Torquato Tasso
Il giardino di Armida
(Gerusalemme Liberata, XV, 53-66; XVI, 1-16)
Protagonisti di questo passo sono Carlo e Ubaldo, i due guerrieri crociati che il mago di Ascalona ha inviato sulle Isole Fortunate (dove ha sede il palazzo della maga Armida) per liberare Rinaldo dalla sua dorata prigionia, nella quale è trattenuto dagli incanti della donna: dopo aver superato le fiere e gli ostacoli posti dalla maga intorno alla propria dimora, i due penetrano nel meraviglioso giardino in cui sorge il palazzo e dove si offre ai loro occhi un meraviglioso spettacolo frutto degli incanti diabolici, ricco di tentazioni di carattere amoroso tra cui belle nuotatrici nude che li invitano a fermarsi con loro, nonché un pappagallo che fa un seduttivo discorso sulla fugacità della giovinezza e la necessità di non sprecarla rifiutando l'amore. Nonostante le molte lusinghe, tuttavia, i due paladini restano saldi nei loro propositi e giungeranno nei pressi del palazzo di Armida, dove questa è in compagnia del suo amante trasformato in uno "schiavo d'amore".
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
XV, 53
Ma poi che già le nevi ebber varcate e superato il discosceso e l’erto, un bel tepido ciel di dolce state trovaro, e ‘l pian su ‘l monte ampio ed aperto. Aure fresche mai sempre ed odorate vi spiran con tenor stabile e certo, né i fiati lor, sí come altrove sòle sopisce o desta, ivi girando, il sole; 54 né, come altrove suol, ghiacci ed ardori nubi e sereni a quelle piaggie alterna, ma il ciel di candidissimi splendori sempre s’ammanta e non s’infiamma o verna, e nudre a i prati l’erba, a l’erba i fiori, a i fior l’odor, l’ombra a le piante eterna. Siede su ‘l lago e signoreggia intorno i monti e i mari il bel palagio adorno. 55 I cavalier per l’alta aspra salita sentiansi alquanto affaticati e lassi, onde ne gian per quella via fiorita lenti or movendo ed or fermando i passi. Quando ecco un fonte, che a bagnar gli invita l’asciutte labbia, alto cader da’ sassi e da una larga vena, e con ben mille zampilletti spruzzar l’erbe di stille. 56 Ma tutta insieme poi tra verdi sponde in profondo canal l’acqua s’aduna, e sotto l’ombra di perpetue fronde mormorando se ‘n va gelida e bruna, ma trasparente sí che non asconde de l’imo letto suo vaghezza alcuna; e sovra le sue rive alta s’estolle l’erbetta, e vi fa seggio fresco e molle. 57 «Ecco il fonte del riso, ed ecco il rio che mortali perigli in sé contiene. Or qui tener a fren nostro desio ed esser cauti molto a noi conviene: chiudiam l’orecchie al dolce canto e rio di queste del piacer false sirene, cosí n’andrem fin dove il fiume vago si spande in maggior letto e forma un lago.» 58 Quivi de’ cibi preziosa e cara apprestata è una mensa in su le rive, e scherzando se ‘n van per l’acqua chiara due donzellette garrule e lascive, ch’or si spruzzano il volto, or fanno a gara chi prima a un segno destinato arrive. Si tuffano talor, e ‘l capo e ‘l dorso scoprono alfin dopo il celato corso. 59 Mosser le natatrici ignude e belle de’ duo guerrieri alquanto i duri petti, sí che fermàrsi a riguardarle; ed elle seguian pur i lor giochi e i lor diletti. Una intanto drizzossi, e le mammelle e tutto ciò che piú la vista alletti mostrò dal seno in suso, aperto al cielo; e ‘l lago a l’altre membra era un bel velo. 60 Qual matutina stella esce de l’onde rugiadosa e stillante, o come fuore spuntò nascendo già da le feconde spume de l’ocean la dea d’amore, tal apparve costei, tal le sue bionde chiome stillavan cristallino umore. Poi girò gli occhi, e pur allor s’infinse que’ duo vedere e in sé tutta si strinse; 61 e ‘l crin, ch’in cima al capo avea raccolto in un sol nodo, immantinente sciolse, che lunghissimo in giú cadendo e folto d’un aureo manto i molli avori involse. Oh che vago spettacolo è lor tolto! ma non men vago fu chi loro il tolse. Cosí da l’acque e da’ capelli ascosa a lor si volse lieta e vergognosa. 