Letteratura italiana
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Niccolò Machiavelli


L'origine della crisi italiana
(Il principe, XXIV)

Il capitolo affronta come il seguente, il XXV con cui forma una sorta di "dittico", il tema delicato della crisi degli Stati italiani all'inizio del Cinquecento e individua la causa prima del loro declino politico e militare non già nella fortuna, quanto nella "ignavia" dei principi italiani, poco solleciti a prendere gli opportuni provvedimenti per prevenire le invasioni di eserciti stranieri e, soprattutto, troppo inclini ad affidarsi alle soldatesche mercenarie del tutto svalutate da Machiavelli (il tema sarà sviluppato anche nel cap. successivo e in altre opere dello scrittore, specie nel dialogo "Dell'arte della guerra").

► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli

► OPERA: Il principe










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CAPITOLO XXIV
Cur Italiae principes regnum amiserunt. [1]

Le cose soprascritte [2], osservate prudentemente, fanno parere, uno principe nuovo, antico e lo rendono subito più securo e più fermo nello stato, che se vi fussi antiquato drento. [3] Perché uno principe nuovo è molto più osservato nelle sue azioni che uno ereditario; e quando le sono conosciute virtuose, pigliano [4] molto più gli uomini e molto più gli obligano che il sangue antico. Perché gli uomini sono molto più presi dalle cose presenti che dalle passate; e quando nelle presenti truovono il bene, vi si godono e non cercano altro; anzi, piglieranno ogni difesa per lui, quando non manchi nelle altre cose a sé medesimo. E così arà duplicata gloria, di avere dato principio a uno principato nuovo, e ornatolo e corroboratolo di buone legge di buone arme e di buoni esempli, come quello ha duplicata vergogna, che, nato principe, lo ha per sua poca prudenzia perduto.
E se si considerrà quelli signori che in Italia hanno perduto lo stato a’ nostri tempi, come il re di Napoli [5], duca di Milano [6], e altri, si troverrà in loro prima, uno comune defetto quanto alle armi, per le cagioni che di sopra a lungo si sono discorse [7]; di poi, si vedrà alcuno di loro o che arà avuto inimici e’ populi, o, se arà avuto el populo amico, non si sarà saputo assicurare de’ grandi: perché, sanza questi difetti, non si perdono li stati che abbino tanto nervo che possino tenere uno esercito alla campagna. [8] Filippo Macedone, non il padre di Alessandro, ma quello che fu vinto da Tito Quinto [9], aveva non molto stato, respetto alla grandezza de’ Romani e di Grecia che lo assaltò: nondimanco, per essere uomo militare e che sapeva intrattenere el populo e assicurarsi de’ grandi, sostenne più anni la guerra contro a quelli, e se alla fine perdé il dominio di qualche città, li rimase nondimanco el regno.
Pertanto, questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo di poi perso non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perché, non avendo mai ne’ tempi quieti pensato che possono mutarsi (il che è comune defetto degli uomini, non fare conto, nella bonaccia, della tempesta), quando poi vennono i tempi avversi, pensorono a fuggirsi e non a defendersi; e sperorono che e’ populi, infastiditi dalla insolenzia de’ vincitori, gli richiamassino. Il quale partito, quando mancono gli altri, è buono; ma è bene male avere lasciati gli altri remedii per quello: perché non si vorrebbe mai cadere, per credere di trovare chi ti ricolga; il che, o non avviene, o, s’egli avviene, non è con tua sicurtà [10], per essere quella difesa suta vile e non dependere da te. E quelle difese solamente sono buone, sono certe, sono durabili, che dependono da te proprio e dalla virtù tua.

[1] Perché i principi di Italia persero il loro regno.
[2] Le cose dette nei capp. precedenti
. [3] Di un principe che lo gestisca da molto tempo.
[4] Colpiscono, adescano.





[5] Federico d'Aragona.
[6] Ludovico il Moro. [7]
Per essersi affidati alle milizie mercenarie.
[8] Che abbiano tante risorse da poter schierare un esercito in battaglia. [9] Filippo V di Macedonia (221-179 a.C.), sconfitto a Cinocefale dal console romano Tito Quinzio Flaminino.





[10] Non avviene con la tua sicurezza.



Interpretazione complessiva

  • Il passo propone un bilancio del gruppo di capitoli (XV-XXIII) in cui Machiavelli ha delineato le qualità del principe e ha dettato i precetti per mantenere saldo lo Stato, aprendo subito dopo la riflessione sulle cause del declino politico-militare dei principati italiani agli inizi del XVI sec. e della caduta di molti sovrani in seguito alla discesa di Carlo VIII e alle successive guerre tra eserciti stranieri in Italia: lo scrittore non ha dubbi nell'affermare che la colpa di ciò non è della "fortuna", meno che mai intesa come un disegno o una punizione di Dio, bensì nella "ignavia" dei sovrani italiani, poco solleciti nell'organizzare le proprie forze militari e del tutto impreparati ad affrontare l'urto con le soldatesche straniere, come negli esempi citati di Federico d'Aragona, che perse il regno di Napoli a vantaggio di Ferdinando il Cattolico, e di Ludovico il Moro, che fu scalzato dal ducato milanese. Machiavelli torna per l'ennesima volta sulla questione delle milizie mercenarie, che lui critica considerandole poco affidabili rispetto a quelle cittadine (► TESTO: Le milizie mercenarie), mentre anche nel cap. successivo svilupperà ulteriormente il discorso e dirà che i principi d'Italia non hanno eretto "argini" per prevenire l'esondazione del fiume, da intendersi fuor di metafora come la costituzione di eserciti cittadini (► TESTO: Il principe e la fortuna). Fondamentale in questo passo anche l'affermazione che il buon principe deve premunirsi contro i possibili rovesci della sorte anche nei momenti di quiete, attraverso la metafora della "bonaccia" e della "tempesta", che è parte della riflessione dell'autore sulla fortuna (intesa come capriccio del caso, non certo come espressione di un potere superiore) e che ha visto un esempio importante nella parabola di Cesare Borgia, che cadde proprio per la scarsa capacità di prevenire i colpi della sventura (► TESTO: L'esempio di Cesare Borgia).
  • L'autore propone a sostegno delle sue affermazioni l'esempio antico di Filippo V di Macedonia, il sovrano sconfitto dal console romano Tito Quinzio Flaminino nel 197 a.C. a Cinocefale, in Tessaglia, e che mantenne comunque il regno, secondo Machiavelli grazie alla sua capacità militare e alla politica di "equilibrio" tra aristocrazia e popolo, aspetto che si riallaccia a quanto affermato nel cap. IX del trattato (► TESTO: Il conflitto sociale). In realtà Filippo si mantenne sul trono perché risparmiato da Roma che in quella fase storica voleva influire politicamente sulla situazione della Grecia e non presentarsi come popolo invasore (da qui il famoso discorso con cui Flaminino proclamò la libertà delle poleis a Corinto, durante i Giochi Istmici nel 196 a.C.), per cui anche in questo caso l'analisi dello scrittore appare piuttosto libresca e non fondata su solide conoscenze storiche del periodo.

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