalieri, conosciuto nel 1532; ► TESTO: Quantunche 'l tempo) e a Vittoria Colonna, che corteggiò vanamente sino alla morte di lei nel 1547. La stessa Vittoria Colonna fu poetessa, nonché nobildonna e "cortigiana" tra le più celebrate del secolo, e la sua figura si può accostare a quella di altre scrittrici contemporanee (Veronica Gambara, Tullia D'Aragona, Gaspara Stampa...) i cui canzonieri si ispirarono variamente a Petrarca e che costituirono un vero filone di "letteratura femminile" senza precedenti in Italia, destinato a rimanere un caso isolato almeno sino alla fine del Settecento (► TESTO: Vittoria Colonna, Mentre io vissi qui in voi; ► SCHEDA: La figura femminile nel '500). Completano il quadro del petrarchismo di alto livello i cosiddetti lirici meridionali, tra cui i napoletani Angelo di Costanzo e Galeazzo di Tarsia autori di versi lontani dal manierismo di Bembo e dotati di un certo vigore passionale, apprezzati anche nel secolo successivo.
Qui è possibile vedere un breve video di presentazione della vita e dell'opera della poetessa Vittoria Colonna, tratto dal canale YouTube Video Letteratura |
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La "rinascita" del teatro classico

Nel Medioevo l'attività teatrale era rimasta estranea dalla letteratura colta e le sole forme di spettacolo fino al XV sec. erano state il teatro di strada dei giullari e le sacre rappresentazioni legate alle manifestazioni religiose, mentre il primo dramma di argomento profano e di derivazione classica in Italia fu nel 1480 la Fabula di Orfeo di Poliziano, non ancora rientrante in un preciso genere teatrale (► AUTORE: Angelo Poliziano). L'interesse per il teatro classico e le sue forme rinasce invece nel Cinquecento, quando viene riscoperta la tragedia attica del V sec. a.C. che ora viene letta in lingua originale (grande importanza in questo senso ha il ritrovamento del I libro della Poetica di Aristotele, dedicato proprio al genere tragico) e ben presto si iniziano a scrivere tragedie moderne in volgare che rientrano nella codificazione dei generi letterari del classicismo aristocratico, mentre la commedia latina viene anch'essa studiata e imitata, anche se il teatro comico si colloca su un piano letterario più basso e talvolta rivolto a un pubblico popolare, per quanto abbia avuto grandi interpreti in età rinascimentale. Inizialmente il teatro cinquecentesco nasce nell'ambiente della corte e (specie la tragedia) è indirizzato a un pubblico aristocratico, anche se nel corso del secolo l'attività teatrale avrà una certa diffusione sociale e avrà luogo anche in edifici pubblici destinati alle rappresentazioni sceniche, antenati dei teatri più moderni. Ecco in breve le principali opere e gli autori del teatro nella prima metà del XVI sec.
La tragedia

Il punto di partenza della rinascita della tragedia è il ritrovamento del I libro della Poetica di Aristotele, che tracciava una storia della tragedia ateniese dell'età classica e ne analizzava contenuti e caratteristiche, pur non avendo alcun intento prescrittivo come invece parve ai dotti del Rinascimento. Tradotto in latino nella prima metà del XVI sec., il trattato ebbe enorme diffusione e spinse gli intellettuali a fissare un "canone" e a stabilire le regole costitutive della tragedia, che ha come protagonisti personaggi d'eccezione e d'alto rango, è incentrata su un contrasto insanabile tra l'eroe e il suo fato, si pone come fine la "catarsi" (purificazione) dalle passioni dell'animo. Gli studiosi ritennero inoltre che Aristotele enunciasse delle norme anche riguardanti lo svolgimento dell'azione scenica, che doveva riguardare un'unica vicenda e compiersi in un solo luogo e nell'arco di una giornata, le cosiddette unità aristoteliche di azione, tempo, luogo che in realtà rappresentano una forzatura del testo originale (Aristotele si limitava a osservare che quasi tutte le tragedie greche avevano tali caratteristiche, ma non le indicava come regole ferree). La tendenza al regolismo e all'imitazione dell'autorità indussero tuttavia i dotti a intendere i "precetti" del grande filosofo in senso letterale e le tragedie scritte nel Cinquecento obbedirono quasi sempre a questo rigido schema, influenzando non poco il successivo sviluppo del genere tragico almeno fino ad Alfieri nel XVIII sec., mentre il primo autore italiano a ribellarsi a questo dogmatismo fu Alessandro Manzoni agli inizi dell'Ottocento. Solitamente la tragedia veniva divisa in cinque atti, benché quella classica avesse una diversa ripartizione, e fu ridimensionato il coro che invece aveva una parte essenziale nel teatro greco, così come vennero eliminati la musica e il canto anch'essi fondamentali nella tragedia classica.
