Terminologia e periodizzazione
Gli studiosi definiscono età della Controriforma la seconda metà del XVI sec., ovvero il periodo caratterizzato in Europa dalla reazione della Chiesa di Roma contro la Riforma protestante di Martin Lutero, a partire dal Concilio di Trento che ne definì ufficialmente forme e modi. I termini cronologici sono il 1545, anno appunto di apertura del Concilio, e il 1610, anno in cui Galileo pubblica il Sidereus nuncius considerato l'inizio della "rivoluzione scientifica" che caratterizza l'età successiva del Barocco. Dal punto di vista artistico e letterario il secondo Cinquecento vede lo sviluppo del Manierismo, che può essere visto come autunno del Rinascimento e anche come anticipazione di alcuni aspetti del Barocco, contraddistinto soprattutto dalle discussioni sui generi letterari e dominato dall'aristotelismo (lo scrittore italiano più rappresentativo di questa corrente è Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata; ► AUTORE: Torquato Tasso). La Controriforma è per molti aspetti un periodo culturalmente cupo, dominato dall'oscurantismo della Chiesa che tenta in ogni modo di soffocare le spinte al rinnovamento e perseguita ferocemente alcuni intellettuali in quanto "non allineati" (come Giordano Bruno o, più tardi, lo stesso Galileo); la figura dello scrittore vede una forte limitazione della sua autonomia e si trasforma sempre più in un funzionario-cortigiano inquadrato nella burocrazia del palazzo, sottoposto non di rado a un rigido controllo sui contenuti della sua opera (questa è la fase storica in cui inizia a operare la censura ecclesiastica). I generi letterari che si sviluppano maggiormente sono il poema eroico, la lirica amorosa, la trattatistica storica e politica e, nel teatro, il dramma pastorale.
Il nuovo clima culturale
Il Concilio di Trento (1545-1563)
Il diffondersi della Riforma protestante in Germania suggeriva l'idea di un Concilio universale della Chiesa che tentasse una mediazione con le spinte innovatrici dei Luterani e già l'imperatore Carlo V aveva fatto pressioni su papa Clemente VII per una sua convocazione, che però fu rimandata per anni sino al 1545, quando il Concilio fu ufficialmente indetto da Paolo III Farnese a Trento, città appartenente all'Impero. I lavori proseguirono tra sospensioni e riprese sino al 1563 e le decisioni assunte dall'assise fissarono i criteri della Controriforma, vale a dire la "strategia" culturale e religiosa della Chiesa di Roma per arginare la Riforma che ormai dilagava in buona parte dell'Europa del Nord. In campo strettamente dottrinale il Concilio ribadì i punti messi in discussione da Lutero, ovvero il dogma del peccato originale e il principio della giustificazione per la fede e per le opere, mentre vennero fissate nuove norme per la nomina di vescovi e cardinali e fu condannato il nepotismo, aspetto delicato della corruzione ecclesiastica. La realizzazione di tali principi fu affidata a nuovi ordini religiosi e in particolare alla Compagnia di Gesù (i Gesuiti), fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola e in seguito confermata da Paolo III, che fu il "braccio" del Papato nella lotta all'eresia e nella diffusione dell'ortodossia cattolica; molto importanti divennero i collegi gesuitici, scuole destinate alla formazione dei membri dell'Ordine e poi della classe dirigente laica che si diffusero presto in tutta l'Europa cattolica, mezzo potente per l'indottrinamento e la difesa del modello culturale della Chiesa.
