Letteratura italiana
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Ludovico Ariosto


Lettera a Benedetto Fantino
(Lettere, 14)

In questa lettera datata 1513 e indirizzata all'amico Benedetto Fantino, cancelliere del cardinale Ippolito d'Este, Ariosto descrive il recente viaggio a Roma in cui aveva reso omaggio a papa Leone X appena eletto al soglio pontificio, dal quale il poeta si aspettava aiuti e benefici essendogli amico di vecchia data. Purtroppo in quell'occasione non tardò a rendersi conto che il papa era letteralmente assediato da una folla di postulanti e Ariosto non avrebbe potuto aspettarsi molto da lui, perdendo ben presto ogni speranza (il fatto è accennato anche in alcune "Satire"). La lettera, breve e concisa, mostra una certa auto-ironia da parte dell'autore ed è scritta in un linguaggio colloquiale molto diverso dalle opere destinate alla pubblicazione.

► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto










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AL COME FRATELLO HONORANDO MESSER BENEDETTO FANTINO CANCELLERE DE L'ILLUSTRISSIMO E REVERENDISSIMO CARDINALE DE FERRARA ETC. IN FERRARA.

Messer Benedetto mio honorando. Ho hauto per il mio ragazo [1] una vostra lettera molto tarda [2], perché da Firenze, dove se è fermato qualche giorno, è venuto in qua [3] a piedi, et è stato assai per via. Del negocio vostro non ho fatto anchora nulla, non perché non me lo sia racordato, ma perché non ve ho saputo capo né via. [4] Io son arrivato qui in habito de staffetta [5], e per non haver panni ho schivato de andare a persone de dignità: perché qui, più che in tutti li altri lochi, non sono extimati se non li ben vestiti. È vero che ho baciato il piè al papa [6], e m'ha mostrato de odir volontera [7]: veduto non credo che m'habbia, ché, dopo che è papa, non porta più l'occhiale. Offerta alcuna, né da Sua Santità né da li amici mei divenuti grandi novamente [8], me è stata fatta, li quali mi pare che tutti imitino il papa in veder poco. Io mi sforzarò et hoggi cominciarò, che non serà più longo, a vedere se io potrò haver mezo alcuno con quel Messer Paris. [9] Usar Messer Bernardo [10] per mezo, credo poter male, perché è troppo gran maestro et è gran fatica a potersegli accostare: sì perché ha sempre intorno un sì grosso cerchio de gente che mal si pò penetrare, sì perché si conven combattere a XX usci prima che se arrivi dove sia [11]: la qual cosa a me è tanto odiosa che non so quando lo vedessi; né ancho tento de vederlo, né lui né homo che sia in quel palazo [12]: pur per vostro amor sforzarò la natura mia, ma potrò far poco, perché, fatta la coronatione [13], che serà fra IV dì, faccio pensero de venirmene a Ferrara. Io intendo che a Ferrara si extima che io sia un gran maestro qui [14]: io vi prego che vuj li caviati de questo errore, cioè quelli con che vi accade a parlare, e fatili intendere che son molto da manco [15] che non ero a Ferrara, acciò che, richiedendomi alcuno qualche servicio e non lo facendo per imposibilità, e non lo sapendo essi, mi accusassino de asinità. [16] Altro non m'accade, se non che a voi mi racomando.

Romae, VII Aprilis MDXIII.
Vester Ludovicus Ariostus.




[1]
Ho ricevuto tramite un mio servitore.
[2] Giunta tardivamente. [3] A Roma, dove si trova Ariosto. [4] Perché non ne ho avuta alcuna occasione. [5] In abito da viaggio. [6] Si riferisce all'omaggio al pontefice.
[7]
Volentieri. [8] Ultimamente.
[9] Se potrò usare come intermediario Paride Grassi (dignitario di Leone X).
[10] Bernardo Dovizi da Bibbiena.
[11] Bisogna bussare a molte porte per sapere dove sia.
[12] Non tento di incontrare né lui, né nessun altro membro della Curia. [13] La cerimonia tenutasi a S. Giovanni in Laterano.
[14]
Che io qui goda di molta influenza. [15] Che conto molto meno. [16] Di incapacità.


Interpretazione complessiva

  • La lettera descriva con una buona dose di ironia il viaggio di Ariosto a Roma in occasione dell'incoronazione ufficiale del neo-eletto Leone X, avvenuta con solenne cerimonia a S. Giovanni in Laterano l'11 apr. 1513: il poeta, amico di vecchia data di Giovanni de' Medici, si aspettava di ricevere benefici da lui, tuttavia l'incontro col papa fu tale da disilluderlo e nella lettera accenna brevemente ai motivi del suo disincanto. Infatti ha rivolto il consueto omaggio al pontefice baciandogli il piede (secondo il complesso cerimoniale del tempo) e Leone lo ha accolto benevolmente, ma secondo Ariosto non lo ha visto perché dopo l'elezione non porta più occhiali; non gli ha rivolto alcuna offerta e così neppure gli altri potenti amici dello scrittore, che sembrano tutti imitare il papa "in veder poco". Altrettanto inavvicinabili sono anche gli altri dignitari della Curia, tra cui Ariosto cita il cardinale di Bibbiena (l'autore della commedia Calandria che era suo amico) che è sempre attorniato da troppa gente e che difficilmente potrà essere utile al poeta che, apprendiamo, è a Roma anche per svolgere dei buoni uffici a vantaggio del suo interlocutore, Benedetto Fantino cancelliere del card. Ippolito. La Curia viene presentata come un ambiente dove tutti sono abili a chiedere e scambiare favori e dove conta soprattutto la reputazione, motivo per cui  Ariosto (giunto a Roma "in habito de staffetta") evita di mostrarsi a troppe persone altolocate, mentre più avanti dice di "contare" a Roma ancor meno di quanto non conti a Ferrara, per cui né il Fantino né altri suoi amici devono aspettarsi troppo da lui. Ariosto parla del suo viaggio a Roma anche nella Satira III, dove spiega che il papa deve anzitutto beneficare i suoi parenti e coloro che l'hanno aiutato a diventare pontefice (► TESTO: La felicità delle piccole cose), e nella Satira VII in cui definisce "sciocca speme" l'illusione di ricevere favori da Leone (vv. 64 ss.).
  • Il testo presenta una lingua colloquiale e assai meno curata delle opere destinate alla pubblicazione, aspetto che risalta anche nella grafia latineggiante utilizzata: "hauto" per "avuto" (r. 1), "ragazo" (r. 1), "negocio" (r. 3), "racordato" (r. 3), ecc., tutte forme proprie anche del linguaggio cancelleresco e conformi alla tradizione letteraria italiana, ma in seguito corrette nell'edizione principale delle altre opere. Alcune forme sono dei regionalismi emiliani, come "vuj" (r. 17), "imposibilità" (r. 20) e "racomando" (r. 21), con scempiamento delle geminate come in Boiardo.


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