Tra gli autori che si cimentarono nel genere vi fu anzitutto Gian Giorgio Trissino, il letterato vicentino al centro della questione della lingua (si veda sopra) che nel 1515 scrisse la Sofonisba, forse il primo esempio di tragedia nel Rinascimento che utilizzava il metro dell'endecasillabo sciolto, poi diventato di gran moda e usato anche nelle traduzioni dal latino (► TESTO: Il suicidio di Sofonisba). Altri scrittori tragici nel Cinquecento furono Luigi Alamanni, autore dell'Antigone, e Giovanni Rucellai, autore della Rosmunda e dell'Oreste, entrambi letterati di corte che produssero anche poemetti didascalici (si veda oltre); compose tragedie anche Giambattista Giraldi Cinzio, autore di testi quali Didone (1542) e Cleopatra (1543) e di discussioni teoriche intorno ai testi teatrali, come il discorso Intorno al compor delle commedie e delle tragedie del 1543. Tra i modelli seguiti dai tragediografi vi furono senz'altro gli autori attici del V sec. a.C., ma grande spazio ebbe anche lo scrittore latino Seneca che ispirò un'atmosfera spesso cupa e lugubre, elemento che andò accentuandosi nello sviluppo del genere tragico nella successiva età della Controriforma.
Tra gli autori che si cimentarono nel genere vi fu anzitutto Gian Giorgio Trissino, il letterato vicentino al centro della questione della lingua (si veda sopra) che nel 1515 scrisse la Sofonisba, forse il primo esempio di tragedia nel Rinascimento che utilizzava il metro dell'endecasillabo sciolto, poi diventato di gran moda e usato anche nelle traduzioni dal latino (► TESTO: Il suicidio di Sofonisba). Altri scrittori tragici nel Cinquecento furono Luigi Alamanni, autore dell'Antigone, e Giovanni Rucellai, autore della Rosmunda e dell'Oreste, entrambi letterati di corte che produssero anche poemetti didascalici (si veda oltre); compose tragedie anche Giambattista Giraldi Cinzio, autore di testi quali Didone (1542) e Cleopatra (1543) e di discussioni teoriche intorno ai testi teatrali, come il discorso Intorno al compor delle commedie e delle tragedie del 1543. Tra i modelli seguiti dai tragediografi vi furono senz'altro gli autori attici del V sec. a.C., ma grande spazio ebbe anche lo scrittore latino Seneca che ispirò un'atmosfera spesso cupa e lugubre, elemento che andò accentuandosi nello sviluppo del genere tragico nella successiva età della Controriforma.
La commedia

Anche il genere comico conobbe un grande sviluppo nel Cinquecento e se, da un lato, ci fu una produzione più "artigianale" e destinata a un pubblico popolare, spesso in dialetto e realizzata da compagnie di attori dilettanti (come quelle "della calza", composte da aristocratici appassionati), dall'altro si scrissero commedie colte e ispirate al teatro latino di Plauto e Terenzio, i cui testi erano stati riscoperti nel Quattrocento ed erano stati studiati e imitati da molti intellettuali. Questo teatro comico più elevato ebbe interpreti d'eccezione e nacque spesso all'interno della corte come intrattenimento di un pubblico di nobili, ma anche come strumento usato dal principe per celebrare la sua famiglia e dare si sé un'immagine prestigiosa; le commedie venivano recitate nei cortili delle ville signorili, poi al chiuso dei palazzi con un apparato scenografico sempre più raffinato, per cui si può affermare che questo genere rientri pienamente nel classicismo aristocratico del secolo e solo in alcuni casi diventa espressione di una letteratura diversa e sperimentale, anticipando soluzioni che si svilupperanno soprattutto nel secolo seguente. Tra i commediografi principali va ricordato anzitutto Niccolò Machiavelli (► VAI ALL'AUTORE), autore della Mandragola e della Clizia che sono tra i testi più significativi del teatro rinascimentale (la Mandragola è anzi la commedia italiana più famosa del Cinquecento), mentre