Ludovico Ariosto
Cloridano e Medoro
(Orlando furioso, XVIII,164-192; XIX, 1-16)
È uno degli episodi più celebri del poema, avente come protagonisti i due fanti saraceni Cloridano e Medoro: in seguito a un rovescio militare dei pagani, i due guerrieri decidono di tentare una sortita notturna tra le file dei nemici per recuperare il corpo del re Dardinello, rimasto insepolto sul campo di battaglia, e rendere le esequie funebri al sovrano da loro molto amato. Usciti dal loro accampamento, dopo aver fatto strage dei nemici addormentati e ubriachi, trovano il cadavere ma vengono sorpresi da una pattuglia di cavalieri scozzesi comandati da Zerbino e, mentre Cloridano si dà alla fuga, Medoro resta a difendere disperatamente la salma del re. Cloridano non tarda ad accorgersi di aver lasciato solo l'amico e torna ad aiutarlo, ma alla fine i due vengono sopraffatti e il finale è tragico (Cloridano viene ucciso e Medoro ferito gravemente, anche se verrà soccorso da Angelica e guarito). Chiaramente ispirato all'episodio dell'"Eneide" di Eurialo e Niso, il passo ariostesco è una grande celebrazione dell'amicizia e della fedeltà in due personaggi non nobili e non cristiani, mentre la figura di Medoro diverrà centrale nella trama del poema in quanto l'amore tra lui e Angelica provocherà la terribile follia di Orlando.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
XVIII, 164
Tutta la notte per gli alloggiamenti dei malsicuri Saracini oppressi si versan pianti, gemiti e lamenti, ma quanto più si può, cheti e soppressi. Altri, perché gli amici hanno e i parenti lasciati morti, ed altri per se stessi, che son feriti, e con disagio stanno: ma più è la tema del futuro danno. 165 Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro, d'oscura stirpe nati in Tolomitta; de' quai l'istoria, per esempio raro di vero amore, è degna esser descritta. Cloridano e Medor si nominaro, ch'alla fortuna prospera e alla afflitta aveano sempre amato Dardinello, ed or passato in Francia il mar con quello. 166 Cloridan, cacciator tutta sua vita, di robusta persona era ed isnella: Medoro avea la guancia colorita e bianca e grata ne la età novella; e fra la gente a quella impresa uscita non era faccia più gioconda e bella: occhi avea neri, e chioma crespa d'oro: angel parea di quei del sommo coro. 167 Erano questi duo sopra i ripari con molti altri a guardar gli alloggiamenti, quando la Notte fra distanze pari mirava il ciel con gli occhi sonnolenti. Medoro quivi in tutti i suoi parlari non può far che 'l signor suo non rammenti, Dardinello d'Almonte, e che non piagna che resti senza onor ne la campagna. 168 Volto al cornpagno, disse: «O Cloridano, io non ti posso dir quanto m'incresca del mio signor, che sia rimaso al piano, per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca. Pensando come sempre mi fu umano, mi par che quando ancor questa anima esca in onor di sua fama, io non compensi né sciolga verso lui gli oblighi immensi. 169 Io voglio andar, perché non stia insepulto in mezzo alla campagna, a ritrovarlo: e forse Dio vorrà ch'io vada occulto là dove tace il campo del re Carlo. Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto ch'io vi debba morir, potrai narrarlo: che se Fortuna vieta sì bell'opra, per fama almeno il mio buon cor si scuopra.» 170 Stupisce Cloridan, che tanto core, tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo: e cerca assai, perché gli porta amore, di fargli quel pensiero irrito e nullo; ma non gli val, perch'un sì gran dolore non riceve conforto né trastullo. Medoro era disposto o di morire, o ne la tomba il suo signor coprire. 171 Veduto che nol piega e che nol muove, Cloridan gli risponde: «E verrò anch'io, anch'io vuo' pormi a sì lodevol pruove, anch'io famosa morte amo e disio. Qual cosa sarà mai che più mi giove, s'io resto senza te, Medoro mio? Morir teco con l'arme è meglio molto, che poi di duol, s'avvien che mi sii tolto.» 172 Così disposti, messero in quel loco le successive guardie, e se ne vanno. Lascian fosse e steccati, e dopo poco tra' nostri son, che senza cura stanno. Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco, perché dei Saracin poca tema hanno. Tra l'arme e' carriaggi stan roversi, nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi. 173 Fermossi alquanto Cloridano, e disse: «Non son mai da lasciar l'occasioni. Di questo stuol che 'l mio signor trafisse, non debbo far, Medoro, occisioni? Tu, perché sopra alcun non ci venisse, gli occhi e l'orecchi in ogni parte poni; ch'io m'offerisco farti con la spada tra gli nimici spaziosa strada.» 