62 Rideva insieme e insieme ella arrossia, ed era nel rossor piú bello il riso e nel riso il rossor che le copria insino al mento il delicato viso. Mosse la voce poi sí dolce e pia che fòra ciascun altro indi conquiso: «Oh fortunati peregrin, cui lice giungere in questa sede alma e felice! 63 Questo è il porto del mondo; e qui è il ristoro de le sue noie, e quel piacer si sente che già sentí ne’ secoli de l’oro l’antica e senza fren libera gente. L’arme, che sin a qui d’uopo vi foro, potete omai depor securamente e sacrarle in quest’ombra a la quiete, ché guerrier qui solo d’Amor sarete, 64 e dolce campo di battaglia il letto fiavi e l’erbetta morbida de’ prati. Noi menarenvi anzi il regale aspetto di lei che qui fa i servi suoi beati, che v’accorrà nel bel numero eletto di quei ch’a le sue gioie ha destinati. Ma pria la polve in queste acque deporre vi piaccia, e ‘l cibo a quella mensa tòrre.» 65 L’una disse cosí, l’altra concorde l’invito accompagnò d’atti e di sguardi, sí come al suon de le canore corde s’accompagnano i passi or presti or tardi. Ma i cavalieri hanno indurate e sorde l’alme a que’ vezzi perfidi e bugiardi, e ‘l lusinghiero aspetto e ‘l parlar dolce di fuor s’aggira e solo i sensi molce. 66 E se di tal dolcezza entro trasfusa parte penètra onde il desio germoglie, tosto ragion ne l’arme sue rinchiusa sterpa e riseca le nascenti voglie. L’una coppia riman vinta e delusa, l’altra se ‘n va, né pur congedo toglie. Essi entràr nel palagio, esse ne l’acque tuffàrsi: la repulsa a lor sí spiacque. XVI, 1 Tondo è il ricco edificio, e nel piú chiuso grembo di lui, ché quasi centro al giro, un giardin v’ha ch’adorno è sovra l’uso di quanti piú famosi unqua fioriro. D’intorno inosservabile e confuso ordin di loggie i demon fabri ordiro, e tra le oblique vie di quel fallace ravolgimento impenetrabil giace. 2 Per l’entrata maggior (però che cento l’ampio albergo n’avea) passàr costoro. Le porte qui d’effigiato argento su i cardini stridean di lucid’oro. Fermàr ne le figure il guardo intento, ché vinta la materia è dal lavoro: manca il parlar, di vivo altro non chiedi; né manca questo ancor, s’a gli occhi credi. 3 Mirasi qui fra le meonie ancelle favoleggiar con le conocchia Alcide. Se l’inferno espugnò, resse le stelle, or torce il fuso; Amor se ‘l guarda, e ride. Mirasi Iole con la destra imbelle per ischerno trattar l’armi omicide; e indosso ha il cuoio del leon, che sembra ruvido troppo a sí tenere membra. 4 D’incontra è un mare, e di canuto flutto vedi spumanti i suoi cerulei campi. Vedi nel mezzo un doppio ordine instrutto di navi e d’arme, e uscir da l’arme i lampi. D’oro fiammeggia l’onda, e par che tutto d’incendio marzial Leucate avampi. Quinci Augusto i Romani, Antonio quindi trae l’Oriente: Egizi, Arabi ed Indi. 5 Svelte notar le Cicladi diresti per l’onde, e i monti co i gran monti urtarsi; l’impeto è tanto, onde quei vanno e questi co’ legni torreggianti ad incontrarsi. Già volàr faci e dardi, e già funesti sono di nova strage i mari sparsi. Ecco (né punto ancor la pugna inchina) ecco fuggir la barbara reina. 