Torquato Tasso
Rinaldo vince gli incanti della selva
(Gerusalemme Liberata, XVIII, 17-39)
Rinaldo è stato liberato dagli incanti della maga Armida che l'ha tenuto prigioniero nel suo giardino sulle isole Fortunate, e ora è tornato a Gerusalemme dove ha ottenuto il perdono di Goffredo e ha trascorso una notte di meditazione sul Monte Oliveto: il giovane crociato è pronto ad affrontare gli incanti della selva di Saron, dopo che tutti i suoi compagni (incluso Tancredi) ne sono usciti sconfitti. I demoni della foresta gli riservano un trattamento alquanto diverso, dal momento che a lui non si presentano inizialmente mostri o apparizioni spaventose, bensì un "locus amoenus" del tutto simile al giardino di Armida e poi una falsa apparizione di quest'ultima, che cerca di irretirlo con una scena di perfetta seduzione. Rinaldo non si lascia però fuorviare e riesce a superare la prova, completando così il suo percorso di maturazione personale (non più giovane impulsivo e irruento, ma neppure schiavo d'amore nelle mani della maga) e dando un contributo decisivo per la vittoria finale (grazie alla legna della selva di Saron, infatti, i cristiani potranno ricostruire la torre d'assedio bruciata da Clorinda e Argante).
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
17
Il bel candor de la mutata vesta egli medesmo riguardando ammira, poscia verso l’antica alta foresta con secura baldanza i passi gira. Era là giunto ove i men forti arresta solo il terror che di sua vista spira; pur né spiacente a lui né pauroso il bosco par, ma lietamente ombroso. 18 Passa piú oltre, e ode un suono intanto che dolcissimamente si diffonde. Vi sente d’un ruscello il roco pianto e ‘l sospirar de l’aura infra le fronde e di musico cigno il flebil canto e l’usignol che plora e gli risponde, organi e cetre e voci umane in rime: tanti e sí fatti suoni un suono esprime. 19 Il cavalier, pur come a gli altri aviene, n’attendeva un gran tuon d’alto spavento, e v’ode poi di ninfe e di sirene, d’aure, d’acque, d’augei dolce concento, onde meravigliando il piè ritiene, e poi se ‘n va tutto sospeso e lento; e fra via non ritrova altro divieto che quel d’un fiume trapassante e cheto. 20 L’un margo e l’altro del bel fiume, adorno di vaghezze e d’odori, olezza e ride. Ei stende tanto il suo girevol corno che tra ‘l suo giro il gran bosco s’asside, né pur gli fa dolce ghirlanda intorno, ma un canaletto suo v’entra e ‘l divide: bagna egli il bosco e ‘l bosco il fiume adombra con bel cambio fra lor d’umore e d’ombra. 21 Mentre mira il guerriero ove si guade, ecco un ponte mirabile appariva: un ricco ponte d’or che larghe strade su gli archi stabilissimi gli offriva. Passa il dorato varco, e quel giú cade tosto che ‘l piè toccata ha l’altra riva; e se ne ‘l porta in giú l’acqua repente, l’acqua ch’è d’un bel rio fatta un torrente. 22 Ei si rivolge e dilatato il mira e gonfio assai quasi per nevi sciolte, che ‘n se stesso volubil si raggira con mille rapidissime rivolte. Ma pur desio di novitade il tira a spiar tra le piante antiche e folte, e ‘n quelle solitudini selvagge sempre a sé nova meraviglia il tragge. 23 Dove in passando le vestigia ei posa, par ch’ivi scaturisca o che germoglie: là s’apre il giglio e qui spunta la rosa, qui sorge un fonte, ivi un ruscel si scioglie, e sovra e intorno a lui la selva annosa tutte parea ringiovenir le foglie; s’ammolliscon le scorze e si rinverde piú lietamente in ogni pianta il verde. 