174 Così disse egli, e tosto il parlar tenne, ed entrò dove il dotto Alfeo dormia, che l'anno inanzi in corte a Carlo venne, medico e mago e pien d'astrologia: ma poco a questa volta gli sovenne; anzi gli disse in tutto la bugia. Predetto egli s'avea, che d'anni pieno dovea morire alla sua moglie in seno: 175 ed or gli ha messo il cauto Saracino la punta de la spada ne la gola. Quattro altri uccide appresso all'indovino, che non han tempo a dire una parola: menzion dei nomi lor non fa Turpino, e 'l lungo andar le lor notizie invola: dopo essi Palidon da Moncalieri, che sicuro dormia fra duo destrieri. 176 Poi se ne vien dove col capo giace appoggiato al barile il miser Grillo: avealo voto, e avea creduto in pace godersi un sonno placido e tranquillo. Troncògli il capo il Saracino audace: esce col sangue il vin per uno spillo, di che n'ha in corpo più d'una bigoncia; e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia. 177 E presso a Grillo, un Greco ed un Tedesco spenge in dui colpi, Andropono e Conrado, che de la notte avean goduto al fresco gran parte, or con la tazza, ora col dado: felici, se vegghiar sapeano a desco fin che de l'Indo il sol passassi il guado. Ma non potria negli uomini il destino, se del futuro ognun fosse indovino. 178 Come impasto leone in stalla piena, che lunga fame abbia smacrato e asciutto, uccide, scanna, mangia, a strazio mena l'infermo gregge in sua balìa condutto; così il crudel pagan nel sonno svena la nostra gente, e fa macel per tutto. La spada di Medoro anco non ebe; ma si sdegna ferir l'ignobil plebe. 179 Venuto era ove il duca di Labretto con una dama sua dormia abbracciato; e l'un con l'altro si tenea sì stretto, che non saria tra lor l'aere entrato. Medoro ad ambi taglia il capo netto. Oh felice morire! oh dolce fato! che come erano i corpi, ho così fede ch'andar l'alme abbracciate alla lor sede. 180 Malindo uccise e Ardalico il fratello, che del conte di Fiandra erano figli; e l'uno e l'altro cavallier novello fatto avea Carlo, e aggiunto all'arme i gigli, perché il giorno amendui d'ostil macello con gli stocchi tornar vide vermigli: e terre in Frisa avea promesso loro, e date avria; ma lo vietò Medoro. 181 Gl'insidiosi ferri eran vicini ai padiglioni che tiraro in volta al padiglion di Carlo i paladini, facendo ognun la guardia la sua volta; quando da l'empia strage i Saracini trasson le spade, e diero a tempo volta; ch'impossibil lor par, tra sì gran torma, che non s'abbia a trovar un che non dorma. 182 E ben che possan gir di preda carchi, salvin pur sé, che fanno assai guadagno. Ove più creda aver sicuri i varchi va Cloridano, e dietro ha il suo compagno. Vengon nel campo, ove fra spade ed archi e scudi e lance in un vermiglio stagno giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli, e sozzopra con gli uomini i cavalli. 183 Quivi dei corpi l'orrida mistura, che piena avea la gran campagna intorno, potea far vaneggiar la fedel cura dei duo compagni insino al far del giorno, se non traea fuor d'una nube oscura, a' prieghi di Medor, la Luna il corno. Medoro in ciel divotamente fisse verso la Luna gli occhi, e così disse: 184 «O santa dea, che dagli antiqui nostri debitamente sei detta triforme; ch'in cielo, in terra e ne l'inferno mostri l'alta bellezza tua sotto più forme, e ne le selve, di fere e di mostri vai cacciatrice seguitando l'orme; mostrami ove 'l mio re giaccia fra tanti, che vivendo imitò tuoi studi santi.» 185 La luna a quel pregar la nube aperse (o fosse caso o pur la tanta fede), bella come fu allor ch'ella s'offerse, e nuda in braccio a Endimion si diede. Con Parigi a quel lume si scoperse l'un campo e l'altro; e 'l monte e 'l pian si vede: si videro i duo colli di lontano, Martire a destra, e Lerì all'altra mano. 186 Rifulse lo splendor molto più chiaro ove d'Almonte giacea morto il figlio. Medoro andò, piangendo, al signor caro; che conobbe il quartier bianco e vermiglio: e tutto 'l viso gli bagnò d'amaro pianto, che n'avea un rio sotto ogni ciglio, in sì dolci atti, in sì dolci lamenti, che potea ad ascoltar fermare i venti. 