importante fu anche l'attività scenica di Ludovico Ariosto (► VAI ALL'AUTORE), che scrisse alcune commedie in prosa e versi curandone personalmente l'allestimento alla corte di Ferrara (i modelli sono Plauto e Terenzio e il suo teatro influenzò non poco il genere comico nella letteratura del tempo). In polemica con quest'ultimo si colloca invece il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, autore della Calandria che fu rappresentata alla corte di Urbino nel 1513 e poi a Roma alla presenza del papa, commedia più moderna e meno aderente ai modelli latini (per quanto la trama si rifaccia ai Menaechmi di Plauto), nonché scritta in prosa e in volgare come spiega il Prologo firmato da Baldassarre Castiglione: la trama si gioca sull'equivoco per cui i due protagonisti, i gemelli Santilla e Lidio, sono talmente simili che la ragazza viene creduta un uomo e viceversa, al punto che Lidio, amante della moglie di Calandro (un uomo sciocco come il Calandrino del Decameron e che dà il titolo alla commedia) fa innamorare di sé l'uomo che lo crede una donna, con prevedibili beffe e atroci scherzi ai danni del povero credulone (► TESTI: Il Prologo della Calandria; L'inganno di Fessenio).
Da ricordare anche Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, autore di commedie vivaci scritte in fiorentino popolare che anticipano soluzioni proprie della commedia dell'arte, mentre è anonima la Venexiana, composta forse nel 1535 e che alterna fiorentino letterario, veneziano e bergamasco, collocandosi nel filone della letteratura anticlassicista (il tema è realistico e narra di uno spregiudicato triangolo amoroso tra due nobildonne e un giovane milanese). Una citazione a parte meritano poi due autori che non si riconoscono nella letteratura di corte e si inseriscono nel cosiddetto "antirinascimento", per il quale si veda oltre: Pietro Aretino, poligrafo e autore di scritti vari, che ha composto cinque commedie (La cortigiana, Il marescalco, La Talanta, Lo ipocrito, Il filosofo) di ambientazione moderna e trattanti temi realistici, molto lontane dal teatro comico classicista di Ariosto; e Angelo Beolco, detto il Ruzante, nelle cui commedie trattò temi altrettanto attuali (ad esempio la crisi socio-economica di Venezia in quegli anni) e usò il dialetto, mentre il ricorso alle maschere anticipa la commedia dell'arte del secolo seguente, essendo tra l'altro quello di Ruzante (il contadino padovano poltrone e famelico) uno dei personaggi-maschera ricorrenti del suo teatro.
Da ricordare anche Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, autore di commedie vivaci scritte in fiorentino popolare che anticipano soluzioni proprie della commedia dell'arte, mentre è anonima la Venexiana, composta forse nel 1535 e che alterna fiorentino letterario, veneziano e bergamasco, collocandosi nel filone della letteratura anticlassicista (il tema è realistico e narra di uno spregiudicato triangolo amoroso tra due nobildonne e un giovane milanese). Una citazione a parte meritano poi due autori che non si riconoscono nella letteratura di corte e si inseriscono nel cosiddetto "antirinascimento", per il quale si veda oltre: Pietro Aretino, poligrafo e autore di scritti vari, che ha composto cinque commedie (La cortigiana, Il marescalco, La Talanta, Lo ipocrito, Il filosofo) di ambientazione moderna e trattanti temi realistici, molto lontane dal teatro comico classicista di Ariosto; e Angelo Beolco, detto il Ruzante, nelle cui commedie trattò temi altrettanto attuali (ad esempio la crisi socio-economica di Venezia in quegli anni) e usò il dialetto, mentre il ricorso alle maschere anticipa la commedia dell'arte del secolo seguente, essendo tra l'altro quello di Ruzante (il contadino padovano poltrone e famelico) uno dei personaggi-maschera ricorrenti del suo teatro.