La censura ecclesiastica e l'Indice
Il nuovo clima della Controriforma fu improntato da una forte opposizione a qualsiasi innovazione culturale che fosse giudicata pericolosa e ciò si tradusse in un pesante oscurantismo da parte delle autorità ecclesiastiche, che iniziarono a esercitare varie forme di censura: molto importante fu la creazione nel 1559 dell'Indice dei libri proibiti, una sorta di elenco di opere considerate immorali o semplicemente sospette per i loro contenuti che non potevano essere stampate e diffuse, sotto la minaccia di pene severissime. Tra i libri colpiti dal primo Indice vi furono la Monarchia di Dante, il Decameron di Boccaccio, il Principe di Machiavelli, tutte le traduzioni in volgare della Bibbia e tutte le opere di scrittori non cattolici o sospettati di essere simpatizzanti del luteranesimo. La Chiesa cominciò ben presto a sottoporre le opere letterarie a un esame preventivo prima della loro pubblicazione e solo quelle che superavano l'esame ricevevano l'imprimatur, il permesso di essere stampate. Nel 1564 fu redatto un nuovo Indice a conclusione del Concilio di Trento e ne scaturì un pesante clima intimidatorio nei confronti di intellettuali e librai, mentre in molte città l'Inquisizione procedeva al rogo pubblico di libri considerati eretici, come mezzo per creare un "consenso" attorno all'attività controriformistica. La censura ecclesiastica permise in qualche caso la pubblicazione di opere che venivano però "purgate" e sottoposte a revisione, con l'eliminazione dei passi giudicati più controversi, operazione che portò in molti casi al totale stravolgimento dei testi originali: ebbero questo destino il Decameron, la Storia d'Italia di Guicciardini (che nel 1564 fu stampata con pesanti tagli) e molti altri libri antichi e moderni di argomento filosofico, specie quelli che contraddicevano il sistema cosmografico di Aristotele-Tolomeo. Proprio a causa di tali pressioni Torquato Tasso fece esaminare la Gerusalemme liberata dall'Inquisizione di Ferrara, poiché aveva molti scrupoli di natura religiosa per il contenuto del poema, anche se gli esaminatori assolsero pienamente il suo scritto. L'Indice rimase ufficialmente in vigore per circa quattro secoli e venne definitivamente abrogato solo nel 1966, a conclusione del Concilio Vaticano II.
Qui puoi trovare un breve video esplicativo sull'Indice e la censura, tratto dal canale YouTube Video Letteratura |
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L'opera dell'Inquisizione
Nata nel XII-XIII sec. come mezzo per la repressione dei movimenti eretici del Medioevo, l'Inquisizione era stata ripristinata in Spagna alla fine del Quattrocento e svincolata dal controllo della Santa Sede, con lo scopo di reprimere le minoranze islamiche ed ebraiche nel regno ormai riunificato (particolarmente sinistra fu l'azione dell'inquisitore generale Tomás de Torquemada, frate domenicano). In seguito Paolo III con la bolla Licet ab initio (1542) istituì l'Inquisizione romana, che agì soprattutto per perseguitare eretici ed ebrei, ma anche per soffocare spinte innovatrici di intellettuali, sottoporre i libri a controllo preventivo e a censura, lottare contro la magia e la stregoneria; essa fu lo strumento con cui la Chiesa tentò di imporre la Controriforma e significativo fu il suo contributo per creare un clima di controllo e repressione intellettuale, di cui furono vittime Giordano Bruno e, più tardi, Galileo Galilei (sul punto si veda oltre). Particolarmente importante fu la cosiddetta "caccia alle streghe", ovvero la persecuzione di donne accusate di praticare la magia e, in molti casi, considerate sospette solo perché vedove, o dedite a comportamenti anormali, o addirittura vittime delle maldicenze di parenti e vicini; in generale l'idea di fondo era la repressione del "diverso" e la lotta contro tutto ciò che deviava dalla norma fissata dall'ortodossia, poiché ogni innovazione in campo culturale e religioso era considerata sospetta e doveva perciò essere pesantemente censurata (► SCHEDA: Magia e astrologia). Il Tribunale dell'Inquisizione aveva poteri quasi illimitati e sottoponeva l'accusato a un processo che doveva portare alla pubblica confessione, estorta in moltissimi casi attraverso l'uso sistematico della tortura (peraltro applicata anche dalla giustizia ordinaria e fonte di gravissime atrocità, come nel caso famoso degli untori di Milano durante la peste del 1630). Le pene inflitte ai condannati erano molto pesanti e andavano da anni di carcerazione, come nel caso di Tommaso Campanella, o al supplizio del rogo, come nel caso di Giordano Bruno; ci si poteva salvare in alcuni casi con l'ammissione delle proprie colpe e l'abiura, ovvero una dichiarazione pubblica di ravvedimento e ritrattazione delle tesi espresse, che fu il destino infamante toccato a Galileo nel 1633. L'Inquisizione operò largamente nell'Europa cattolica per tutto il XVI e il XVII sec. e allentò in seguito le maglie della sua feroce repressione, conservando tuttavia il suo potere intatto in alcuni Paesi tra cui, soprattutto, la Spagna. Venne definitivamente abrogata nel 1966 in seguito al Concilio Vaticano II, sostituita dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che svolge un'attività culturale non intesa alla repressione.