6 E fugge Antonio, e lasciar può la speme de l’imperio del mondo ov’egli aspira. Non fugge no, non teme il fier, non teme, ma segue lei che fugge e seco il tira. Vedresti lui, simile ad uom che freme d’amore a un tempo e di vergogna e d’ira, mirar alternamente or la crudele pugna ch’è in dubbio, or le fuggenti vele. 7 Ne le latebre poi del Nilo accolto attender par in grembo a lei la morte, e nel piacer d’un bel leggiadro volto sembra che ‘l duro fato egli conforte. Di cotai segni variato e scolto era il metallo de le regie porte. I due guerrier, poi che dal vago obietto rivolser gli occhi, entràr nel dubbio tetto. 8 Qual Meandro fra rive oblique e incerte scherza e con dubbio corso or cala or monta, queste acque a i fonti e quelle al mar converte, e mentre ei vien, sé che ritorna affronta, tali e piú inestricabili conserte son queste vie, ma il libro in sé le impronta (il libro, don del mago) e d’esse in modo parla che le risolve, e spiega il nodo. 9 Poi che lasciàr gli aviluppati calli, in lieto aspetto il bel giardin s’aperse: acque stagnanti, mobili cristalli, fior vari e varie piante, erbe diverse, apriche collinette, ombrose valli, selve e spelonche in una vista offerse; e quel che ‘l bello e ‘l caro accresce a l’opre, l’arte, che tutto fa, nulla si scopre. 10 Stimi (sí misto il culto è co ‘l negletto) sol naturali e gli ornamenti e i siti. Di natura arte par, che per diletto l’imitatrice sua scherzando imiti. L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto, l’aura che rende gli alberi fioriti: co’ fiori eterni eterno il frutto dura, e mentre spunta l’un, l’altro matura. 11 Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia sovra il nascente fico invecchia il fico; pendono a un ramo, un con dorata spoglia, l’altro con verde, il novo e ‘l pomo antico; lussureggiante serpe alto e germoglia la torta vite ov’è piú l’orto aprico: qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’or l’have e di piropo e già di nèttar grave. 12 Vezzosi augelli infra le verdi fronde temprano a prova lascivette note; mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde garrir che variamente ella percote. Quando taccion gli augelli alto risponde, quando cantan gli augei piú lieve scote; sia caso od arte, or accompagna, ed ora alterna i versi lor la musica òra. 13 Vola fra gli altri un che le piume ha sparte di color vari ed ha purpureo il rostro, e lingua snoda in guisa larga, e parte la voce sí ch’assembra il sermon nostro. Questi ivi allor continovò con arte tanta il parlar che fu mirabil mostro. Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti, e fermaro i susurri in aria i venti. 14 «Deh mira» egli cantò «spuntar la rosa dal verde suo modesta e verginella, che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa, quanto si mostra men, tanto è piú bella. Ecco poi nudo il sen già baldanzosa dispiega; ecco poi langue e non par quella, quella non par che desiata inanti fu da mille donzelle e mille amanti. 15 Cosí trapassa al trapassar d’un giorno de la vita mortale il fiore e ‘l verde; né perché faccia indietro april ritorno, si rinfiora ella mai, né si rinverde. Cogliam la rosa in su ‘l mattino adorno di questo dí, che tosto il seren perde; cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando esser si puote riamato amando.» 16 Tacque, e concorde de gli augelli il coro, quasi approvando, il canto indi ripiglia. Raddoppian le colombe i baci loro, ogni animal d’amar si riconsiglia; par che la dura quercia e ‘l casto alloro e tutta la frondosa ampia famiglia, par che la terra e l’acqua e formi e spiri dolcissimi d’amor sensi e sospiri. |