24 Rugiadosa di manna era ogni fronda, e distillava de le scorze il mèle, e di novo s’udia quella gioconda strana armonia di canto e di querele; ma il coro uman, ch’a i cigni, a l’aura, a l’onda facea tenor, non sa dove si cele: non sa veder chi formi umani accenti, né dove siano i musici stromenti. 25 Mentre riguarda, e fede il pensier nega a quel che ‘l senso gli offeria per vero, vede un mirto in disparte, e là si piega ove in gran piazza termina un sentiero. L’estranio mirto i suoi gran rami spiega, piú del cipresso e de la palma altero, e sovra tutti gli arbori frondeggia; ed ivi par del bosco esser la reggia. 26 Fermo il guerrier ne la gran piazza, affisa a maggior novitate allor le ciglia. Quercia gli appar che per se stessa incisa apre feconda il cavo ventre e figlia, e n’esce fuor vestita in strana guisa ninfa d’età cresciuta (oh meraviglia!); e vede insieme poi cento altre piante cento ninfe produr dal sen pregnante. 27 Quai le mostra la scena o quai dipinte tal volta rimiriam dèe boscareccie, nude le braccia e l’abito succinte, con bei coturni e con disciolte treccie, tali in sembianza si vedean le finte figlie de le selvatiche corteccie; se non che in vece d’arco o di faretra, chi tien leuto, e chi viola o cetra. 28 E cominciàr costor danze e carole, e di se stesse una corona ordiro e cinsero il guerrier, sí come sòle esser punto rinchiuso entro il suo giro. Cinser la pianta ancora, e tai parole nel dolce canto lor da lui s’udiro: «Ben caro giungi in queste chiostre amene o de la donna nostra amore e spene. 29 Giungi aspettato a dar salute a l’egra, d’amoroso pensiero arsa e ferita. Questa selva che dianzi era sí negra, stanza conforme a la dolente vita, vedi che tutta al tuo venir s’allegra e ‘n piú leggiadre forme è rivestita.» Tale era il canto; e poi dal mirto uscia un dolcissimo tuono, e quel s’apria. 30 Già ne l’aprir d’un rustico sileno meraviglie vedea l’antica etade, ma quel gran mirto da l’aperto seno imagini mostrò piú belle e rade: donna mostrò ch’assomigliava a pieno nel falso aspetto angelica beltade. Rinaldo guata, e di veder gli è aviso le sembianze d’Armida e il dolce viso. 31 Quella lui mira in un lieta e dolente: mille affetti in un guardo appaion misti. Poi dice: «Io pur ti veggio, e finalmente pur ritorni a colei da chi fuggisti. A che ne vieni? a consolar presente le mie vedove notti e i giorni tristi? o vieni a mover guerra, a discacciarme, che mi celi il bel volto e mostri l’arme? 32 giungi amante o nemico? Il ricco ponte io già non preparava ad uom nemico, né gli apriva i ruscelli, i fior, la fonte, sgombrando i dumi e ciò ch’a’ passi è intrico. Togli questo elmo omai, scopri la fronte e gli occhi a gli occhi miei, s’arrivi amico; giungi i labri a le labra, il seno al seno, porgi la destra a la mia destra almeno.» 33 Seguia parlando, e in bei pietosi giri volgeva i lumi e scoloria i sembianti, falseggiando i dolcissimi sospiri e i soavi singulti e i vaghi pianti, tal che incauta pietade a quei martíri intenerir potea gli aspri diamanti; ma il cavaliero, accorto sí, non crudo, piú non v’attende, e stringe il ferro ignudo. 34 Vassene al mirto; allor colei s’abbraccia al caro tronco, e s’interpone e grida: «Ah non sarà mai ver che tu mi faccia oltraggio tal, che l’arbor mio recida! Deponi il ferro, o dispietato, o il caccia pria ne le vene a l’infelice Armida: per questo sen, per questo cor la spada solo al bel mirto mio trovar può strada.» 