Il Manierismo
In campo artistico e letterario l'età della Controriforma è dominata dal Manierismo, una corrente che propone l'imitazione dei modelli classici in modo estremo ed esasperato, fino a deformarne in qualche caso lo spirito e a suscitare effetti che sembrano stravaganti e di cattivo gusto: gli studiosi evidenziano in esso ora il carattere di declino e "autunno" del Rinascimento, ora l'anticipazione di elementi propri del Barocco secentesco (che infatti proporrà innovazioni strane e "meravigliose", in opposizione al classicismo del Cinquecento). Tra gli artisti più importanti che si possono accostare al Manierismo ricordiamo Giorgio Vasari (autore anche delle Vite e fondatore della critica artistica in Italia), Perin del Vaga, Angelo Bronzino, Parmigianino, Tintoretto, nei quali una delle principali innovazioni pittoriche è la "figura serpentinata", la rappresentazione del corpo umano in posizione contorta e con le proporzioni alterate (siamo molto distanti dalla ricerca di equilibrio e armonia tipica dell'arte rinascimentale: ne è un esempio il "Ratto delle Sabine" dello scultore fiammingo attivo in Italia Jean de Boulogne, detto Giambologna). In campo letterario prevale soprattutto un classicismo esasperato e tra gli intellettuali si accendono discussioni sui "canoni" cui rifarsi per la creazione delle opere, specie in ossequio alle norme aristoteliche (sul punto, molto significativo per lo sviluppo del poema eroico, si veda oltre). I generi del poema e della lirica sono quelli più diffusi in Italia nel secondo Cinquecento e lo scrittore di gran lunga più rappresentativo del Manierismo è Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata e di liriche petrarchiste molto apprezzate al suo tempo, nonché del dramma pastorale Aminta che getterà le basi di una nuova forma teatrale (► AUTORE: Torquato Tasso). Il Manierismo in Italia coinvolgerà anche le discussioni sulla lingua e la fissazione di un "canone" a partire dalla proposta di Bembo che viene largamente accettata nella letteratura colta, ambito nel quale sarà molto importante la creazione dell'Accademia della Crusca (si veda oltre).
L'aristotelismo
Il fatto culturalmente più rilevante in campo letterario fu la riscoperta della filosofia aristotelica, specie dopo la pubblicazione del primo libro della Poetica nel 1536 e nel solco di quella "canonizzazione" delle regole compositive che era già stata avviata durante il Rinascimento: l'aristotelismo improntò tutta la vita culturale del XVI-XVII sec. e tra i centri più attivi in questo senso ci fu soprattutto Padova con la sua Università, dove peraltro studiò e si formò Torquato Tasso e dove operarono alcuni importanti filosofi, tra cui spicca Pietro Pomponazzi. Nel periodo della Controriforma le dottrine aristoteliche divennero la base per affermare la validità del sistema cosmografico geocentrico contro le nuove teorie di Copernico (e, poco dopo, di Galileo) e il filosofo greco venne a lungo considerato il maggior pensatore di tutta l'antichità, sulla scorta di quanto già affermato nel corso del Medioevo (un'eco di questo atteggiamento culturale si ha anche nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, dove il dotto don Ferrante è appunto un aristotelico ortodosso). Sul piano strettamente letterario i principali intellettuali che si ispirarono ad Aristotele furono Giambattista Giraldi Cinzio, Sperone Speroni, Lodovico Castelvetro, tutti impegnati a fissare le "regole" dei generi letterari in modo ancor più rigoroso di quanto già avveniva nel Rinascimento: in particolare vennero teorizzate le cosiddette tre "unità aristoteliche" di luogo, tempo, azione che dovevano caratterizzare la tragedia e cui si attennero i principali tragediografi sino a tutto il Settecento, mentre il primo autore a metterle in discussione fu Manzoni nel Conte di Carmagnola e poi nell'Adelchi. Castelvetro commentò la Poetica e si occupò anche di questioni linguistiche, tra l'altro originando una dura polemica con Annibal Caro che ebbe vasta risonanza nel Cinquecento, ed è proprio nel clima di queste discussioni teoriche che nacque il progetto della Gerusalemme liberata da parte di Tasso, che procedette tra dubbi e ripensamenti (e polemiche letterarie) che ne influenzarono non poco la composizione e poi la travagliata storia editoriale (► OPERA: Gerusalemme liberata).