Il poemetto didascalico e le traduzioni

L'imitazione classicista del Rinascimento produsse anche generi relativamente nuovi e che si ispiravano ad opere non di primissimo piano della lett. greca e latina, come nel caso del poemetto didascalico: i modelli di riferimento erano ovviamente Le opere e i giorni di Esiodo e, soprattutto, le Georgiche di Virgilio, che stimolarono la produzione di operette di argomento simile sia pure adattate ai tempi e i cui esiti artistici non sempre furono felici. Tra gli autori più significativi ricordiamo Luigi Alamanni (1495-1556) e Giovanni Rucellai (1475-1525), già ricordati quali autori di tragedie e che scrissero rispettivamente La coltivazione e Le api, ispirati alle Georgiche di Virgilio (il secondo poemetto si rifà in particolare al quarto libro del testo latino e alla favola di Aristeo). Si tratta di opere prive di un reale interesse per la materia e destinate principalmente all'intrattenimento colto di un pubblico aristocratico, oltre all'abilità sfoggiata nel rifare in lingua volgare il genere didascalico della poesia latina; interessante l'uso dell'endecasillabo sciolto come metro, usato spesso anche nel teatro e destinato a grande fortuna nei due secoli successivi, almeno fino al Settecento.
L'endecasillabo sciolto fu utilizzato anche nei primi esperimenti di traduzione in volgare di grandi opere della letteratura latina, tra cui vanno citate soprattutto quella delle Metamorfosi di Ovidio ad opera di Giovanni Andrea dell'Anguillara (nel 1561), una parafrasi più che una vera traduzione letterale, e quella dell'Eneide di Annibal Caro (pubblicata postuma nel 1581), che riscosse grande successo e aprì la strada ad altri tentativi analoghi nelle età successive. Il Caro fu del resto uno dei letterati e degli uomini di corte più interessanti del Rinascimento, autore tra le altre cose anche di versi petrarchisti, di sonetti satirici, di una commedia; tradusse anche la Poetica di Aristotele, il trattato che influenzò profondamente il genere tragico nel Cinquecento, e le Lettere a Lucilio di Seneca, lasciandoci inoltre un gran numero di lettere che offrono testimonianze preziose sull'attività culturale del periodo del Rinascimento.
L'endecasillabo sciolto fu utilizzato anche nei primi esperimenti di traduzione in volgare di grandi opere della letteratura latina, tra cui vanno citate soprattutto quella delle Metamorfosi di Ovidio ad opera di Giovanni Andrea dell'Anguillara (nel 1561), una parafrasi più che una vera traduzione letterale, e quella dell'Eneide di Annibal Caro (pubblicata postuma nel 1581), che riscosse grande successo e aprì la strada ad altri tentativi analoghi nelle età successive. Il Caro fu del resto uno dei letterati e degli uomini di corte più interessanti del Rinascimento, autore tra le altre cose anche di versi petrarchisti, di sonetti satirici, di una commedia; tradusse anche la Poetica di Aristotele, il trattato che influenzò profondamente il genere tragico nel Cinquecento, e le Lettere a Lucilio di Seneca, lasciandoci inoltre un gran numero di lettere che offrono testimonianze preziose sull'attività culturale del periodo del Rinascimento.
La novellistica

Genere in prosa di minore importanza rispetto al trattato, la novella conosce comunque una certa diffusione nel Cinquecento prendendo a modello il Decameron di Boccaccio, scelta pressoché obbligata non solo per lo straordinario successo dell'opera ma soprattutto in quanto Bembo nelle Prose l'aveva indicato come modello linguistico per la prosa (si veda sopra), anche se il Rinascimento non produsse capolavori della novellistica e nessuno degli scrittori principali si cimentò in questo filone letterario. Il nome più importante è quello di Matteo Bandello (1480-1561), domenicano, al servizio di vari signori nell'Italia settentrionale (lui era originario di Castelnuovo Scrivia nell'alessandrino) e autore di 214 novelle divise in quattro parti, le prime tre edite nel 1554 e la quarta, postuma, nel 1573. I racconti non sono inseriti in una cornice ma ognuno è preceduto da una lettera dedicatoria indirizzata a un illustre personaggio del tempo, in cui l'autore precisa in quale occasione abbia sentito raccontare la novella che segue; le lettere forniscono un quadro interessante della società di corte alla quale lo scrittore apparteneva e suggeriscono che le novelle vengano raccontate in riunioni signorili, fra gentiluomini e dame che si "intrattengono" ascoltando appunto i racconti (nella lettera proemiale Bandello afferma che le novelle possono "giovar altrui e dilettare"). La lingua non è il fiorentino letterario in quanto l'autore, che si definisce "lombardo" (cioè abitante della Val Padana), preferisce usare la propria parlata settentrionale, sia pure depurata dagli elementi più spiccatamente popolari (► TESTO: Romeo e Giulietta). Altri narratori furono Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, già citato quale autore di commedie e che raccolse nelle Cene 22 novelle raccontate da una brigata di signori costretti in casa dal cattivo tempo (dunque con una cornice simile a quella del Decameron, cui lo scrittore dichiaratamente si ispira), mentre Luigi Da Porto fu autore della novella di Romeo e Giulietta rielaborata dal Bandello e successivamente ripresa da Shakespeare nella tragedia omonima, destinata a un successo internazionale.
