SCHEDA
Armi da fuoco e cavalleria
L'introduzione delle armi da fuoco e delle artiglierie negli eserciti tra la fine del XV e l'inizio del XVI sec. rappresenta una vera e propria rivoluzione nel modo di combattere le guerre e determina l'inevitabile crisi della cavalleria come corpo militare, con il conseguente declino della figura del cavaliere quale era stata delineata e "mitizzata" nei secoli precedenti del Medioevo, nell'immaginario culturale e letterario più ancora che nell'ambito guerresco in cui essa era nata e si era consolidata. Nelle battaglie del primo Cinquecento a farla da padrone sono soprattutto le artiglierie e la fanteria assume un rilievo decisamente superiore alla cavalleria, determinando ben presto un contrasto tra i fautori del "vecchio stile" di combattimento, nostalgici del confronto ad armi pari basato essenzialmente sull'abilità tattica, e i sostenitori delle novità tecniche, convinti che la superiorità nelle armi da fuoco determini la vittoria sul campo di battaglia, mentre la figura del capitano di ventura entra in crisi ed è destinata a tramontare in quanto non la capacità del singolo è decisiva nel confronto tra gli eserciti, ma la superiorità numerica e il possesso di armi sempre più moderne e micidiali. Certo le guerre nel Cinquecento diventano ancora più cruente e distruttive di quanto non fossero mai state in precedenza e nel corso del secolo saranno soprattutto i grandi Stati nazionali a dotarsi delle artiglierie più efficaci (Francia e Spagna anzitutto, quest'ultima impegnata anche nella colonizzazione del Nuovo Mondo dove proprio i cannoni costituiranno l'elemento di supremazia contro gli indios), mentre l'Italia sarà il teatro di scontri feroci nell'ambito delle guerre tra Francia e Spagna in cui le armi da fuoco daranno dimostrazione della loro potenza, aspetto trattato anche in film moderni come Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi in cui il protagonista, il capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere, cade vittima di un'imboscata in cui viene colpito da un "falconetto", un antenato del moderno fucile dal calibro ben maggiore (► CINEMA: Il mestiere delle armi). Nel film Giovanni rappresenta l'ultimo esponente di un mondo militare ormai al tramonto, in cui tuttavia la guerra non ha nulla di romantico o leggendario ma, al contrario, è dipinta come qualcosa di cupo e tragico, in cui le soldatesche di ventura si trascinano stancamente da una battaglia all'altra e la vita umana appare precaria e senza valore, aspetto raramente toccato dalle opere letterarie del periodo rinascimentale.
Il tema delle armi da fuoco è affrontato in modi diversi da vari scrittori del XVI sec. e fra questi non poteva mancare Niccolò Machiavelli, che alle tecniche militari dedica un intero trattato (i dialoghi Dell'arte della guerra, scritto nel 1519) in cui sembra cogliere il processo in atto per quanto riguarda il declino della cavalleria come elemento militare, tuttavia non comprende fino in fondo l'importanza delle artiglierie cui assegna un ruolo decisivo solo nella difesa e nell'assalto delle città durante gli assedi, mentre per tutto il resto sopravvaluta il peso della fanteria ispirandosi in modo evidente al modo di combattere degli antichi romani, avendo bene in mente la descrizione fatta da Tito Livio delle guerre della Repubblica nella prima decade della sua opera. Sulla questione delle armi da fuoco l'autore affida il suo pensiero al condottiero Fabrizio Colonna, da lui scelto come suo portavoce nel dialogo, il quale ribatte all'obiezione di Luigi Alamanni secondo il quale gli eserciti antichi "potrebbono poco, anzi tutti quanti sarebbero inutili, rispetto al furore delle artiglierie", dicendo che in una battaglia conta assai più non essere offesi che offendere il nemico e i cannoni, poco maneggevoli e pesanti, offrono un vantaggio limitato per le truppe che li usano e che non possono difenderli a lungo se vengono assaliti dagli avversari. È evidente che nella tattica militare Machiavelli ha una visione libresca che si basa molto sulla lettura dei trattati antichi e la sua teoria guerresca è ispirata più alle battaglie dei Romani che non agli scontri degli eserciti cinquecenteschi, per cui non coglie fino in fondo la tremenda portata delle artiglierie che di lì a poco avrebbero totalmente rivoluzionato le tecniche di combattimento in tutta Europa; come detto, la potenza delle armi da fuoco viene esaltata solo nell'assalto alle città fortificate, dove i cannoni possono perforare le mura e aprire un varco alle truppe degli assedianti, mentre per tutto il resto lo scrittore appare legato a una prospettiva del passato e non sembra in grado di valutare correttamente i processi evolutivi in atto (ciò forse spiega i suoi fallimenti nell'operare attivamente circa la difesa della città di Firenze, sia quando tale compito gli era stato affidato dalla Repubblica nel 1506, sia quando un incarico simile gli venne conferito dai Medici nel 1525, poco prima del sacco di Roma compiuto dai lanzichenecchi). Tale mancanza di esperienza sul campo è ragione di rammarico per lo stesso autore, che infatti nel trattato esprime proprio il rimpianto per non poter mettere in pratica quella che lui ritiene una profonda scienza militare, quando fa dire a Fabrizio che non ha avuto realmente occasione di dimostrare il suo valore e concretizzare le sue teorie basate sulle opere antiche, confidando che i giovani potranno farlo in futuro ("E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire").