Il poema eroico
Grandi discussioni si accesero nel secondo XVI sec. sulle regole del poema, dal momento che i seguaci più rigorosi dell'aristotelismo contestavano il modello del poema epico-cavalleresco di Ariosto in quanto non obbediva alle cosiddette unità aristoteliche fissate per la tragedia e, in particolare, era troppo affollato di personaggi e filoni narrativi, conteneva elementi favolistici e sovrannaturali, era poco aderente al vero storico. Diversi intellettuali proposero di "riformare" il genere creando il poema eroico, che a differenza dell'Orlando innamorato e del Furioso doveva avere un argomento storico e una maggiore unità narrativa, con un solo "eroe" al centro di un'unica vicenda principale, mentre gli elementi magici e fiabeschi dovevano scomparire del tutto o lasciare spazio al sovrannaturale cristiano, con l'intervento di angeli e demoni (è evidente l'influsso del clima religioso della Controriforma). Modelli privilegiati dovevano essere ovviamente l'Iliade e l'Eneide e uno dei primi esempi di poema eroico fu L'Italia liberata dai Goti di Gian Giorgio Trissino, stampato nel 1547 e basato sul rigoroso rispetto delle regole aristoteliche, nonché attinente a una vicenda storica tratta dal mondo antico. Notevole fu poi il contributo teorico alla questione dello stesso Torquato Tasso, che scrisse nel 1594 i Discorsi del poema eroico in cui sostenne la necessità di rifondare il genere epico secondo le nuove esigenze, delineando le basi teoriche da cui era nata la Gerusalemme liberata e poi il suo rifacimento, la Conquistata. Il grande successo del primo poema, sia pure attraverso una vicenda editoriale a dir poco accidentata, non mise fine alle aspre polemiche di cui lo scrittore fu oggetto fino alla morte e per molto tempo i dotti discussero se fosse preferibile il modello epico-cavalleresco di Ariosto o quello eroico di Tasso, con partigiani dell'uno e dell'altro (Galileo, ad es., era un sostenitore del poema ariostesco). Va detto che nel corso del Seicento tali discussioni verranno meno e si andrà incontro alla lenta dissoluzione del genere del poema epico, specie grazie all'opera di G.B. Marino e di A. Tassoni.
Il dramma pastorale
Nell'ambito teatrale il secondo Cinquecento vede, come si è detto, lo sviluppo della tragedia in ossequio alle norme aristoteliche, ma anche la nascita di un nuovo genere denominato "dramma pastorale" la cui origine viene ricondotta all'Aminta di Torquato Tasso, opera composta nel 1573 per la rappresentazione alla corte degli Este a Ferrara e che l'autore definì "favola boschereccia", dal momento che narrava una vicenda ambientata nella regione favolosa dell'Arcadia e avente per protagonisti ninfe e pastori (► AUTORE: Torquato Tasso). Sotto il profilo del genere si trattava di una "tragicommedia", dal momento che l'argomento era per lo più amoroso e vi era il lieto fine, mentre la struttura prevedeva cinque atti preceduti da un prologo e con vari intermezzi, il tutto scritto in versi endecasillabi e settenari senza un preciso schema della rima. Il dramma pastorale si collegava alla tradizione rinascimentale di rappresentare a corte delle egloghe pastorali (come il Tirsi di Baldassarre Castiglione, o l'Egle di G.B. Giraldi Cinzio), anche se è solo con Tasso che il genere viene delineato nelle sue regole compositive: tra i principali autori del tardo Cinquecento vi fu soprattutto il ferrarese Battista Guarini (1538-1612), che pubblicò nel 1590 il Pastor fido considerato con l'Aminta il capolavoro del teatro della Controriforma. Il dramma pastorale suscitò aspre polemiche tra i seguaci dell'aristotelismo, in quanto il genere non sembrava trovare giustificazioni nella Poetica e veniva dunque avversato, anche se trovò energici difensori teorici tra cui lo stesso Guarini con il saggio Compendio della poesia tragicomica (1602), in cui oppose argomenti letterari e filosofici ai suoi detrattori. Il nuovo genere teatrale proponeva una descrizione in termini idilliaci e nostalgici del mondo pastorale come dimensione sociale libera dalle regole della corte e in cui è possibile l'abbandono sensuale ai piaceri amorosi, aspetto che attirò anche critiche in materia morale e che è presente soprattutto in Tasso. La versificazione ricerca effetti musicali in linea con la lirica del periodo manierista e in questo il dramma pastorale anticipa i futuri sviluppi del teatro del Seicento, che vedrà in particolare la nascita del melodramma come forma di teatro musicale.