Ma dopo che [Carlo e Ubaldo] ebbero varcato le nevi e superato la china discoscesa del monte, trovarono un clima tiepido tipico della dolce estate e sulla cima del monte una pianura ampia e aperta. Qui spirano sempre arie fresche e profumate, con un venticello regolare, e il sole (come è solito fare altrove) qui non placa o risveglia tali venti con l'alternarsi dell'alba e del tramonto; né [il sole] alterna come altrove gelo e calura, oppure cielo nuvoloso e sereno in quei luoghi, ma il cielo è sempre contraddistinto da uno splendore luminoso e non s'infiamma come fa d'estate, né diventa freddo come in inverno, e fa crescere l'erba nei prati, e rende eterni i fiori tra l'erba, il profumo tra i fiori, l'ombra tra le piante. Il bel palazzo decorato ha sede sul lago e domina tutt'intorno i monti e i mari. I due cavalieri si sentivano alquanto affaticati e stanchi per la ripida e aspra ascesa, per cui andavano quel luogo fiorito muovendo i passi lenti e talvolta fermandosi. Quando ecco che una fonte, che li invita a bagnarsi le labbra asciutte [a bere], cade dalle alte rocce e da una vena copiosa, e spruzza l'erba di gocce con mille zampilli. Ma l'acqua si raduna poi tutta insieme tra sponde verdi in un profondo canale, e se ne va mormorando gelida e scura sotto l'ombra di fronde perenni, tuttavia è così trasparente che non nasconde alcuna bellezza del proprio letto; e sulle sue rive l'erbetta cresce ben alta, formando un morbido e fresco luogo in cui sedersi. «Ecco la fonte del riso, ecco il ruscello che contiene in sé pericoli mortali. Ora conviene che noi qui teniamo a freno i nostri desideri e che siamo molto cauti: chiudiamo le orecchie al dolce e malvagio canto di queste false sirene del piacere, così andremo fin dove il bel fiume si allarga in un letto più ampio e forma un lago». Qui sulle rive è allestita una preziosa e invitante mensa con cibi, e due fanciulle loquaci e seducenti nuotano scherzando nell'acqua limpida, spruzzandosi il volto e nuotando a gara per arrivare prime a un determinato traguardo. A volte si tuffano e alla fine scoprono il capo e la schiena dopo aver nuotato sott'acqua. Le due belle nuotatrici nude smossero un po' la durezza del petto dei due guerrieri, cosicché si fermarono a guardarle; ed esse proseguivano intanto i loro giochi e i loro piaceri. Una nel frattempo si sollevò e mostrò il seno e tutto quello che più alletta la vista dal petto in su, scoperto all'aria; e il lago faceva velo alle altre parti del suo corpo. Come la stella del mattino [l'astro di Venere] sorge dalle onde del mare piena di rugiada e bagnata, o come la dea dell'amore [Venere] spuntò alla nascita dalle fertili spume dell'oceano, così apparve questa fanciulla, tale che i suoi capelli biondi sgocciolavano di acqua limpida. Poi si guardò attorno e solo allora fece finta di vedere quei due e si strinse in se stessa; e sciolse subito i capelli, che aveva raccolto in cima alla testa in un solo nodo, cosicché cadendo giù lunghissimi e folti avvolse il morbido avorio della pelle in un manto dorato. Oh, che bellissimo spettacolo è sottratto alla vista dei due! Ma non meno bella fu colei che glielo tolse. Così, nascosta dall'acqua e dai capelli, la fanciulla si rivolse a loro lieta e piena di pudore. Lei rideva e arrossiva allo stesso tempo, e il suo sorriso nel rossore era ancor più bello e così nel sorriso il rossore, che le copriva il viso delicato sino al mento. Poi iniziò a parlare con voce così dolce e