187 Ma con sommessa voce e a pena udita; non che riguardi a non si far sentire, perch'abbia alcun pensier de la sua vita, più tosto l'odia, e ne vorrebbe uscire: ma per timor che non gli sia impedita l'opera pia che quivi il fe' venire. Fu il morto re sugli omeri sospeso di tramendui, tra lor partendo il peso. 188 Vanno affrettando i passi quanto ponno, sotto l'amata soma che gl'ingombra. E già venìa chi de la luce è donno le stelle a tor del ciel, di terra l'ombra; quando Zerbino, a cui del petto il sonno l'alta virtude, ove è bisogno, sgombra, cacciato avendo tutta notte i Mori, al campo si traea nei primi albori. 189 E seco alquanti cavallieri avea, che videro da lunge i dui compagni. Ciascuno a quella parte si traea, sperandovi trovar prede e guadagni. «Frate, bisogna (Cloridan dicea) gittar la soma, e dare opra ai calcagni; che sarebbe pensier non troppo accorto, perder duo vivi per salvar un morto.» 190 E gittò il carco, perché si pensava che 'l suo Medoro il simil far dovesse: ma quel meschin, che 'l suo signor più amava, sopra le spalle sue tutto lo resse. L'altro con molta fretta se n'andava, come l'amico a paro o dietro avesse: se sapea di lasciarlo a quella sorte, mille aspettate avria, non ch'una morte. 191 Quei cavallier, con animo disposto che questi a render s'abbino o a morire, chi qua chi là si spargono, ed han tosto preso ogni passo onde si possa uscire. Da loro il capitan poco discosto, più degli altri è sollicito a seguire; ch'in tal guisa vedendoli temere, certo è che sian de le nimiche schiere. 192 Era a quel tempo ivi una selva antica, d'ombrose piante spessa e di virgulti, che, come labirinto, entro s'intrica di stretti calli e sol da bestie culti. Speran d'averla i duo pagan sì amica, ch'abbi a tenerli entro a' suoi rami occulti. Ma chi del canto mio piglia diletto, un'altra volta ad ascoltarlo aspetto. XIX, 1 Alcun non può saper da chi sia amato, quando felice in su la ruota siede: però c'ha i veri e i finti amici a lato, che mostran tutti una medesma fede. Se poi si cangia in tristo il lieto stato, volta la turba adulatrice il piede; e quel che di cor ama riman forte, ed ama il suo signor dopo la morte. 2 Se, come il viso, si mostrasse il core, tal ne la corte è grande e gli altri preme, e tal è in poca grazia al suo signore, che la lor sorte muteriano insieme. Questo umil diverria tosto il maggiore: staria quel grande infra le turbe estreme. Ma torniamo a Medor fedele e grato, che 'n vita e in morte ha il suo signore amato. 3 Cercando gia nel più intricato calle il giovine infelice di salvarsi; ma il grave peso ch'avea su le spalle, gli facea uscir tutti i partiti scarsi. Non conosce il paese, e la via falle, e torna fra le spine a invilupparsi. Lungi da lui tratto al sicuro s'era l'altro, ch'avea la spalla più leggiera. 4 Cloridan s'è ridutto ove non sente di chi segue lo strepito e il rumore: ma quando da Medor si vede assente, gli pare aver lasciato a dietro il core. «Deh, come fui (dicea) sì negligente, deh, come fui sì di me stesso fuore, che senza te, Medor, qui mi ritrassi, né sappia quando o dove io ti lasciassi!» 5 Così dicendo, ne la torta via de l'intricata selva si ricaccia; ed onde era venuto si ravvia, e torna di sua morte in su la traccia. Ode i cavalli e i gridi tuttavia, e la nimica voce che minaccia: all'ultimo ode il suo Medoro, e vede che tra molti a cavallo è solo a piede. 6 Cento a cavallo, e gli son tutti intorno: Zerbin commanda e grida che sia preso. L'infelice s'aggira com'un torno, e quanto può si tien da lor difeso, or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno, né si discosta mai dal caro peso. L'ha riposato al fin su l'erba, quando regger nol puote, e gli va intorno errando: 7 come orsa, che l'alpestre cacciatore ne la pietrosa tana assalita abbia, sta sopra i figli con incerto core, e freme in suono di pietà e di rabbia: ira la 'nvita e natural furore a spiegar l'ugne e a insanguinar le labbia; amor la 'ntenerisce, e la ritira a riguardare ai figli in mezzo l'ira. 8 Cloridan, che non sa come l'aiuti, e ch'esser vuole a morir seco ancora, ma non ch'in morte prima il viver muti, che via non truovi ove più d'un ne mora; mette su l'arco un de' suoi strali acuti, e nascoso con quel sì ben lavora, che fora ad uno Scotto le cervella, e senza vita il fa cader di sella. 9 Volgonsi tutti gli altri a quella banda ond'era uscito il calamo omicida. Intanto un altro il Saracin ne manda, perché 'l secondo a lato al primo uccida; che mentre in fretta a questo e a quel domanda chi tirato abbia l'arco, e forte grida, lo strale arriva e gli passa la gola, e gli taglia pel mezzo la parola. 