L'Accademia della Crusca
L'opera di "canonizzazione" in letteratura si esercitò anche in campo linguistico, specie alla luce della questione della lingua che era iniziata nel Rinascimento ed era stata risolta dalla proposta di Pietro Bembo, generalmente accettata dalla maggioranza degli scrittori colti: il fatto più rilevante nel secondo Cinquecento fu nel 1582 la fondazione a Firenze dell'Accademia della Crusca, un'istituzione nata per iniziativa di alcuni intellettuali (tra cui soprattutto Leonardo Salviati) che aveva come scopo la "difesa" della buona lingua letteraria, il "fior di farina" che doveva essere separato dalla "crusca". L'Accademia identificò la buona lingua con il fiorentino del Trecento, in accordo con la proposta di Bembo, tuttavia furono accolti anche vocaboli di scrittori non toscani e propri dell'uso vivo, al fine di definire uno strumento linguistico che fosse adatto alle nuove esigenze del secolo e non appiattito sull'imitazione degli autori antichi. A partire dal 1590 l'Accademia lavorò alla realizzazione di un Vocabolario e la prima edizione vide la luce a Venezia nel 1612, venendo presto seguita da una seconda nel 1623: per la prima volta in Italia nasceva un dizionario del volgare costruito con strumenti scientifici e il successo dell'opera fu tale che conobbe vasta diffusione anche nel resto d'Europa, diventando modello per lavori simili in altri Paesi fuori dell'Italia. Ovviamente la Crusca rivolgeva la sua attenzione alla lingua letteraria e non a quella parlata dal "popolo", data la frammentazione linguistica e politica dell'Italia del tempo, e il "canone" fissato dall'Accademia era ancora quello rinascimentale di una lingua derivata da modelli trecenteschi, basato su un "purismo" che col passare dei secoli sarebbe stato messo in discussione per ragioni sociali (specie nel primo XIX sec., durante il Romanticismo). In particolare Salviati, fondatore dell'Accademia, si occupò dell'edizione "purgata" del Decameron di Boccaccio (la cosiddetta "rassettatura", voluta dalla Chiesa per motivi di censura) e sottopose la Liberata di Tasso a un vaglio critico severo, attirandosi accuse di malevolenza e miopia (Salviati preferiva il modello epico di Ariosto, nonostante l'apparente lontananza dai principi dell'aristotelismo).
Gli scrittori "dissidenti": Giordano Bruno
Naturalmente non tutti gli autori dell'età della Controriforma furono "allineati" alla cultura ufficiale o parteciparono all'organizzazione del consenso, e anzi alcuni intellettuali scrissero opere filosofiche in aperto contrasto con gli insegnamenti della dottrina e manifestarono una opposizione all'egemonia culturale della Chiesa, pagando col carcere o con la vita il loro anticonformismo: tra questi vi fu Giordano Bruno (1548-1600), di Nola, entrato nell'ordine domenicano e presto sospettato di eresia per le sue idee in materia religiosa e filosofica. Viaggiò a Parigi, Londra, in Germania, per tornare poi in Italia dove, denunciato all'Inquisizione, fu sottoposto a un lungo processo e infine condannato a morte come eretico, venendo bruciato sul rogo a Roma nell'anno 1600. Scrisse opere in latino e in volgare, queste ultime nella forma del dialogo rinascimentale (Cena de le ceneri; Spaccio de la bestia trionfante; De gli eroici furori) o della commedia (Il candelaio) e in campo strettamente letterario predicò il rifiuto anticlassico delle regole, anticipando molte scelte del secolo successivo (il suo stile è turgido, declamatorio, ricco di elementi dialettali e lontani dalla lingua "pura" del bembismo). Sul piano filosofico Giordano Bruno concepì la divinità come spirito che pervade l'intero universo e che coincide con la Natura, verso la quale l'uomo deve elevarsi attraverso il "furore": da qui la negazione del dogma trinitario e l'esaltazione del modello eliocentrico di Copernico, che sovvertiva la concezione tradizionale dell'universo e teorizzava infiniti mondi in cui Dio può manifestarsi (► TESTO: Difesa di Copernico). Nel suo pensiero trovano sintesi elementi del neoplatonismo quattrocentesco e grande importanza ha per lui la magia, intesa come il mezzo con cui l'uomo può penetrare i più reconditi segreti della Natura (è ovvio come certe posizioni fossero giudicate pericolosissime nel clima pesante della Controriforma). La Chiesa combatté le idee di Bruno in quanto propugnavano un pensiero libero, svincolato dalle autorità superiori, e soprattutto poiché lo scrittore si scagliava contro l'egemonia culturale dei "pedanti", come nella commedia Il candelaio in cui il personaggio di Manfurio (simile al Simplicio del Dialogo di Galileo) è sbeffeggiato con ironia acre.