mansueta che chiunque altro ne sarebbe stato conquistato: «O fortunati viaggiatori, cui è stato concesso di arrivare in questo luogo ricco e felice. Questo è il luogo dove ci si riposa dalle fatiche della vita; e qui c'è il conforto dei suoi fastidi e si prova quel piacere che un tempo, durante l'età dell'oro, sentì la gente libera e priva di freni. Potete ormai deporre senza timore le armi, che vi sono servite sino a qui, e consacrarla alla pace in quest'ombra, poiché qui sarete solo guerrieri dell'amore, e il letto sarà il vostro dolce campo di battaglia, così come l'erba morbida dei prati. Noi vi condurremo di fronte alla bellezza regale di colei che qui rende felici i suoi servi, che vi accoglierà nel bel numero scelto di quelli che ha destinati alle sue gioie. Ma prima vogliate lavarvi la polvere in queste acque e prendere del cibo da quella mensa». Una delle due fanciulle disse così, l'altra fece un invito simile con gli atteggiamenti e gli sguardi, così come si accompagnano i passi di danza, ora veloci ora lenti, al suono delle corde di uno strumento musicale. Ma i due cavalieri hanno l'anima dura e sorda a quei diletti perfidi e bugiardi, e il piacevole aspetto [delle due fanciulle] e le dolci parole restano fuori e accarezzano solo i sensi. E se una parte di quella dolcezza passata attraverso i sensi, penetra all'interno dell'anima e ne fa nascere il desiderio, subito la ragione chiusa nella sua armatura strappa e recide le voglie appena sorte. Una coppia [le due nuotatrici] resta vinta e delusa, l'altra [Carlo e Ubaldo] se ne va senza neppure salutare. I due guerrieri entrarono nel palazzo [di Armida], le due fanciulle si tuffarono in acqua: a tal punto il rifiuto spiacque loro. Il ricco edificio è tondo e all'interno di esso, ben protetto e posto quasi perfettamente al centro, c'è un giardino più bello di qualunque altro sia mai fiorito. I fabbri diabolici costruirono intorno ad esso un confuso e non distinguibile ordine di logge, ed esso giace impenetrabile tra le vie contorte di quell'ingannevole labirinto. I due guerrieri passarono per l'ingresso più ampio, dato che quel palazzo ne aveva cento. Qui le porte di argento scolpito stridevano sui cardini di oro luccicante. Essi fissarono lo sguardo sulle figure, poiché l'opera artistica supera la preziosità del materiale: le figure sembrano vive, manca soltanto la parola; e se credi ai tuoi occhi, non manca in realtà neppure questo. Qui si vede tra le ancelle di Onfale, regina della Meonia, Ercole che racconta favole mentre fila la lana. Se ha espugnato l'inferno e ha sorretto la volta celeste, ora gira il fuso; Amore lo guarda e ride di lui. Si vede Iole con la sua mano destra innocua che tocca le sue armi micidiali; e indossa la pelle di leone, che sembra troppo ruvida per un corpo tenero come il suo. Di fronte c'è un mare e vedresti le sue distese azzurre spumeggianti con flutti bianchi. Nel mezzo c'è una duplice schiera di navi e armi, e dalle armi escono lampi. Le onde fiammeggiano d'oro, e sembra che tutto Leucate avvampi di un incendio bellico. Da una parte Augusto conduce i Romani, dall'altra Antonio conduce l'Oriente: Egizi, Arabi, Indiani. Si direbbe che le isole Cicladi nuotino svelte tra le onde e i monti cozzino contro altri monti; l'impeto è tale, che questi e quelli vanno a scontrarsi con le navi gigantesche. Già sono state scagliate frecce incendiarie e già i mari funesti sono cosparsi di nuova strage. Ed ecco la regina barbara [Cleopatra] che fugge, quando la battaglia non è ancora