10 Or Zerbin, ch'era il capitano loro, non poté a questo aver più pazienza. Con ira e con furor venne a Medoro, dicendo: «Ne farai tu penitenza.» Stese la mano in quella chioma d'oro, e strascinollo a sé con violenza: ma come gli occhi a quel bel volto mise, gli ne venne pietade, e non l'uccise. 11 Il giovinetto si rivolse a' prieghi, e disse: «Cavallier, per lo tuo Dio, non esser sì crudel, che tu mi nieghi ch'io sepelisca il corpo del re mio. Non vo' ch'altra pietà per me ti pieghi, né pensi che di vita abbi disio: ho tanta di mia vita, e non più, cura, quanta ch'al mio signor dia sepultura. 12 E se pur pascer vòi fiere ed augelli, che 'n te il furor sia del teban Creonte, fa lor convito di miei membri, e quelli sepelir lascia del figliuol d'Almonte.» Così dicea Medor con modi belli, e con parole atte a voltare un monte; e sì commosso già Zerbino avea, che d'amor tutto e di pietade ardea. 13 In questo mezzo un cavallier villano, avendo al suo signor poco rispetto, ferì con una lancia sopra mano al supplicante il delicato petto. Spiacque a Zerbin l'atto crudele e strano; tanto più, che del colpo il giovinetto vide cader sì sbigottito e smorto, che 'n tutto giudicò che fosse morto. 14 E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse, che disse: «Invendicato già non fia!» e pien di mal talento si rivolse al cavallier che fe' l'impresa ria: ma quel prese vantaggio, e se gli tolse dinanzi in un momento, e fuggì via. Cloridan, che Medor vede per terra, salta del bosco a discoperta guerra. 15 E getta l'arco, e tutto pien di rabbia tra gli nimici il ferro intorno gira, più per morir, che per pensier ch'egli abbia di far vendetta che pareggi l'ira. Del proprio sangue rosseggiar la sabbia fra tante spade, e al fin venir si mira; e tolto che si sente ogni potere, si lascia a canto al suo Medor cadere. 16 Seguon gli Scotti ove la guida loro per l'alta selva alto disdegno mena, poi che lasciato ha l'uno e l'altro Moro, l'un morto in tutto, e l'altro vivo a pena. Giacque gran pezzo il giovine Medoro, spicciando il sangue da sì larga vena, che di sua vita al fin saria venuto, se non sopravenia chi gli diè aiuto. |
Tutta la notte negli accampamenti dei Saraceni, malsicuri e sconfitti, si levano pianti, lamenti e gemiti, ma silenziosi e soffocati quanto più è possibile. Alcuni si lamentano perché hanno lasciati morti i parenti e gli amici, altri perché sono feriti essi stessi, e sopportano disagio: ma quel che temono di più sono i danni futuri. Qui tra gli altri c'erano due Mori nati a Tolomitta, di famiglia non nobile, la cui storia è degna di essere raccontata in quanto raro esempio di vero amore. Si chiamavano Cloridano e Medoro, che nelle circostanze fortunate e avverse avevano sempre amato il loro re Dardinello e insieme a lui avevano varcato il mare sino in Francia. Cloridano, che era sempre stato un cacciatore, era robusto e snello: Medoro aveva il volto roseo e bianco, piacevole per la giovane età; e tra i guerrieri che partecipavano a quell'impresa, non c'era una faccia più bella e gioconda della sua: aveva gli occhi neri e i capelli ricci e biondi: sembrava un angelo del coro più alto. Questi due erano sopra le trincee, con molti altri, a fare la guardia al campo, quando la Notte osservava con gli occhi sonnolenti il cielo fra uguali distanze [era mezzanotte]. Medoro in ogni suo discorso non può evitare di rammentare il suo signore, Dardinello figlio di Almonte, e di piangere perché il suo corpo è rimasto nella campagna. Rivolto al suo compagno, disse: «Cloridano, io non posso dirti quanto mi dispiaccia che il mio signore sia rimasto sul campo, col rischio di essere divorato, ahimè!, da lupi e corvi. Pensando a come fu sempre cortese con me, mi sembra che se anche io dessi la vita per la sua fama, non potrei ripagare né annullare gli obblighi enormi che ho verso di lui. Io voglio andare a ritrovarlo, affinché non resti insepolto in mezzo alla campagna: e forse Dio vorrà che io passi inosservato là dove il campo del re Carlo è in silenzio. Tu resterai qui; infatti, se in cielo è stabilito che io debba morire, potrai raccontarlo: se il destino impedisce una così bella impresa, almeno il mio buon cuore si conosca per fama». Cloridano