Posizione alquanto diversa viene espressa negli stessi anni da Ludovico Ariosto, che nell'Orlando furioso introduce il tema delle armi da fuoco col personaggio fantastico di Cimosco, un malvagio re-negromante che ha creato con l'aiuto delle arti magiche un archibugio (ovviamente in anticipo sui tempi) grazie al quale vince ogni battaglia e sconfigge tutti i nemici, fino a invadere l'Olanda e a sottrarre il regno ad Olimpia, la promessa sposa di Bireno (la vicenda è narrata nel Canto IX). Le armi da fuoco vengono mal giudicate dall'autore, che attraverso la metafora di questo episodio condanna l'uso delle artiglierie in quanto contrarie allo spirito della cavalleria e in grado di offrire un vantaggio militare che non ha nulla a che fare col valore e la lealtà, che sono invece le qualità di cui il cavaliere (il prode cavaliere dell'epica cortese, rappresentato nel poema proprio da Orlando) è investito e di cui dà prova nei duelli, in cui chi è più abile e coraggioso prevale sull'avversario. Tale punto di vista è espresso dallo stesso Orlando, che dopo aver appreso da Olimpia la sua triste storia la aiuta a sconfiggere Cimosco e, dopo essere venuto in possesso del micidiale archibugio, lo getta in fondo al mare pronunciando parole molto dure verso i creatori di una simile arma ("O maladetto, o abominoso ordigno, / che fabricato nel tartareo fondo / fosti per man di Belzebù maligno / che ruinar per te disegnò il mondo, / all’inferno, onde uscisti, ti rasigno", IX.91), affermando in sostanza che tale strumento è stato prodotto dal diavolo al fine di distruggere il mondo e accusandolo di rendere forte e vincente anche chi non ha valore e prodezza, quindi di cancellare i valori della cavalleria in cui lo scrittore fortemente crede (► TESTO: Orlando e l'archibugio; ► TESTO: L'orca di Ebuda). La visione di Ariosto non è sicuramente nostalgica e, anzi, egli è perfettamente consapevole della crisi militare della cavalleria che ormai caratterizza la civiltà del primo Cinquecento, tuttavia la condanna delle armi da fuoco è una presa di posizione contro l'evoluzione delle guerre in cui è la forza bruta a prevalere, quindi l'autore rievoca con tristezza un mondo (quello dei duelli cortesi e dei valori cavallereschi, che fanno da sfondo alle vicende del poema) che ormai è destinato a tramontare e che tuttavia lui rimpiange in quanto assai migliore di quello moderno in cui non si riconosce fino in fondo. La sua posizione è di tipo culturale e letterario e il suo rimpianto è piuttosto verso un modello sociale e politico che vede come destinato a finire, mentre la visione di Machiavelli era più legata a questioni strettamente militari (l'uso degli eserciti come mezzo per mantenere il potere) e peccava di superficialità nel non riconoscere l'effettivo valore delle armi da fuoco, aspetto riguardo al quale Ariosto è paradossalmente più consapevole.