decisa. Fugge anche Antonio e può lasciare la speranza di comandare il mondo, come egli aspira. In realtà lui non fugge, il feroce condottiero non ha paura, ma segue Cleopatra che fugge e lo trascina con sé. Vedresti lui, simile a un uomo fremente d'amore e allo stesso tempo di vergogna e d'ira, che osserva ora la crudele battaglia che è in forse, ora le vele che si allontanano. Sembra poi che Antonio, accolto dai recessi del Nilo, attenda in grembo alla regina la morte, e sembra che nel piacere del suo bel volto leggiadro lui si consoli del suo duro destino. Il metallo delle porte regali [del palazzo di Armida] era effigiato e scolpito con figure simili. I due guerrieri, dopo aver distolto lo sguardo da quel bello spettacolo, entrarono nel palazzo labirintico. Come il fiume Meandro gioca fra rive oblique e contorte e con un corso incerto ora scende a valle, ora risale a monte, e alternativamente fa salire le acque al monte e poi le fa scendere al mare, e mentre procede incrocia se stesso che torna indietro, così sono queste vie [del labirinto] e ancor più inestricabili e intrecciate, ma il libro (dono del mago di Ascalona) le descrive in sé e parla di esse in modo da risolverle, e spiega come superarle. Dopo che i due lasciarono le vie contorte, il bel giardino si aprì alla loro vista con un piacevole spettacolo: offrì a un solo sguardo laghi, fiumicelli, fiori e piante variopinte, erbe diverse, collinette assolate, valli ombrose, selve e grotte; e, cosa che aumenta la bellezza e la preziosità di quelle opere, non è assolutamente visibile l'arte [diabolica] che produce tutto questo. Diresti che il sito e gli ornamenti siano del tutto naturali, poiché ciò che è frutto di artificio è mescolato a ciò che è naturale. Sembra arte della natura, che imita scherzando per gioco la sua imitatrice [l'arte stessa]. Il vento che fa fiorire gli alberi non è altro se non effetto della maga: il frutto dura in eterno come sono eterni i fiori, e mentre un frutto spunta l'altro è già maturo. Nello stesso tronco e tra le stesse foglie ci sono il fico appena nato e quello maturo; il frutto nuovo e quello vecchio pendono dallo stesso ramo, uno con la buccia verde e l'altro dorata; dove il giardino è più assolato la vite contorta serpeggia rigogliosa e germoglia ben alta: qui fiorisce l'uva acerba, ma anche quella dorata e rosseggiante come il piropo e già gonfia di succo. Uccelli scherzosi tra le fronde verdi modulano provando delle note lascive; il vento mormora e fa stormire le foglie e le acque che percuote in modo variabile. Quando gli uccelli tacciono, il vento risponde con voce alta, mentre quando gli uccelli cantano soffia più lieve; o per caso o per arte, il vento musicale accompagna e alterna la sua voce al canto degli uccelli. Tra gli altri vola un uccello [un pappagallo] che ha le piume cosparse di vari colori e il becco rossastro e muove la lingua in modo variabile e articola la voce in modo tale da imitare il nostro linguaggio. Questo uccello allora continuò con tanta arte il parlare che fu una cosa straordinaria a sentirsi. Gli altri uccelli tacquero per ascoltarlo e i venti fermarono i loro sussurri nell'aria. Egli cantò: «Su, osserva la rosa che sboccia modesta e pura nel suo verde, che è per metà aperta e per metà chiusa e, quanto meno si mostra, tanto più è bella. Ecco poi che baldanzosa già apre i suoi petali; poi appassisce e non sembra più quella di prima, quella che prima fu desiderata da mille fanciulle e mille amanti. Così il fiore e il verde [la