35 Egli alza il ferro, e ‘l suo pregar non cura; ma colei si trasmuta (oh novi mostri!) sí come avien che d’una altra figura, trasformando repente, il sogno mostri. Cosí ingrossò le membra, e tornò oscura la faccia e vi sparír gli avori e gli ostri; crebbe in gigante altissimo, e si feo con cento armate braccia un Briareo. 36 Cinquanta spade impugna e con cinquanta scudi risuona, e minacciando freme. Ogn’altra ninfa ancor d’arme s’ammanta, fatta un ciclope orrendo; ed ei non teme: raddoppia i colpi e la difesa pianta che pur, come animata, a i colpi geme. Sembran de l’aria i campi i campi stigi, tanti appaion in lor mostri e prodigi. 37 Sopra il turbato ciel, sotto la terra tuona: e fulmina quello, e trema questa; vengono i venti e le procelle in guerra, e gli soffiano al volto aspra tempesta. Ma pur mai colpo il cavalier non erra, né per tanto furor punto s’arresta; tronca la noce: è noce, e mirto parve. Qui l’incanto forní, sparír le larve. 38 Tornò sereno il cielo e l’aura cheta, tornò la selva al natural suo stato: non d’incanti terribile né lieta, piena d’orror ma de l’orror innato. Ritenta il vincitor s’altro piú vieta ch’esser non possa il bosco omai troncato; poscia sorride, e fra sé dice: "Oh vane sembianze! e folle chi per voi rimane!" 39 Quinci s’invia verso le tende, e intanto colà gridava il solitario Piero: «Già vinto è de la selva il fero incanto, già se ‘n ritorna il vincitor guerriero: vedilo.» Ed ei da lunge in bianco manto comparia venerabile e severo, e de l’aquila sua l’argentee piume splendeano al sol d’inusitato lume. |
Lui stesso ammira guardando il bel colore bianco della sua armatura mutata [resa bianca dalla rugiada del mattino], poi volge i suoi passi con sicurezza e coraggio verso l'antica e profonda foresta. Era giunto là dove i più paurosi sono fermati solo dal terrore che proviene dalla vista del bosco; eppure a lui il bosco non sembra né spiacevole né pauroso, ma pieno di liete ombre. Passa oltre e intanto sente un suono che si diffonde con straordinaria dolcezza. Sente il rauco mormorio di un ruscello e il sospirare del vento tra le fronde, e il lamentoso canto di un cigno melodioso, e l'usignolo che piange e gli risponde, [il suono di] organi, cetre e voci umane in rima; un solo suono esprime tanti suoni di questo genere. Il cavaliere, proprio come succedeva agli altri, si aspettava un suono spaventoso simile al tuono, invece sente una dolce armonia di ninfe e sirene, di aria, d'acqua, di uccelli, per cui meravigliato trattiene il passo, poi prosegue lentamente ed esitante; e lungo la strada non trova altro ostacolo che non quello di un fiume che scorre quietamente. Entrambe le rive del bel fiume, adornate di piante e fiori, profuma e sorride. Il corso d'acqua distende il suo percorso curvo a tal punto che nella sua ampia ansa trova spazio tutto il gran bosco, ma un canaletto penetra all'interno e lo divide: il fiume bagna il bosco e il bosco fa ombra al fiume, con reciproco scambio tra essi di acqua e ombra. Mentre il guerriero guarda dove si può guadare, ecco che apparve in modo prodigioso un ponte: un ricco ponte d'oro che gli offriva un ampio passaggio sugli archi solidissimi. Egli supera il varco dorato e il ponte crolla non appena il suo piede ha toccato la riva opposta; e l'acqua se lo porta via in un attimo, l'acqua che non è più un bel ruscello ma si è fatta un torrente. Rinaldo si volta e lo vede dilatato e gonfiato per nevi sciolte, che si gira su se stesso vorticoso con mille rapidissime mutazioni. Ma pure il desiderio di novità lo spinge a cercare tra le antiche e folte piante, e una meraviglia sempre nuova lo attira in quelle selvagge solitudini. Laddove, passando, posa