Il tema delle armi da fuoco è affrontato in modi diversi da vari scrittori del XVI sec. e fra questi non poteva mancare Niccolò Machiavelli, che alle tecniche militari dedica un intero trattato (i dialoghi Dell'arte della guerra, scritto nel 1519) in cui sembra cogliere il processo in atto per quanto riguarda il declino della cavalleria come elemento militare, tuttavia non comprende fino in fondo l'importanza delle artiglierie cui assegna un ruolo decisivo solo nella difesa e nell'assalto delle città durante gli assedi, mentre per tutto il resto sopravvaluta il peso della fanteria ispirandosi in modo evidente al modo di combattere degli antichi romani, avendo bene in mente la descrizione fatta da Tito Livio delle guerre della Repubblica nella prima decade della sua opera. Sulla questione delle armi da fuoco l'autore affida il suo pensiero al condottiero Fabrizio Colonna, da lui scelto come suo portavoce nel dialogo, il quale ribatte all'obiezione di Luigi Alamanni secondo il quale gli eserciti antichi "potrebbono poco, anzi tutti quanti sarebbero inutili, rispetto al furore delle artiglierie", dicendo che in una battaglia conta assai più non essere offesi che offendere il nemico e i cannoni, poco maneggevoli e pesanti, offrono un vantaggio limitato per le truppe che li usano e che non possono difenderli a lungo se vengono assaliti dagli avversari. È evidente che nella tattica militare Machiavelli ha una visione libresca che si basa molto sulla lettura dei trattati antichi e la sua teoria guerresca è ispirata più alle battaglie dei Romani che non agli scontri degli eserciti cinquecenteschi, per cui non coglie fino in fondo la tremenda portata delle artiglierie che di lì a poco avrebbero totalmente rivoluzionato le tecniche di combattimento in tutta Europa; come detto, la potenza delle armi da fuoco viene esaltata solo nell'assalto alle città fortificate, dove i cannoni possono perforare le mura e aprire un varco alle truppe degli assedianti, mentre per tutto il resto lo scrittore appare legato a una prospettiva del passato e non sembra in grado di valutare correttamente i processi evolutivi in atto (ciò forse spiega i suoi fallimenti nell'operare attivamente circa la difesa della città di Firenze, sia quando tale compito gli era stato affidato dalla Repubblica nel 1506, sia quando un incarico simile gli venne conferito dai Medici nel 1525, poco prima del sacco di Roma compiuto dai lanzichenecchi). Tale mancanza di esperienza sul campo è ragione di rammarico per lo stesso autore, che infatti nel trattato esprime proprio il rimpianto per non poter mettere in pratica quella che lui ritiene una profonda scienza militare, quando fa dire a Fabrizio che non ha avuto realmente occasione di dimostrare il suo valore e concretizzare le sue teorie basate sulle opere antiche, confidando che i giovani potranno farlo in futuro ("E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire").
Posizione alquanto diversa viene espressa negli stessi anni da Ludovico Ariosto, che nell'Orlando furioso introduce il tema delle armi da fuoco col personaggio fantastico di Cimosco, un malvagio re-negromante che ha creato con l'aiuto delle arti magiche un archibugio (ovviamente in anticipo sui tempi) grazie al quale vince ogni battaglia e sconfigge tutti i nemici, fino a invadere l'Olanda e a sottrarre il regno ad Olimpia, la promessa sposa di Bireno (la vicenda è narrata nel Canto IX). Le armi da fuoco vengono mal giudicate dall'autore, che attraverso la metafora di questo episodio condanna l'uso delle artiglierie in quanto contrarie allo spirito della cavalleria e in grado di offrire un vantaggio militare che non ha nulla a che fare col valore e la lealtà, che sono invece le qualità di cui il cavaliere (il prode cavaliere dell'epica cortese, rappresentato nel poema proprio da Orlando) è investito e di cui dà prova nei duelli, in cui chi è più abile e coraggioso prevale sull'avversario. Tale punto di vista è espresso dallo stesso Orlando, che dopo aver appreso da Olimpia la sua triste storia la aiuta a sconfiggere Cimosco e, dopo essere venuto in possesso del micidiale archibugio, lo getta in fondo al mare pronunciando parole molto dure verso i creatori di una simile arma ("O maladetto, o abominoso ordigno, / che fabricato nel tartareo fondo / fosti per man di Belzebù maligno / che ruinar per te disegnò il mondo, / all’inferno, onde uscisti, ti rasigno", IX.91), affermando in sostanza che tale strumento è stato prodotto dal diavolo al fine di distruggere il mondo e accusandolo di rendere forte e vincente anche chi non ha valore e prodezza, quindi di cancellare i valori della cavalleria in cui lo scrittore fortemente crede (► TESTO: Orlando e l'archibugio; ► TESTO: L'orca di Ebuda). La visione di Ariosto non è sicuramente nostalgica e, anzi, egli è perfettamente consapevole della crisi militare della cavalleria che ormai caratterizza la civiltà del primo Cinquecento, tuttavia la condanna delle armi da fuoco è una presa di posizione contro l'evoluzione delle guerre in cui è la forza bruta a prevalere, quindi l'autore rievoca con tristezza un mondo (quello dei duelli cortesi e dei valori cavallereschi, che fanno da sfondo alle vicende del poema) che ormai è destinato a tramontare e che tuttavia lui rimpiange in quanto assai migliore di quello moderno in cui non si riconosce fino in fondo. La sua posizione è di tipo culturale e letterario e il suo rimpianto è piuttosto verso un modello sociale e politico che vede come destinato a finire, mentre la visione di Machiavelli era più legata a questioni strettamente militari (l'uso degli eserciti come mezzo per mantenere il potere) e peccava di superficialità nel non riconoscere l'effettivo valore delle armi da fuoco, aspetto riguardo al quale Ariosto è paradossalmente più consapevole.