gioventù] della vita mortale muore nel volgere di un giorno; e se anche aprile torna ancora, la rosa non rifiorisce più, né torna verde. Cogliamo la rosa quando questo giorno è ancora al mattino, poiché presto la serenità va via; cogliamo la rosa d'amore: amiamo adesso, quando è possibile essere ricambiati, amando». Il pappagallo tacque e il coro degli altri uccelli, quasi approvando, riprese da qui in avanti il proprio canto. Le colombe raddoppiano i loro baci, ogni animale riprende l'amore; sembra che la dura quercia e il casto alloro e tutta la verde famiglia delle piante, sembra che la terra e l'acqua producano e mandino dolcissime sensazioni e sospiri d'amore. |
Interpretazione complessiva
- Il brano si articola in due parti, la prima che descrive l'arrivo di Carlo e Ubaldo sulla cima del monte dove sorge il palazzo di Armida (e dove avviene l'incontro con le due conturbanti nuotatrici) e la seconda che presenta il meraviglioso giardino e le sue delizie, con il discorso del pappagallo che invita a godere dell'amore e della giovinezza, corrispondenti alla fine del canto XV e all'inizio del XVI. L'episodio ha per protagonisti i due guerrieri inviati dal mago di Ascalona a liberare Rinaldo dalla sua "schiavitù amorosa" tra le braccia di Armida e i crociati, istruiti a suo tempo dall'incantatore cristiano, riescono agevolmente a superare gli ostacoli sul loro cammino grazie agli aiuti forniti loro (una verga, uno scudo magico...), mentre una volta sulla cima del monte essi devono guardarsi da se stessi e non cedere alle tentazioni amorose che cercano di irretirli e di distoglierli dal proprio dovere. Il percorso di Carlo e Ubaldo si configura come un cammino di perfezionamento morale e l'autore intende condannare le lusinghe amorose come contrarie al dovere militare e religioso, che infatti prevarrà quando Rinaldo tornerà in sé e lascerà le Isole Fortunate per tornare alla guerra santa (► TESTI: L'amore di Rinaldo e Armida; L'abbandono di Armida).
- Il "fonte del riso" che i due guerrieri trovano sulla cima del monte è lo stesso su cui il mago di Ascalona li ha messi in guardia (XIV, 74) e le cui acque, se bevute, inducono l'uomo a ridere follemente sino a morirne (infatti i due conoscono il pericolo e se ne guardano, come è evidente nell'ott. 57 in cui peraltro non è chiaro chi dei due stia parlando, o se parlano entrambi). La tentazione diabolica si arricchisce con la presenza di cibi imbanditi su una ricca mensa e con le due "natatrici ignude e belle" che sguazzano allegramente nel laghetto formato dalla fonte e che tentano senza successo di sedurre i crociati: la descrizione della fanciulla che esce dalle acque e si rivolge ai guerrieri riprende ovviamente quella di Venere nata dal mare e della corrispondente stella quando brilla al mattino, mentre il suo finto rossore quando vede Carlo e Ubaldo è parte della sapiente recita con cui vuole irretirli (più avanti Tasso paragona la compagna, che accorda gesti e viso alle parole della prima, ai ballerini che muovono i passi al ritmo della musica). Nel discorso della ragazza è evidente il contrasto tra le dure fatiche della guerra e quelle dolci dell'amore, specie quando dice che i due possono deporre le armi e dedicarsi alle battaglie d'amore nel letto e fra l'erba dei prati, mentre significativo è il richiamo all'età dell'oro (63, 1-4) in cui la gente si abbandonava al piacere senza i "freni" della religione e delle regole della corte, che riprende quanto affermato nell'Aminta (► TESTO: O bella età de l'oro).