si stupisce che un ragazzo abbia tanto coraggio, tanto amore, tanta fedeltà: e poiché lo ama, tenta in ogni modo di dissuaderlo da quel proposito, ma non vi riesce, perché Medoro non può confortarsi da un così grande dolore. Medoro era pronto a morire, o a seppellire il suo signore. Visto che non può in alcun modo dissuaderlo, Cloridano gli risponde: «Verrò anch'io, anch'io voglio sottopormi a una così lodevole prova, anch'io desidero una morte famosa. E cosa mai potrà più giovarmi se io resto senza di te, amico mio Medoro? È molto meglio morire con te tra le armi che non di dolore, se dovessi sopravviverti». Così decisi, lasciarono il posto alle sentinelle successive e se andarono. Superano fosse e steccati e dopo poco tempo sono tra i nostri, che se ne stanno senza cura. Il campo è addormentato e il fuoco è spento, perché hanno poca paura dei Saraceni. Stanno sdraiati tra le armi e i carri, immersi sino agli occhi nel vino e nel sonno. Cloridano si fermò un momento e disse: «Le occasioni non devono mai essere lasciate. O Medoro, non devo forse uccidere qualcuno di questo esercito, che uccise il mio signore? Tu sta' attento con occhi e orecchi da ogni parte, perché nessuno ci sorprenda: io intanto ti apro con la spada una strada spaziosa tra i nemici». Così disse Cloridano e subito tacque, andando dove dormiva il dotto Alfeo, che l'anno prima giunse nella corte di Carlo Magno ed era un medico e un mago esperto di astrologia: ma questa volta gli servì a poco, anzi ne fu proprio ingannato. Aveva infatti previsto che doveva morire in tarda età, tra le braccia della moglie: e ora il cauto Saraceno [Cloridano] gli ha messo la punta della spada nella gola. Ne uccide altri quattro dopo l'indovino, che non fanno in tempo a dire una parola: Turpino non cita i loro nomi e il tempo ha cancellato le notizie relative a loro: dopo di essi [uccide] Palidone da Moncalieri, che dormiva sicuro tra due cavalli. Poi va dove il misero Grillo dorme col capo appoggiato al barile: lo aveva vuotato e credeva di godersi in pace un sonno del tutto tranquillo. L'audace Saraceno gli tagliò la testa: il sangue esce col vino come da una botte, poiché ne ha in corpo come un'otre; sogna di bere, intanto Cloridano lo squarta. E vicino a Grillo, uccide con due colpi un Greco e un Tedesco, Andropono e Corrado, che si erano divertiti al fresco gran parte della notte, bevendo e giocando: sarebbero stati felici, se fossero rimasti svegli a tavola sino a quando il sole varcasse il guado dell'Indo [sino all'alba]. Ma il destino sarebbe impotente con gli uomini, se ognuno potesse indovinare il futuro. Come un leone digiuno in una stalla piena, che sia stato smagrito da una lunga fame, uccide, scanna, mangia e fa strage del povero gregge esposto alla sua ferocia, così il crudele pagano [Cloridano] uccide nel sonno i cristiani e fa un macello ovunque. Neanche la spada di Medoro rimane inerte, ma si sdegna di colpire i soldati non nobili. Era giunto dove il duca di Labretto dormiva abbracciato a una dama e i due si tenevano stretti, tanto che tra di loro non sarebbe passata aria. Medoro taglia di netto a entrambi la testa. Oh, che morte fatale! Oh, che dolce destino! Infatti, come erano i corpi, così credo che le anime andarono alla loro sede abbracciate. Medoro uccise Malindo e suo fratello Ardalico, che erano figli del conte di Fiandra; e Carlo li aveva appena nominati cavalieri e aggiunto i gigli [del regno di Francia] al loro stemma, perché quel giorno aveva visto entrambi tornare con le spade insanguinate per la strage dei nemici: e aveva promesso loro terre in Frisia e gliele avrebbe date, ma Medoro lo impedì. Le spade insidiose erano vicine alle tende che i paladini avevano drizzato intorno a quella di Carlo Magno, ognuno facendo a turno la guardia; quando i Saraceni trassero le loro spade dall'empia strage e si affrettarono; infatti sembrava loro impossibile, in un così largo stuolo, trovare un nemico che non fosse addormentato. E anche se potrebbero andarsene carichi di bottino, pensino a salvarsi, che sarebbe un gran guadagno. Cloridano si dirige dove pensa di trovare un passaggio sicuro, dove tra spade ed archi, scudi e lance in una pozza di sangue giacciono poveri e ricchi, re e vassalli, e gli uomini sottosopra con i cavalli [sul campo di battaglia]. Qui l'orrenda mistura dei corpi, che aveva riempito la grande campagna