il piede, sembra che nasca uno zampillo d'acqua o germoglino piante: là spunta il giglio e qui la rosa, qui scaturisce una fonte, lì sgorga un ruscello, e al di sopra e intorno a lui l'antica selva sembra rinnovare tutte le sue foglie; le cortecce degli alberi si ammorbidiscono e in ogni pianta il verde diventa più lieto e acceso. Ogni fronda stillava manna e dalle cortecce colava già il miele, e nuovamente si udiva quella piacevole e strana armonia di canto e lamenti; ma il coro di voci umane, che accompagnava i cigni, il vento e l'acqua, non sa dove si nasconda: non riesce a vedere chi produca voci umane, né dove siano gli strumenti musicali. Mentre osserva, e la ragione non vuol credere a quel che i sensi gli presentano come reale, vede un mirto isolato e si dirige là dove un sentiero termina in un'ampia radura. Lo strano mirto dispiega i suoi grandi rami, più alto del cipresso e della palma, e distende le sue fronde sopra tutti gli altri alberi; e sembra che qui ci sia la reggia del bosco. Il guerriero, fermo in quella gran radura, fissa lo sguardo a novità più sorprendenti. Gli appare una quercia che, incisa di per sé e feconda, apre il suo ventre vuoto e partorisce, e ne esce fuori una ninfa già grande vestita stranamente (oh che meraviglia!); e vede poi altre cento piante che producono dal loro ventre gravido altrettante ninfe. Come le mostra la scena teatrale o come le ammiriamo talvolta dipinte quali dee boscherecce, con le braccia nude e l'abito succinto, con bei coturni e con le trecce sciolte, così all'apparenza si vedevano le false figlie delle cortecce selvatiche; se non che, al posto di arco e faretra, alcune di esse tengono un liuto, altre la viola o la cetra. E costoro iniziarono danze e caròle [balli in tondo], e formarono una corona con cui circondarono il guerriero, come di solito il centro è racchiuso in una circonferenza. Cinsero anche la pianta e Rinaldo udì da loro tali parole nel loro dolce canto: «O amore e speranza della nostra signora, tu giungi ben caro in questi luoghi isolati e ameni. Arrivi aspettato a dare salute all'ammalata, arsa e ferita da un pensiero amoroso. Questa selva che poco fa era così scura, luogo conforme alla sua vita dolorosa, vedi che al tuo arrivo si rallegra tutta ed è rivestita da forme più leggiadre». Tale era il canto; e poi dal mirto uscì un dolcissimo tuono e la pianta si aprì. Un tempo gli antichi vedevano meraviglie quando si apriva un rustico sileno [un'immagine di satiro che nascondeva idoli di divinità], ma quel gran mirto dal suo ventre aperto mostrò immagini ancor più belle e rare: mostrò una donna che assomigliava in ogni dettaglio, pur nel suo falso aspetto, a una bellezza angelica. Rinaldo guarda e gli sembra di vedere le sembianze e il dolce viso di Armida. Lei lo guarda, al contempo lieta e addolorata: nel suo sguardo appaiono mescolati mille affetti. Poi dice: «Io ti vedo e finalmente torni da colei dalla quale sei fuggito. Perché vieni qui? Per consolare con la tua presenza le mie notti solitarie e i miei giorni tristi? O vieni a portare guerra, a cacciarmi, sì che mi celi il bel volto e mi mostri le armi? Giungi come amante o nemico? Io non ho preparato il ricco ponte a un nemico, né per un nemico ho fatto nascere i ruscelli, i fiori, la fonte, sgombrando i rovi e ciò che ostacola il cammino. Togliti il tuo elmo, adesso, scopri il tuo volto e mostra i tuoi occhi ai miei, se arrivi come amico; unisci le tue labbra alle mie, il tuo petto al mio, porgi almeno la tua mano