L'Antirinascimento
Il classicismo aristocratico non esaurisce il panorama letterario del primo Cinquecento, in cui molti scrittori (diversi per estrazione sociale e interessi) non si riconoscono nel modello culturale e sociale della poesia di corte e producono opere completamente diverse, che rifiutano il "regolismo" e l'imitazione dei modelli e, al contrario, propongono un forte sperimentalismo di stile e di lingua, non di rado con intenti parodistici verso la letteratura colta. Questo filone letterario viene definito "Antirinascimento", per quanto tale definizione sia piuttosto ambigua e non metta d'accordo tutti gli studiosi, che sottolineano la non omogeneità di questo gruppo di scrittori: fra essi vi sono infatti personaggi colti e dalla solida preparazione umanistica (come l'Aretino o Berni) che passano da opere serie e destinate a un pubblico elevato a testi dissacranti e provocatori, mentre altri autori (come il Folengo) si dedicano principalmente alla ricerca di un nuovo linguaggio con intenti ironici e parodistici, restando ai margini della letteratura più alta. Molti di questi scrittori si ispirano a modelli del tutto diversi rispetto ai classicisti, soprattutto alla poesia comica del Due-Trecento e a Pulci, e alcuni di loro aprono delle nuove strade che saranno percorse da autori successivamente, non solo in Italia (è il caso di Rabelais rispetto all'opera di Folengo). Ecco una sintetica panoramica dei nomi e delle opere più significative a riguardo.
Francesco Berni

Nacque a Lamporecchio nel 1497 o 1498 e visse a Roma al servizio di alti prelati, tra cui lo stesso cardinale Bibbiena autore della Calandria, passando poi a Verona e a Firenze dove morì, nel 1535. Fu poeta giocoso e burlesco e compose numerose Rime (tra cui sonetti, sonetti caudati, capitoli...) di stile apertamente anti-petrarchista, spesso facendo la parodia di testi di poeti classicisti suoi contemporanei come nel sonetto Chiome d'argento fino (► VAI AL TESTO) che rifà il verso a una celebre lirica di Pietro Bembo (► TESTO: Crin d'oro crespo). La sua fama è legata soprattutto al rifacimento dell'Orlando innamorato del Boiardo in lingua toscana, una riscrittura del poema che oltre a modificarne la lingua rimaneggiava in parte anche la trama e che tuttavia riscosse grandi consensi, al punto che questa versione (stampata nel 1541) finì per soppiantare quella originale che fu ritrovata solo nel 1830 da Antonio Panizzi (► AUTORE: Matteo Maria Boiardo). La poesia di Berni affronta in generale temi molto diversi, toccando anche la satira contro personaggi potenti (papa Clemente VII, ad es.), la misoginia, la lode della peste..., il tutto per il gusto della provocazione e dell'eccesso ma anche, talvolta, per dare sfogo a una sorta di "umor nero" derivante da un forte senso di ingiustizia. È rimasto famoso un sonetto rinterzato in cui si scaglia con forza polemica contro Pietro Aretino, intitolato Tu ne dirai e farai tante e tante.