tutt'intorno, poteva far sì che i due compagni cercassero [il corpo di Dardinello] sino all'alba, se la Luna non tirava fuori da una nube oscura il suo corno, alle preghiere di Medoro. Questi fissò gli occhi devotamente in cielo alla Luna e disse: «O santa dea, che dai nostri antenati sei giustamente detta triforme, poiché mostri in cielo, in terra e negli inferi la tua grande bellezza sotto più forme, e segui le orme di fiere e belve nelle selve, come cacciatrice; mostrami dove giaccia tra tanti cadaveri il mio re, che vivendo imitò le tue sante azioni». La Luna a quelle preghiere squarciò la nube, o per caso o per la grande fede di Medoro, bella come fu allora quando si offrì e si diede nuda in braccio a Endimione. A quella luce si scoprì Parigi ed entrambi i campi militari; e si vide il monte e la pianura e si scorsero i due colli da lontano, a destra Montmartre e dall'altra parte Monthléry. Lo splendore rifulse molto più chiaro là dove giaceva morto il figlio di Almonte [Dardinello]. Medoro andò piangendo dal suo caro signore, che infatti riconobbe dallo scudo a quartiere bianco e rosso: gli bagnò tutto il viso di amaro pianto, poiché ne aveva un fiume sotto ogni ciglio, con atti e lamenti così dolci che i venti, ascoltandolo, potevano arrestarsi. Ma [Medoro gemeva] con voce sommessa e a malapena udita; non per non farsi sentire, per timore della sua vita, che infatti odia e ne vorrebbe uscire, ma per paura che gli sia impedita l'opera devota che lo ha fatto venire qui. Il cadavere fu portato a spalla da entrambi, spartendo tra loro il peso. I due affrettano per quanto possibile il passo, sotto il peso amato che li impaccia. E ormai spuntava chi è signore della luce [il sole] a far sparire le stelle dal cielo e l'ombra dalla terra: quando Zerbino, al quale l'alta virtù quando c'è bisogno sgombra il sonno dal petto, dopo aver cacciato i Mori tutta la notte, si ritirava al campo sul far dell'alba. E con sé aveva alcuni cavalieri, che videro i due compagni da lontano. Ciascuno andava da quella parte, sperando di far preda e bottino. «Fratello, diceva Cloridano, bisogna gettare il corpo e mettersi a correre; sarebbe un pensiero non molto astuto perdere due vivi per salvare un morto». E gettò il corpo, perché pensava che il suo amico Medoro dovesse fare lo stesso: ma quel poverino, che amava di più il suo re, lo resse tutto sulle sue spalle. L'altro se ne andava in fretta, come se avesse l'amico al suo fianco o dietro: se avesse saputo di lasciarlo al suo destino, avrebbe aspettato non una, ma mille morti. Quei cavalieri, pensando che i due Mori debbano arrendersi o morire, si spargono tutt'intorno e ben presto chiudono ogni varco da cui si possa uscire. Il loro capitano [zerbino], poco lontano da loro, è più sollecito degli altri a inseguirli; infatti, vedendoli così impauriti, è certo che siano due nemici. A quel tempo lì c'era un'antica selva, piena di piante ombrose e di arbusti, che all'interno è intricata come un labirinto con stretti sentieri percorsi solo da bestie. I due pagani sperano di averla amica, tale che possa nasconderli tra i suoi rami. Ma chi si diletta a sentire il mio canto, lo aspetto un'altra volta ad ascoltarlo. Nessuno può sapere da chi sia amato, quando siede felice sulla ruota della Fortuna: infatti ha accanto gli amici veri e falsi, che mostrano tutti la stessa fedeltà. Se poi lo stato lieto diventa triste, la folla adulatrice gira il piede; quello che ama di cuore resta saldo e ama il suo signore anche dopo la morte. Se il cuore si mostrasse come il viso, chi nella corte è potente e tiranneggia gli altri scambierebbe il suo posto con chi è poco apprezzato dal suo signore. Chi è umile diventerebbe subito il più grande: l'altro starebbe con la folla di chi è meno importante. Ma torniamo a Medoro, fedele e grato, che ha amato il suo signore in vita e in morte. L'infelice giovane cercava di salvarsi nei sentieri più intricati, ma il grave peso che aveva sulle spalle gli rendeva difficile riuscire nel suo intento. Non conosce la zona e sbaglia strada, e torna a perdersi tra i rovi. L'altro [Cloridano], che aveva le spalle più leggere, si era ormai portato al sicuro lontano da lui. Cloridano si è portato dove non sente più lo strepito e il rumore di chi insegue: ma quando vede che Medoro non è con lui, gli sembra di aver lasciato indietro il suo cuore. Diceva: «Ah, come