- Il palazzo di Armida sorge in cima al monte ed è circondato da una cinta di mura (il "Tondo... edificio" di 1,1) con cento porte, sulla principale delle quali sono effigiate alcune vicende amorose del mito e della storia: le incisioni sono frutto dell'arte diabolica e sono talmente realistiche da mancare solo della parola, con ripresa di Purg., X, 58 ss. in cui Dante descrive i bassorilievi in marmo della prima cornice (il paragone è rovesciato, poiché quella era arte divina e presentava esempi di umiltà premiata). Gli esempi qui sono di celebri eroi vinti dall'amore, ovvero Ercole indotto dalla regina Onfale (confusa da Tasso con Iole) a filare la lana e a darsi ad opere femminili, e Antonio, soggiogato da Cleopatra e costretto a fuggire con lei nella battaglia di Azio del 31 a.C. In entrambi i casi si tratta di famosi guerrieri che hanno deposto le armi per darsi all'amore e il loro esempio è ovviamente condannato dall'autore, specie quello storico di Antonio che si distende per quattro ottave (4-7).
- La descrizione del giardino di Armida (ott. 9-13) è il "pezzo forte" dell'episodio e prepara la comparsa dei due amanti (Armida e Rinaldo) al centro della scena, che verrà presentata più avanti (ott. 17 ss.): il luogo è simile a un Eden prodotto dall'artificio diabolico e dunque come uno spazio idillico in cui vige l'eterna primavera e dove con un solo sguardo si vedono laghi e fiumi, luoghi al sole e in ombra, selve e grotte, proprio come nel giardino di una villa del XVI sec. in cui famosi artigiani creavano appositamente paesaggi naturali per allietare la vista dei loro padroni. L'autore sottolinea che il "culto" e il "negletto" sono abilmente mescolati e tutto sembra prodotto dalla natura, mentre di naturale in questo luogo non c'è nulla, come dimostra il fatto che i frutti appena spuntati convivono con quelli già maturi e dove persino il vento e gli uccelli alternano armoniosamente il loro canto producendo una piacevole melodia. La descrizione del giardino riprende quella famosa di Petrarca della casa di Amore (Tr. Am., IV, 100 ss.), nonché quella di Poliziano della casa di Venere (Stanze, I, 70-72) e quella di Arioso della casa di Alcina (Furioso, VI, 20-22), mentre alcuni passi si ispirano al Purgatorio dantesco (XXVIII) e alla corrispondente descrizione dell'Eden.
- Il discorso del pappagallo (ott. 14-15) è un invito a godere dell'amore e della giovinezza prima che sia troppo tardi e a "cogliere la rosa" prima che questa sfiorisca, con una simbologia che si rifà a tutta una serie di testi della letteratura del XV-XVI sec. e riprende uno dei temi portanti dell'età dell'Umanesimo: da ricordare soprattutto la ballata delle rose di Poliziano (► TESTO: I' mi trovai, fanciulle) e il discorso di Sacripante nell'Orlando furioso (► TESTO: La fuga di Angelica/2), mentre tra i modelli classici va citato certamente il carme 62 di Catullo (vv. 39-47), in cui la giovane ragazza ancora vergine viene paragonata a un fiore che nessuno ha toccato e che tutti desiderano, mentre quando è appassito non suscita più alcun desiderio. Il discorso qui viene attribuito a un pappagallo in quanto uccello esotico non molto diffuso in Occidente e poiché in grado di imitare la voce umana, dunque viene presentato come "mirabil mostro" che con le sue parole cerca di attrarre i due guerrieri alle lusinghe d'amore e all'abbandono dei loro doveri militari.
- La descrizione del giardino di Armida verrà ripresa in parte nel passo in cui Rinaldo penetra nella selva di Saron e gli si offre uno spettacolo idillico al centro del quale apparirà una falsa Armida, con tanto di corteo di ninfe danzatrici che ricordano da vicino le due "natatrici" di questo episodio, mentre anche in quel caso il vento e il canto degli uccelli formeranno una dolce armonia che renderà più piacevole il luogo agli occhi del guerriero (► TESTO: Rinaldo vince gli incanti della selva).