Pietro Aretino

Poligrafo, autore di testi assai eterogenei, l'Aretino (1492-1556) ebbe vita turbolenta e avventurosa, dividendosi tra il servizio a uomini potenti (fu uomo di corte e visse a Roma presso la Curia, a Mantova dai Gonzaga, fu amico di Giovanni dalle Bande Nere...) e la composizione di versi mordaci e satirici contro vari personaggi, attirandosi molte inimicizie e subendo attentati e aggressioni. Venne anche attaccato dal Berni in un sonetto di forte vis polemica, Tu ne dirai e farai tante e tante in cui lo accusava di vari crimini e lo ricopriva di insulti infamanti. Scrisse commedie di ambientazione realistica e di intenti satirici sulla società contemporanea, specie dell'ambiente romano (sulla sua attività teatrale si veda sopra) e soprattutto fu autore dei Ragionamenti, trattati di argomento scandaloso e provocatorio volutamente agli antipodi del trattato rinascimentale codificato da Bembo e Castiglione: nel primo di essi, il Ragionamento della Nanna e della Antonia (stampato a Venezia nel 1534) due donne discutono sul destino di Pippa, la figlia di Nanna, se sia cioè preferibile per lei diventare monaca, donna sposata o cortigiana, mentre nel successivo Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa (1536) la madre istruisce la figlia su come diventare prostituta, con una deformazione grottesca del trattato pedagogico-morale della tradizione umanistica (► TESTO: L'educazione sentimentale di Pippa). In generale nella sua opera si assiste alla descrizione e alla celebrazione di un mondo subalterno fatto di imbroglioni, servi, prostitute, personaggi ignoranti e amorali ma dotati di vita autentica che l'autore contrappone polemicamente agli intellettuali e ai "pedanti" del suo secolo, di cui realizza una spietata satira (come nella commedia La cortigiana, ambientata in una Roma descritta in modo realistico e in cui si muovono personaggi privi di scrupoli, dediti all'imbroglio e alla truffa).
Teofilo Folengo

Mantovano ed entrato in gioventù nei benedettini, Folengo (1491-1544) ha legato il suo nome al cosiddetto "latino maccheronico", ovvero un particolare linguaggio letterario che ha la struttura sintattica del latino ma con un lessico italiano o dialettale ed evidenti intenti parodistici della letteratura classicista. Il maccheronico non era sua invenzione ma esisteva nella tradizione goliardica padovana, anche se Folengo gli diede dignità letteraria e vi compose gran parte delle sue opere, poi raccolte (sotto lo pseudonimo di Merlin Cocai, che in veneto vuol dire "sciocco") nelle Maccheronee messe insieme e stampate man mano che le componeva. Tra i testi più significativi vi sono il Caos del Triperuno, tre "selve" poetiche di vario metro con intermezzi maccheronici e latini, i diciotto carmi della Zanitonella, e soprattutto il Baldus, un poema in maccheronico in 25 libri di esametri la cui edizione definitiva è postuma (1552) e che rappresenta uno dei poemi più interessanti del Cinquecento italiano. Il protagonista è appunto Baldo, di nobili origini ma allevato da contadini mantovani che si dà a una vita furfantesca e si unisce a vari compagni, tra cui Cingar della stirpe di Margutte con cui compie varie imprese eroicomiche; alla fine dell'opera giungono all'inferno dove tutti i poeti, incluso Folengo, sono stipati in un'enorme zucca per le molte bugie che hanno sparso nei loro racconti (► TESTI: Il proemio del Baldus; Il ritratto di Cingar). Il poema è un'evidente parodia del poema cavalleresco colto e trova i suoi modelli nella poesia burlesca dei secoli precedenti, specie nel Morgante del Pulci che è variamente citato (il personaggio di Cingar ricorda fin troppo il "mezzogigante" Margutte; ► AUTORE: Luigi Pulci), mentre il poema verrà a sua volta ripreso dallo scrittore francese Rabelais autore di Gargantua e Pantagruel, proseguendo sulla strada di una letteratura dell'eccesso e del grottesco che anticipa certe scelte del Barocco nel Seicento (cfr. a questo proposito anche Alessandro Tassoni e il suo poema eroicomico).
Affine per certi versi all'arte di Folengo è la poesia di Camillo Scroffa, nobile vicentino autore tra 1540-1545 di alcune liriche (i Cantici di Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro) in cui un pedante canta il suo amore per il giovane Camillo, in una lingua dalla struttura sintattica italiana ma con lessico latineggiante e colto: si tratta del "fidenziano", un linguaggio opposto al maccheronico e che ebbe qualche successo nel Cinquecento, rientrando in quel filone di satira verso i pedanti e i dotti di cui soprattutto Pietro Aretino era stato abile interprete.
Affine per certi versi all'arte di Folengo è la poesia di Camillo Scroffa, nobile vicentino autore tra 1540-1545 di alcune liriche (i Cantici di Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro) in cui un pedante canta il suo amore per il giovane Camillo, in una lingua dalla struttura sintattica italiana ma con lessico latineggiante e colto: si tratta del "fidenziano", un linguaggio opposto al maccheronico e che ebbe qualche successo nel Cinquecento, rientrando in quel filone di satira verso i pedanti e i dotti di cui soprattutto Pietro Aretino era stato abile interprete.