ho potuto essere così negligente, così fuori di me da venire fin qui senza di te, Medoro, senza sapere quando o dove ti ho lasciato!» Dicendo così, torna nelle intricate vie della selva boscosa; e ripercorre le strade donde era venuto, seguendo la traccia della propria morte. Sente i cavalli e le grida, e la voce dei nemici che minaccia: alla fine sente il suo amico Medoro e vede che è solo, a piedi, circondato da molti cavalieri. Sono cento a cavallo e lo circondano: Zerbino ordina e grida che sia catturato. Il poverino gira su se stesso come un tornio e cerca di difendersi come può, dietro una quercia, o un olmo, o un faggio, o un orno, e non si allontana mai dalla cara salma di Dardinello. Alla fine lo ha deposto sull'erbe, poiché non lo può più reggere, e gli gira tutt'intorno: [fa] come un'orsa, che il cacciatore di montagna ha assalito nella sua tana in una grotta e che sta sopra i piccoli con cuore incerto, e freme emettendo suoni di pietà e rabbia: l'ira e il furore istintivo la invitano a spiegare gli artigli e insanguinare le fauci, l'amore la intenerisce e la trattiene a proteggere i figli nell'ira. Cloridano, che non sa come aiutare Medoro, e che vorrebbe morire insieme a lui ma non prima di aver trovato il modo di uccidere più nemici, incocca nel proprio arco una delle sue frecce acuminate, e stando nascosto la scaglia con tale maestria che trapassa il cranio a uno Scozzese, e lo fa cadere morto di sella. Tutti gli altri si voltano dalla parte da dove è uscita la freccia assassina. Intanto il Saraceno ne scaglia un'altra, per uccidere un secondo nemico a fianco al primo; e mentre quello domanda in fretta all'uno e all'altro chi abbia tirato la freccia e grida forte, il dardo arriva e gli trapassa la gola, troncandogli la parola a metà. Allora Zerbino, che era il loro capitano, non poté più sopportare questo. Raggiunse Medoro con ira e furore, dicendo: «Pagherai tu per questo». Stese la mano sui suoi capelli biondi e lo trascinò a sé con violenza: ma non appena fissò con gli occhi quel bel volto, fu preso da pietà e non lo uccise. Il giovane iniziò a pregare e disse: «Cavaliere, in nome del tuo Dio non essere tanto crudele da negarmi di seppellire il corpo del mio re. Non voglio che tu provi per me altra pietà, né che tu pensi che io desideri vivere: mi preme vivere solo quel tanto che basti a dare sepoltura al mio signore, e non più. E se proprio vuoi dare qualcosa in pasto alle fiere e agli uccelli, essendo in te il furore del tebano Creonte, imbandisci loro le mie carni e lascia che seppellisca il corpo del figlio di Almonte [Dardinello]». Così parlava Medoro con begli atteggiamenti, e con parole che avrebbero smosso una montagna; e aveva ormai commosso Zerbino, che bruciava tutto di amore e pietà. In quel mentre un cavaliere scortese, mostrando poco rispetto al suo signore, ferì il delicato petto Medoro scagliandogli contro una lancia. A Zerbino non piacque quell'atto crudele e insensato, tanto più che a causa del colpo vide il giovane cadere così malridotto, che pensò senza dubbio che fosse morto. E fu colto da sdegno e dolore al punto tale che disse: «Non resterà invendicato!» E si rivolse pieno di rabbia al cavaliere che aveva compiuto quell'azione malvagia: ma quello si avvantaggiò e s'allontanò all'istante, fuggendo via. Cloridano, che vede Medoro a terra, esce dalla boscaglia dando battaglia allo scoperto. E getta via l'arco e tutto pieno di rabbia rotea la spada tra i nemici, per cercare la morte più che per compiere una vendetta che appiani la sua ira. Vede la sabbia rossa del proprio sangue, tra tante spade, e capisce di essere arrivato alla fine; e quando si sente privo di forze, si lascia cadere accanto al suo amico Medoro. Gli Scozzesi seguono Zerbino che si inoltra nella profonda selva portato dallo sdegno, dopo che ha lasciato lì i due Mori, uno dei quali è morto e l'altro è vivo a malapena. Il giovane Medoro giacque ferito per molto tempo, col sangue che usciva copioso da una larga ferita, cosicché sarebbe certamente morto se non fosse sopraggiunto qualcuno a dargli soccorso. |
Interpretazione complessiva