Tommaso Campanella
Altrettanto scomoda e anticonformista la figura di Tommaso Campanella (1568-1639), calabrese, anch'egli domenicano e processato più volte per eresia alla fine del XVI sec.; ordì una congiura contro il governo spagnolo in Calabria per istituire uno Stato teocratico universale, ma fu scoperto e nuovamente processato, riuscendo a evitare la pena di morte fingendosi pazzo e restando in carcere fino al 1629 (morì a Parigi dopo essere stato liberato). Nel suo pensiero confluiscono elementi di magia, neoplatonismo, sensismo, nel quadro di una forte opposizione alla Chiesa e al potere degli Spagnoli in Italia. Tra le sue opere principali vi è certamente il dialogo La Città del Sole, scritto in carcere tra mille difficoltà e rientrante nella letteratura utopistica che tanta fortuna aveva avuto nel Cinquecento in Italia e fuori: l'autore vi teorizza uno Stato ideale, teocratico, egualitario, in cui tutti i beni sono comuni e la vita di ognuno è diretta dal potere pubblico, senza peraltro distinzioni tra arti nobili e mestieri umili (è intuibile come tale utopia risultasse sospetta e pericolosa alla Chiesa, specie nel clima oscurantista della Controriforma; ► TESTO: La Città del Sole). In carcere Campanella scrisse anche molte liriche, interessanti perché rifiutano decisamente il modello petrarchesco (giudicato corruttore della società) e anticipano aspetti della poesia barocca, alcune delle quali con elementi di sperimentalismo metrico in quanto tentano di riprodurre il distico elegiaco latino (► TESTO: A' poeti). Le raccolse sotto il titolo di Scelta d'alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla, fingendo di aver pubblicato i testi di un suo amico (lo pseudonimo allude a se stesso, poiché "Squilla" indica il cognome e "Settimontano" le sette protuberanze che l'autore pensava di avere nel cranio, segno del favore divino) e di averli corredati di un commento in prosa, una sorta di razo filosofica che ne espone il senso profondo. Le liriche ebbero scarsa diffusione nel Seicento e vennero riscoperte e studiate solo nel XX sec., a quando risalgono tra l'altro le prime edizioni critiche dell'opera.
La trattatistica politica
Antimachiavellismo e tacitismo
Gli scritti di argomento politico risentono fortemente nel tardo XVI sec. del successo del Principe e delle opere di Machiavelli, e insieme delle aspre polemiche che esse avevano suscitato per le accuse di immoralità che in molti avevano rivolto all'ex-segretario fiorentino, compresa quella di aver scritto un manuale per tiranni: si diffonde presto un atteggiamento definito "antimachiavellismo", il cui esponente principale è lo scrittore francese Jean Bodin (1529-1596) che nei Sei libri della repubblica condanna le tesi di Machiavelli proprio in quanto immorali e poiché separavano l'agire politico dalla sfera etica, posizione che in seguito sarebbe stata ripresa anche da altri. Non mancò peraltro chi cercò di difendere l'autore del Principe affermando che l'intento di Machiavelli, in realtà, era stato quello di svelare al popolo le malefatte dei potenti per insegnargli a difendersi dalla tirannide, una interpretazione che fu definita "obliqua" e che era sostanzialmente scorretta, deformando il pensiero originale dell'autore (ne fu esponente in Italia, tra gli altri, Traiano Boccalini, per il quale si veda oltre). Accanto alle polemiche su Machiavelli e le sue opere si diffuse nel tardo XVI sec. anche l'interesse per lo storico latino Cornelio Tacito, che negli Annales e nelle Historiae aveva analizzato i meccanismi del potere durante l'Impero romano e la cui lezione sembrava ora attuale di fronte all'assolutismo degli Spagnoli in Italia, quando il rapporto tra intellettuali e potere diventava sempre più problematico: le opere di Tacito vennero viste sia come manuale per tiranni, sulla falsariga di quelle di Machiavelli, sia come insegnamento per resistere alla tirannide, e nel complesso questo atteggiamento ha preso il nome di "tacitismo", trovando ancora in Boccalini un rappresentante significativo. Da ricordare che già Francesco Guicciardini aveva indicato lo storico latino come utile lettura per il rapporto con l'assolutismo, in alcuni passi del Ricordi (► TESTO: La tirannide).
