Dal "Novellino"
Tristano e Isotta
(Novella LXV)
Protagonisti della novella sono Tristano e Isotta, i due personaggi della celebre leggenda affine al ciclo bretone dei romanzi cortesi di cui questo racconto costituisce una rielaborazione: divenuti amanti, trovano uno stratagemma per i loro convegni segreti, ma la cosa viene scoperta dal re Marco sposo di Isotta che tende loro una trappola per sorprenderli. Isotta è abile a intuire l'inganno e si cava d'impiccio attuando a sua volta un raffinato inganno ai danni del marito, ottenendo anche la complicità di Tristano. Alla fine il re è soddisfatto e crede che la moglie gli sia fedele, mentre i due amanti potranno proseguire i loro incontri notturni.
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
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Amando messer Tristano di Cornovaglia Ysotta la bionda, la moglie del re Marco, si fecero tra loro un segnale d’amore di cotal guisa: che quando messere Tristano le volea parlare, si andava ad un giardino del re Marco, nel quale avea una fontana, e intorbidava il rigagnolo ch’ella facea, il quale passava per lo palazzo dove stava la detta Ysotta; e quando ella vedea l’acqua torbidata, si pensava che Tristano era alla fontana.
Or avenne c’uno malaventurato giardiniere se n’avide, di guisa che li due amanti neente il poteano credere [1]. Quel giardiniere andò allo re Marco, e [2] contolli ogni cosa com’era. Lo re Marco si diede a crederlo; sì ordinò una caccia, e partissi da’ suoi cavalieri siccome si smarisse da·lloro. Li cavalieri lo cercavano erranti per la foresta, e lo re Marco n’andò in sul pino ch’era sopra la fontana ove messere Tristano parlava alla reina. E, dimorando la notte lo re Marco in sul pino, e messere Tristano venne alla fontana e intorbidolla; e poco tardante [3] la reina venne alla fontana, ed a ventura [4] le venne un bel pensero: che guardò il pino, e vide l’ombra più spessa che non solea. Allora la reina dottò e, dottando, ristette [5], e parlò con Tristano in questa maniera e disse: «Disleale cavaliere, io t’ho fatto qui venire per potermi compiagnere di tuo gran misfatto: ché giamai non fu cavalier con tanta dislealtade quanta tu hai per tue parole: ché m’hai unita, e lo tuo zio re Marco [6], che molto t’amava: ché tu se’ ito parlando di me intra·lli erranti cavalieri cose, che nello mio cuore non poriano mai discendere [7]; — et inanzi darei me medesima al fuoco, ch’io unisse così nobile re com’è monsignor lo re Marco. Onde io ti diffido di tutta mia forza, siccome disleale cavaliere, sanza niun’altro rispetto». Tristano, udendo queste parole, dubitò forte [8] e disse: «Madonna, se’ malvagi cavalieri di Cornovaglia parlan di me, tutto primamente dico che giamai io di queste cose non fui colpevole. Merzé, donna, per Dio [9]: elli hanno invidia di me, ch’io giamai non dissi né feci cosa che fosse disinore di voi, né del mio zio re Marco. Ma, dacché vi pur piace, ubbidirò a’ vostri comandamenti: andronne in altre parti a finire li miei giorni. E forse, avanti ch’io mora, li malvagi cavalieri di Cornovaglia avranno sofratta di me [10], siccome elli ebbero al tempo de l’Amoroldo, quand’io diliverai loro e lor terre di vile e di laido servaggio». Allora si dipartiro, sanza più dire; e lo re Marco, ch’era sopra loro, quando udì questo, molto si rallegrò di grande allegrezza. Quando venne la mattina, Tristano fe’ sembianti [11] di cavalcare: fe’ ferrare cavalli e somieri; valletti vegnono di giù e di sù: chi ponta freni e chi selle: il tremuoto era grande. Il re s’adira forte del partire di Tristano, e raunò ’ baroni e ’ suoi cavalieri, e mandò comandando a Tristano che, sotto pena del cuore [12], non si partisse sanza suo commiato. Tanto ordinò il re Marco, che·lla reina ordinò e mandolli a dire che non si partisse: — e così rimase Tristano a quel punto, e non si partì. E non fu sorpreso né ingannato per lo savio avedimento ch’ebbero intra·llor due. [13] |
[1] In modo tale che i due amanti non potevano sospettare. [2] Gli raccontò. [3] Poco tempo dopo. [4] Per un caso fortuito. [5] Allora la regina dubitò, e dubitando si trattenne. [6] Hai disonorato me e tuo zio Marco. [7] Sei andato raccontando di me agli altri cavalieri erranti cose che io non avrei mai pensato in cuor mio. [8] Dubitò anche lui che ci fosse qualcosa sotto. [9] Abbi pietà, mia signora, in nome di Dio (la formula è tipica della lirica amorosa). [10] Avranno bisogno di me. [11] Fece finta (dal francese faire semblant). [12] Sotto minaccia di morte. [13] Per il saggio accorgimento che misero in atto tra loro. |
Interpretazione complessiva
- La vicenda è chiaramente ispirata alla leggenda di Tristano e Isotta assai diffusa nei romanzi cortesi del XII-XIII sec., in cui i due diventano amanti dopo che la donna ha sposato Marco, re di Cornovaglia e zio del nobile cavaliere Tristano, combinando incontri notturni che talvolta vengono scoperti da baroni invidiosi che riferiscono tutto al sovrano per invidia: in una di queste occasioni è Tristano ad avvedersi della presenza del re nascosto sul pino e riesce ad avvertire Isotta che, a quel punto, inscena una conversazione del tutto innocente. L'autore anonimo della novella riprende questo episodio modificandolo in parte e la vicenda sembra avere un lieto fine, mentre la leggenda originale terminava poi con la morte dei due amanti. La tradizione manoscritta del Novellino riporta due varianti del racconto, in cui la differenza principale è colui che riferisce della relazione al re (in questa versione è un giardiniere, nell'altra un cavaliere malvagio).
- La novella riprende un tema assai diffuso nella letteratura cortese del Duecento, ovvero l'amore adultero tra un nobile cavaliere e la moglie del suo re che deriva dalla concezione di "amor cortese" e dalla tradizione della letteratura franco-provenzale (► SCHEDA: La concezione di amor cortese): il motivo qui è in parte banalizzato e adattato alle finalità di intrattenimento della novella, tuttavia la vicenda ne anticipa altre simili del Decameron di Boccaccio, specie quella di Ghismunda (IV, 1) che intreccia una relazione con un valletto e viene scoperta dal padre, che mette a morte l'amante della figlia e provoca il suicidio della donna (► TESTO: Tancredi e Ghismunda). A differenza dell'opera anonima del Duecento, tuttavia, Boccaccio presenta Ghismunda come una sorta di "eroina" amorosa del tutto consapevole dei suoi diritti di donna, inoltre la sua relazione è con un uomo di bassa condizione sociale, dunque si tratta di un amore lontano dagli schemi della letteratura cortese.