- L'episodio, uno dei più famosi del poema e dei più celebrati della letteratura del Cinquecento, è chiaramente ispirato a quello di Eurialo e Niso narrato nel libro IX dell'Eneide, rispetto al quale Ariosto opera comunque dei cambiamenti: nel poema di Virgilio è Niso, il più anziano dei due, a proporre la sortita notturna e lo scopo è raggiungere Enea per informarlo del fatto che il campo troiano è sotto assedio; i due protagonisti sono guerrieri troiani compagni di Enea, mentre qui Cloridano e Medoro sono due fanti saraceni nemici dei cristiani; la conclusione del passo dell'Eneide era tragica per entrambi i protagonisti, mentre qui Medoro sopravvive e sarà soccorso da Angelica che si innamorerà di lui, originando indirettamente la follia di Orlando (► TESTO: L'amore di Angelica e Medoro). L'imitazione virgiliana è invece stretta quando i due Mori si inoltrano nel campo cristiano e fanno strage dei nemici, come fanno Eurialo e Niso tra le file dei Latini, inoltre anche qui Cloridano-Niso fugge dai nemici credendo di avere accanto Medoro-Eurialo, che invece è rimasto indietro (nell'Eneide il giovane troiano era impacciato dal peso dei trofei saccheggiati ai nemici, qui Medoro regge sulle spalle il corpo di Dardinello). Quasi identica è poi la sequenza in cui Cloridano trafigge con le frecce i nemici, per poi gettarsi nella mischia quando crede che Medoro sia morto (nel poema latino Niso raggiunge Volcente, il capo dei nemici che ha ucciso Eurialo, uccidendolo a sua volta). Come nel passo di Virgilio vi è una celebrazione del coraggio e del valore dei due guerrieri pagani, oltre che della fedeltà estrema che i due (soprattutto Medoro) dimostrano per il loro defunto re, mentre nell'Eneide vi era anche la condanna della guerra come atto insensato che causa il sacrificio di giovani vite, uno dei temi portanti del poema latino.
- Tutta la sequenza della strage dei nemici dormienti (XVIII, 173-181) riprende strettamente Aen., IX, 314-366, anche con l'imitazione letterale di alcuni passi: anche là era Niso, il più anziano dei due, a proporre di uccidere i cristiani e a invitare il compagno a fare la guardia, quindi aggrediva l'augure Ramnete, di cui Virgilio diceva che non era stato abile a prevedere la propria morte; Niso uccideva poi Serrano, che aveva fatto tardi giocando e che meglio avrebbe fatto a prolungare la veglia; la similitudine dell'ott. 178 con l'"impasto leone" riprende letteralmente Aen., IX, 339-341 (impastus ceu plena leo per ovilia turbans / suadet enim vesana fames manditque trahitque / molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento: "Così un leone digiuno, terrore dell'ovile, mentre una fame rabbiosa lo sospinge, divora e sbrana il gregge tremante e muto per la paura, e ruggisce orrendamente con la bocca insanguinata").
- Il momento saliente dell'episodio è la preghiera di Medoro a Zerbino, il figlio del re di Scozia che comanda l'avanguardia di cavalieri che sorprende i due guerrieri saraceni, e che viene toccato dalla fedeltà e dall'amore per il suo re che il giovane fante dimostra: Zerbino, il personaggio forse più attaccato all'ideale di cortesia di tutto il poema, decide di risparmiare Medoro ed è sdegnato dalla crudeltà dimostrata dal suo cavaliere che lo colpisce a tradimento, al punto che paradossalmente lo insegue nel bosco per punirlo. Anche quando verrà poi soccorso da Angelica, Medoro non vorrà lasciare quel luogo prima di aver dato sepoltura a Dardinello e all'amico Cloridano, dimostrando ulteriormente la sua fedeltà a entrambi. Zerbino invece morirà eroicamente nel tentativo di impedire al pagano Mandricardo di impadronirsi della spada che Orlando ha abbandonato in seguito alla sua follia, causata proprio dall'amore di Angelica e Medoro (XXIV, 58 ss.).
- Nel descrivere la morte di Alfeo (XVIII, 174-175), l'astrologo che non è stato abile a predire la propria tragica fine, Ariosto conduce una sottile e ironica polemica verso la diffusione delle pratiche magiche e stregonesche nell'Europa del XVI sec., in particolare nelle corti dove era spesso presente un astrologo consultato anche dai sovrani sulle questioni più delicate (celebre l'esempio di Nostradamus, le cui profezie ebbero largo seguito e che fu invitato alla corte di Francia da Caterina de' Medici nel tardo Cinquecento). Ariosto mostra di irridere con sarcasmo a queste credenze e anche nel brano di Astolfo sulla Luna (XXXIV, 85) afferma che molti perdono il senno dietro alle "magiche sciocchezze" (► VAI AL TESTO), mentre lo stesso Guicciardini nei Ricordi (207) afferma che "Non sanno gli astrologi quello dicono, non si appongono se non a caso".