Giovanni Botero e altri scrittori
Esponente dell'antimachiavellismo in Italia fu il piemontese Giovanni Botero (1544-1617), gesuita, poi uscito dall'Ordine e divenuto segretario di san Carlo Borromeo, successivamente precettore dei figli di Carlo Emanuele di Savoia: fu autore, tra le altre cose, del trattato in dieci libri Della ragion di Stato (1589) in cui tentava di confutare le tesi di Machiavelli e di conciliare i principi etici con l'arte del governo di una nazione, affermando che il principe non deve usare mezzi spregiudicati per mantenere il suo potere, ma deve sempre essere guidato dalla virtù e rispettare i precetti religiosi. Nel suo ragionamento, tuttavia, Botero riconosce che spesso nella concreta prassi politica chi governa è costretto a perseguire l'utile anche a dispetto della morale, ammettendo in parte le teorie di Machiavelli che voleva avversare, inoltre secondo lo scrittore lo Stato deve essere confessionale e la religione viene presentata come mezzo potente a rendere i sudditi "ubbidienti", nel che si vede un influsso diretto non solo delle idee elaborate dalla Controriforma, ma ancora dello stesso Machiavelli (che nei Discorsi indicava la religione come instrumentum regni; ► TESTO: Lo Stato confessionale). L'opera è interessante anche per l'esposizione dei problemi connessi allo Stato moderno, inclusi quelli fiscali, giuridici ed economici, tutti temi già affrontati nell'operetta Delle cause della grandezza e magnificenza delle città (1588) che in seguito gli diede grande fama, anche fuori dall'Italia.
Tra gli altri trattatisti politici ricordiamo Ludovico Zuccolo (1568-1630), autore di un'opera dallo stesso titolo di quella di Botero e in cui la "ragion di Stato" diventa una concezione neutra, a seconda dell'uso che ne venga fatto da un buon principe o da un tiranno (per cui può essere "avvedutezza" o "astuzia", in fondo come già aveva teorizzato Machiavelli nel Principe). Interessante anche la figura di Paolo Paruta (1540-1598), veneziano, che nel trattato Della perfezione della vita politica polemizzò con Machiavelli e teorizzò lo Stato "virtuoso", prendendo a modello la Repubblica veneta che, a suo dire, contemperava i poteri delle diverse classi sociali.
Tra gli altri trattatisti politici ricordiamo Ludovico Zuccolo (1568-1630), autore di un'opera dallo stesso titolo di quella di Botero e in cui la "ragion di Stato" diventa una concezione neutra, a seconda dell'uso che ne venga fatto da un buon principe o da un tiranno (per cui può essere "avvedutezza" o "astuzia", in fondo come già aveva teorizzato Machiavelli nel Principe). Interessante anche la figura di Paolo Paruta (1540-1598), veneziano, che nel trattato Della perfezione della vita politica polemizzò con Machiavelli e teorizzò lo Stato "virtuoso", prendendo a modello la Repubblica veneta che, a suo dire, contemperava i poteri delle diverse classi sociali.