destra alla mia destra» Proseguiva a parlare e faceva ruotare gli occhi in bei giri pietosi, e scoloriva il suo volto, simulando i dolcissimi sospiri e i soavi singhiozzi e i bei pianti, in modo tale che un'incauta pietà avrebbe potuto, di fronte a quelle pene, intenerire cuori duri come diamanti; ma il cavaliere, accorto e non crudele, non vi bada più e impugna la nuda spada. Rinaldo va verso il mirto; allora lei si avvinghia al caro tronco e si interpone [tra esso e la spada] e grida: «Ah, non sarà mai vero che tu mi faccia un simile oltraggio e abbatta il mio albero! Deponi la spada, ormai, oppure, da uomo spietato, caccialo prima nel corpo dell'infelice Armida: la spada può trovare la strada al mio bel mirto solo attraverso questo petto, questo cuore». Egli alza la spada e non si cura delle sue preghiere; ma lei si trasforma (oh che orrendi mostri!) proprio come quando il sogno con rapido mutamento mostra una figura da cui ne nasce un'altra. Così [la donna] ingrossò le sue membra e la faccia tornò scura e vi sparirono il bianco e il roseo; crebbe fino a diventare un altissimo gigante e con cento armate braccia divenne un Briareo [gigante centimano della mitologia classica]. Impugna cinquanta spade e risuona con cinquanta scudi, e freme minacciando. Anche tutte le altre ninfe si coprono di armi, diventate orrendi ciclopi; e Rinaldo non ha paura: raddoppia i colpi alla pianta difesa che pure, come se fosse animata, geme ai colpi. I campi dell'aria [il cielo] sembrano quelli dell'inferno, tanti mostri e prodigi appaiono in essi. Sopra tuona il cielo turbato e sotto la terra: e quello fulmina, questa trema; i venti e le tempeste vengono a far guerra e soffiano impetuosamente sul suo volto. Eppure il cavaliere non sbaglia mai un colpo, né mai si arresta per tanto furore; abbatte il noce: è un noce, anche se sembrava un mirto. Qui finì l'incanto, svanirono i fantasmi. Il cielo tornò sereno e l'aria quieta, e la selva tornò al suo stato naturale: non terribile di incanti e neppure lieta, piena di orrore, ma dell'orrore innato. Il vincitore [Rinaldo] verifica se ci siano altri ostacoli a che il bosco possa essere abbattuto; poi sorride, e dice fra sé: "Oh vane apparizioni! e folle chi si lascia fermare da voi!" Da qui si dirige verso il campo cristiano e intanto là gridava Pietro l'eremita: «Il feroce incanto della selva è ormai vinto, ecco il guerriero che ritorna vincitore: guardalo». E Rinaldo compariva da lontano con la bianca armatura, degno di venerazione e austero, e le piume argentee della sua aquila [lo stemma del casato estense] risplendevano al sole con una luce insolita. |
Interpretazione complessiva
- Protagonista dell'episodio è Rinaldo, il campione dei crociati che completa il suo percorso di maturazione personale dopo essersi allontanato dai suoi doveri di guerriero nella prima parte del poema: liberato dalla prigionia dorata del giardino di Armida, il giovane chiede perdono a Goffredo (e a Dio) dei suoi peccati e supera i limiti adolescenziali che lo avevano caratterizzato in precedenza, specie la sua indole irruenta e ribelle che lo aveva indotto ad allontanarsi dal campo dopo l'uccisione di Gernando. Guidato da Pietro l'eremita, Rinaldo può compiere la sua purificazione sul Monte Oliveto (che è soprattutto l'abbandono dei peccaminosi allettamenti amorosi) ed è pronto ad affrontare gli incanti della selva di Saron, con una trasformazione che è sottolineata anche dal colore candido assunto dall'armatura per effetto della rugiada mattutina.
