Francesco Petrarca
L'ascensione del Monte Ventoso
(Familiares, IV, 1)
La lettera, indirizzata al frate agostiniano Dionigi di Borgo S. Sepolcro consigliere spirituale dell'autore, racconta l'escursione compiuta da Francesco e dal fratello Gherardo sul Mont Ventoux, una cima della Provenza particolarmente difficile da scalare a causa della sua ripidezza: mentre l'ascesa di Gherardo è agevole e procede speditamente lungo i sentieri più erti, Francesco arranca e si attarda lungo strade meno scoscese, fatto che viene interpretato in senso allegorico come la difficoltà del poeta a elevarsi verso le cose superiori perché trascinato in basso dalle lusinghe mondane (il fratello nel 1343 divenne monaco, scelta che turbò non poco lo scrittore aretino). Giunto faticosamente in vetta, Petrarca apre a caso il libro di S. Agostino che porta sempre con sé (le "Confessioni") e la lettura del passo che cade sotto i suoi occhi lo spinge a ulteriori più profonde riflessioni su se stesso.
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Francesco Petrarca
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Francesco Petrarca
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A DIONIGI DA BORGO SAN SEPOLCRO, DELL’ORDINE DI SANT’AGOSTINO, PROFESSORE DELLA SACRA PAGINA. SUI PROPRI AFFANNI. Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso [1]. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall'infanzia e questo monte, che a bell'agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. [...]
Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena [2], alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che "l'ostinata fatica vince ogni cosa". [3] Il giorno lungo, l'aria mite, l'entusiasmo, il vigore, l'agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant'anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi - così sono i giovani, restii ad ogni consiglio - il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell'inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po' tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani. Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che ci potevano essere d'impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci incamminiamo alacremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall'altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l'inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l'alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l'altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. [...] C'è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il "Figliuolo"; perché non so dirti; se non forse per antifrasi, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c'è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. [...] Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. "Oggi - mi dicevo - si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna [4]: Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell'ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di Agostino: 'Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell'anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio'. [5] Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta [6]: 'Ti odierò, se posso; se no, t'amerò contro voglia'. [...] Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d'aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m'ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l'ombra del monte s'allungava. [...] Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l'anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell'autore e di chi me l'ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d'infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott'occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: "e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi". [7] Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell'ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l'anima, di fronte alla cui grandezza non c'è nulla di grande. [Traduzione a cura di G. Bellini e G. Mazzoni, Laterza] |
[1] Il Mont Ventoux (1912 m.) si trova vicino a Valchiusa, nei luoghi dove Petrarca aveva trascorso gli anni giovanili. [2] È un piccolo centro vicino Valchiusa (Malaucène). [3] Verso delle Georgiche di Virgilio: labor omnia vicit (I, 145-146). [4] Petrarca lasciò gli studi bolognesi dopo la morte del padre, nel 1326, per cui la lettera sarebbe stata scritta nel 1336 (ma è probabile che l'abbia rimaneggiata più tardi). [5] Confessioni, II, 1. [6] Ovidio, Amores, III, 35. [7] Confessioni, X, 8. |
Interpretazione complessiva
- La lettera, tratta dalla raccolta delle Familiares, ha come destinatario il padre agostiniano Dionigi di Borgo S. Sepolcro, professore di teologia a Parigi e qui conosciuto dall'autore nel 1333: il religioso era il consigliere spirituale di Petrarca e gli aveva donato una copia delle Confessioni di S. Agostino, opera scoperta tardivamente ma che ebbe su di lui una grande influenza. L'aneddoto narrato è la scalata del Monte Ventoso compiuta insieme al fratello Gherardo nel 1336, almeno stando alle indicazioni della lettera (è il decimo anniversario dell'abbandono degli studi bolognesi, avvenuto il 26 apr. 1326), anche se molti indizi fanno ritenere che il testo sia stato rimaneggiato molto più tardi, dopo la monacazione del fratello (e secondo alcuni l'arrampicata sarebbe un fatto totalmente inventato). Certo l'ascesa del monte assume valore allegorico, dal momento che Gherardo sale speditamente al contrario di Francesco che arranca e sceglie sentieri meno ripidi, che rappresentano le lusinghe terrene che trascinano il poeta verso il basso; lo stesso personaggio del pastore acquista un senso simbolico, dal momento che egli cerca di dissuadere i due fratelli dal compiere la faticosa impresa, piena di rischi e dall'incerto esito finale.
- Il passo è pieno di rimandi alla letteratura classica, anzitutto a poeti come Virgilio e Ovidio (tra i modelli più importanti per Petrarca, specie l'autore dell'Eneide) e poi anche a storici come Tito Livio, citato in un passaggio qui non riportato in cui c'è un riferimento al passaggio di Annibale attraverso le Alpi nel 218 a.C. Particolarmente significativo il verso di Ovidio tratto dagli Amores (Odero, si potero; si non, invitus amabo), che esprime assai bene il tormento interiore dell'autore che si rende conto della vanità delle lusinghe del mondo, tuttavia non può evitare di seguirle e di esserne attratto; di significato analogo anche la citazione dalle Confessioni di S. Agostino, in cui lo scrittore cristiano deplora gli uomini che viaggiano per "contemplare le cime dei monti" e non sanno leggere dentro se stessi, cosa che Petrarca non può non attribuire al suo caso (anche Agostino nell'opera raccontava di aver aperto a caso il libro delle lettere di S. Paolo e di aver letto un brano illuminante per lui, quello citato dallo stesso Petrarca più avanti nella lettera).
- S. Agostino e la sua opera esercitarono un profondo influsso su Petrarca e lo scrittore latino compare anche come interlocutore nel Secretum, dialogo in cui il santo rimprovera all'autore le sue debolezze e, attraverso la sua abilità dialettica, riesce a indurlo ad ammettere i suoi errori, anche se Francesco alla fine non riesce a prendere la decisione di cambiare radicalmente vita. In un passo del libro III Agostino rinfaccia a Petrarca la vanità del suo amore per Laura e la conclusione dell'autore è molto simile a quella cui giunge nella parte finale della lettera, quando afferma "amo tuttavia, ma contro voglia" (► TESTO: L'amore per Laura).
- La passione di Petrarca per le escursioni in luoghi dalla natura selvaggia e in particolare per le arrampicate montane è un dato biografico che si ricava, oltre che da questa lettera, anche da alcuni componimenti tra cui la canzone 129 del Canzoniere, in cui il poeta dice di ricercare appositamente luoghi solitari per evitare il contatto con altre persone che potrebbero capire la sua passione per Laura, e dove alla fine racconta di salire sul "più expedito giogo" (una cima alta e panoramica) per ammirare il paesaggio sottostante e riflettere sulla distanza tra lui e Laura, situazione che ricorda molto quella della lettera (► TESTO: Di pensier in pensier, di monte in monte).