Gli scrittori "scapigliati": Cellini, Doni, Gelli

Altri scrittori estranei al classicismo delle corti rientrano a fatica in un preciso genere o filone letterario e per la loro vita disordinata e spesso ai margini della legalità vengono talvolta definiti "scapigliati", con un termine anacronistico che forse non è del tutto appropriato: tra questi vi è soprattutto Benvenuto Cellini (1500-1571), orafo, scultore, scrittore d'arte, che ebbe vita molto turbolenta e lavorò a Roma e in Francia, protetto da papi e re; la sua opera scultorea più famosa è il Perseo, commissionata da Cosimo I de' Medici per la Loggia dei Lanzi, mentre come scrittore compose rime e trattati, tutti molto poco originali. Più interessante invece la Vita, sorta di autobiografia stesa nei suoi ultimi anni e pubblicata solo nel XVIII sec., che è uno specchio fedele della forte personalità del suo autore, della coscienza della sua grandezza, scritta con tono epico e a volte senza badare troppo alla grammatica (rientra nel genere della biografia già affrontato dal Vasari, per cui si veda sopra).
Altrettanto avventurosa la vita di Anton Francesco Doni (1513-1574), un ex-frate che si stabilì a Venezia e vi aprì una bottega libraria scrivendo cose diversissime e coltivando anche polemiche con altri intellettuali del tempo, non ultimo Pietro Aretino: tra le molte sue opere le più interessanti sono i Mondi celesti, terrestri e infernali in cui delinea in forma di dialogo una città ideale, ispirato dalle utopie che circolavano nel Cinquecento, mentre nei Marmi immagina di poter volare su Firenze e vedere tutto ciò che vi succede, assistendo alle discussioni che le sere d'estate si tenevano sui gradini del duomo (vi trovano spazio notizie vere e inventate, con un interesse per tutto ciò che è attualità e che fanno di Doni quasi un "giornalista" ante litteram). Interessante anche la figura di Giambattista Gelli (1498-1563), un modesto calzolaio che divenne membro dell'Accademia Fiorentina e poi della Crusca, appassionato cultore di Dante che lesse pubblicamente: scrisse tra le altre cose due trattati, I capricci del bottaio in cui Giusto dialoga con la propria anima di questioni filosofiche, pur essendo un modesto artigiano, e la Circe, in cui la maga propone agli uomini da lei mutati in animali di tornare alla forma umana, ma solo l'elefante che in vita era stato filosofo accetta. Evidente il richiamo ai moralisti dell'antichità, in particolare Plutarco e Luciano di Samosata con cui la Circe ha più di un'analogia.
Altrettanto avventurosa la vita di Anton Francesco Doni (1513-1574), un ex-frate che si stabilì a Venezia e vi aprì una bottega libraria scrivendo cose diversissime e coltivando anche polemiche con altri intellettuali del tempo, non ultimo Pietro Aretino: tra le molte sue opere le più interessanti sono i Mondi celesti, terrestri e infernali in cui delinea in forma di dialogo una città ideale, ispirato dalle utopie che circolavano nel Cinquecento, mentre nei Marmi immagina di poter volare su Firenze e vedere tutto ciò che vi succede, assistendo alle discussioni che le sere d'estate si tenevano sui gradini del duomo (vi trovano spazio notizie vere e inventate, con un interesse per tutto ciò che è attualità e che fanno di Doni quasi un "giornalista" ante litteram). Interessante anche la figura di Giambattista Gelli (1498-1563), un modesto calzolaio che divenne membro dell'Accademia Fiorentina e poi della Crusca, appassionato cultore di Dante che lesse pubblicamente: scrisse tra le altre cose due trattati, I capricci del bottaio in cui Giusto dialoga con la propria anima di questioni filosofiche, pur essendo un modesto artigiano, e la Circe, in cui la maga propone agli uomini da lei mutati in animali di tornare alla forma umana, ma solo l'elefante che in vita era stato filosofo accetta. Evidente il richiamo ai moralisti dell'antichità, in particolare Plutarco e Luciano di Samosata con cui la Circe ha più di un'analogia.