- Gli incanti diabolici della selva riservano a Rinaldo un trattamento del tutto diverso rispetto ai compagni che l'hanno preceduto: la foresta non mostra immagini orride e mostruose, bensì assume un sereno aspetto di locus amoenus che riproduce il "paradiso" del giardino di Armida e tenta il guerriero sul piano dell'abbandono dei sensi, ovvero su quello che è stato almeno in parte il suo punto debole. Rinaldo è infatti accolto da una dolce melodia in cui si mescola il suono del vento, dell'acqua, degli uccelli e di cantori umani invisibili (ott. 18-19), vede un limpido fiume reso ombroso dalla fitta boscaglia (20) e compare magicamente un ponte dorato che gli consente di attraversarlo e che scompare subito dopo (21); ai suoi passi sbocciano fiori e scaturiscono fonti d'acqua (23), mentre gli alberi stillano manna e miele come se questo fosse una sorta di Eden artificiale frutto dell'opera dei demoni. La scena è appositamente studiata per riprodurre le delizie del giardino di Armida in cui Rinaldo è stato schiavo d'amore della bella maga, inducendolo vanamente a desistere dall'impresa di abbattere le piante della foresta (► TESTI: Il giardino di Armida; L'amore di Rinaldo e Armida).
- La comparsa della falsa Armida (quella vera in questo momento è insieme all'esercito che dall'Egitto marcia verso la Palestina) è preceduta dall'apparizione di bellissime ninfe che erompono magicamente dalla corteccia degli alberi, proprio come le ninfe boscherecce della tradizione classica: non impugnano armi bensì strumenti musicali e intrecciano una danza per irretire Rinaldo, di fronte al quale si presenta una scena di sapore fortemente teatrale e coreografico, come sottolineato dall'autore all'ott. 27 (" Quai le mostra la scena o quai dipinte / tal volta rimiriam dèe boscareccie..."). Al centro della radura si erge solitario un mirto, pianta simbolo dell'amore e sacra alla dea Venere, da cui fuoriesce la falsa Armida che inizia subito a sedurre Rinaldo mescolando abilmente risentimento e pose svenevoli, "falseggiando i dolcissimi sospiri" (33): si tratta di una superba finzione, come del resto frutto di finzione era pure l'amore di Rinaldo per la vera maga, infatti il giovane resta insensibile cominciando ad abbattere con la spada il mirto (che alla fine si rivelerà un noce, pianta demoniaca e simbolo dei "sabba" delle streghe). La scena è simile a quella in cui Tancredi aveva cercato di abbattere il cipresso, salvo che da esso era uscito sangue e la voce di una falsa Clorinda, dunque l'episodio presentava risvolti inquietanti molto lontani dalla piacevolezza di questa scena (► TESTO: Tancredi nella selva di Saron).
- Alla fine dell'episodio tutte le delizie della selva si trasformano in apparizioni mostruose e diaboliche, con la falsa Armida che diventa un orribile Briareo (il gigante con cento mani e cento occhi della mitologia greca) e le ninfe che si convertono in altrettanti ciclopi, mentre cielo e terra sono sconvolti da tempeste e terremoti nel tentativo di spaventare Rinaldo: questi però non si lascia intimorire e infatti le manifestazioni demoniache non hanno il potere di toccarlo, come dimostra il fatto che, una volta abbattuto l'albero, tutto scompare e la selva torna "piena d’orror ma de l’orror innato" (ott. 38). Rinaldo vince gli incanti della selva perché prima ha superato le sue debolezze e i limiti del suo carattere, cosa che non aveva fatto Tancredi il quale, infatti, non era riuscito a vincere il rimorso per l'uccisione di Clorinda nel duello notturno. L'episodio segna anche il definitivo trionfo della sfera religiosa e dei doveri militari verso tutti gli allettamenti del peccato che avevano distolto i crociati dalla loro missione, infatti Rinaldo le definisce "vane / sembianze" (ott. 38) e chiama "folle" chi è trattenuto da esse nel compimento del proprio dovere, mentre nei canti finali del poema nulla potrà impedire ai crociati di conquistare il Santo Sepolcro.