La storiografia: Paolo Sarpi
Il genere storiografico conosce un forte sviluppo nel tardo XVI sec., anche grazie alla diffusione dell'opera di Machiavelli e Guicciardini e alle relative polemiche, e uno degli scrittori più importanti in quest'ambito è il veneziano Paolo Sarpi (1552-1623), frate dell'ordine dei Serviti che si dedicò agli studi teologici e giuridici e si interessò anche di scienza, tanto che fu conosciuto e apprezzato da Galileo Galilei. Nel 1606 divenne canonista della Repubblica veneta e prese parte alla "battaglia dell'interdetto", poiché quell'anno papa Paolo V impose a Venezia di consegnare al Tribunale dell'Inquisizione due sacerdoti colpevoli di reati comuni e la Repubblica si rifiutò, vincendo alla fine la contesa anche grazie alle tesi propugnate da Sarpi. La battaglia attirò su di lui l'accusa di essere luterano (ebbe in effetti contatti con intellettuali protestanti) e nel 1607 subì un tentativo di assassinio, da cui si salvò pur restando gravemente ferito; non si staccò mai apertamente dalla Chiesa di Roma, anche le sue posizioni si irrigidirono man mano che la contesa giurisdizionalistica andava avanti e le sue opere vennero condannate e bruciate dalla Curia. Fu scrittore fecondo e la sua fama è legata soprattutto alla Istoria del Concilio Tridentino, stampata a Londra nel 1619 con lo pseudonimo di Pietro Soave Polano, in cui ricostruì le fasi del Concilio di Trento basandosi su documenti e testimonianze: l'idea espressa è che il Concilio ebbe soprattutto ragioni politiche, affermando il ruolo accentratore del Papato e abbattendo gli ultimi residui delle antiche libertà religiose, per cui fu una gigantesca occasione mancata per riportare unità all'interno del mondo cristiano (► TESTO: I consigli del cardinal Soderini). L'opera suscitò naturalmente vivaci polemiche e la Curia romana diede subito incarico al cardinale Sforza Pallavicino di rispondere con un testo simile che confutasse le tesi espresse da Sarpi, pubblicato nel 1664 col titolo Istoria del Concilio di Trento. Sarpi scrisse anche una Istoria che ricostruiva la controversa vicenda dell'interdetto e che fu pubblicata postuma nel 1624, oltre ad aver lasciato numerosi scritti su questioni religiose e giurisdizionali.
Traiano Boccalini
Un posto a parte tra gli scrittori di storia e politica del XVI-XVII sec. occupa Traiano Boccalini (1556-1613), che dopo aver studiato a Padova fu a Roma al servizio di alcuni papi (Gregorio XIII, Paolo V) e poi si stabilì a Venezia, diventando amico di Paolo Sarpi. Intellettuale vivace e di vasti interessi, fu oppositore del dominio spagnolo in Italia (infatti si disse che morì avvelenato da sicari spagnoli, fatto mai provato) e manifestò sempre uno spirito anticonformistico, analizzando le opere di Tacito e pubblicando dei Commentari che furono stampati (con rimaneggiamenti) dopo la sua morte. Boccalini combatteva il "tacitismo" inteso come mezzo per giustificare l'assolutismo, al pari del machiavellismo, e prese anche le distanze dal concetto di "ragion di Stato" che riteneva immorale in quanto favoriva il potere politico della Chiesa. La sua opera più importante furono i Ragguagli di Parnaso, di cui pubblicò una prima "centuria" nel 1612 e una seconda nel 1613, mentre una terza rimase inedita e fu poi in parte stampata postuma col titolo di Pietra del paragone politico, scritto pieno di spiriti anti-spagnoli (i Ragguagli dovevano probabilmente contare quattro centurie in tutto). L'autore prende spunto dalle gazzette, le pubblicazioni che nel Cinquecento fornivano notizie di politica e altri argomenti a un numero limitato di lettori, e immagina di essere "gazzettiere" del mitico parlamento di Apollo in Parnaso, dando appunto "ragguagli" (notizie) su fatti e personaggi della sua epoca: è una finzione che gli consente di fare satira in modo acre su vari aspetti della cultura del tempo (il dominio spagnolo, il machiavellismo, la cultura pedantesca e aristotelica...) attraverso il mascheramento della favola mitologica, un'opera a metà strada tra la trattatistica politica e la letteratura satirica. I Ragguagli ebbero subito straordinario successo e di lì a pochi anni sarebbero stati ristampati e tradotti all'estero in varie lingue, in tedesco (1617), in inglese (1626), in spagnolo (1634), in fiammingo (1647), mentre vari imitatori provarono a scrivere aggiunte all'opera originale, con scarsi risultati. Tra i passi più celebri del libro si può ricordare il "ragguaglio" in cui Machiavelli, già bandito dal regno di Parnaso per i suoi scritti scandalosi e poi catturato e portato davanti al tribunale di Apollo, si difende affermando che nelle sue opere ha semplicemente descritto la prassi politica attuata da molti sovrani e che tale lettura può risultare utile insegnamento alle persone, con una interpretazione "obliqua" del suo pensiero che tanta fortuna avrebbe avuto in futuro (► TESTO: Machiavelli in Parnaso). Notevole anche il passo in cui lo storico latino Tacito, anch'egli processato per aver fabbricato occhiali che consentono agli uomini semplici di penetrare i pensieri nascosti dei potenti, viene assolto con la raccomandazione di produrre simili occhiali solo ai consiglieri dei principi, non consegnandoli agli uomini "sediziosi" che possono sovvertire con la loro azione gli Stati (► TESTO: Gli occhiali di Tacito).