Ludovico Ariosto
La fuga di Angelica (prima parte)
(Orlando furioso, I, 5-32)
Approfittando di una sconfitta sul campo dei cristiani, Angelica (che Carlo Magno ha affidato alla custodia del vecchio duca Namo di Baviera) si dà alla fuga e viene variamente inseguita in un bosco da alcuni paladini, tra cui Rinaldo, che ora lei odia avendo bevuto alla fonte del disamore, e Ferraù, già uccisore del fratello Argalìa e da lei a suo tempo rifiutato. I due guerrieri saranno anche protagonisti di un duello accanito, prima di sospenderlo per riprendere l'inseguimento della fanciulla. La selva con cui si apre il poema ricorda vagamente la "selva oscura" posta all'inizio della "Commedia" dantesca, anche se qui rappresenta la vita umana in cui tutti siamo all'affannosa ricerca di qualcosa che non troveremo.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
5
Orlando, che gran tempo innamorato fu de la bella Angelica, e per lei in India, in Media, in Tartaria lasciato avea infiniti ed immortal trofei, in Ponente con essa era tornato, dove sotto i gran monti Pirenei con la gente di Francia e de Lamagna re Carlo era attendato alla campagna, 6 per far al re Marsilio e al re Agramante battersi ancor del folle ardir la guancia, d’aver condotto, l’un, d’Africa quante genti erano atte a portar spada e lancia; l’altro, d’aver spinta la Spagna inante a destruzion del bel regno di Francia. E così Orlando arrivò quivi a punto: ma tosto si pentì d’esservi giunto; 7 che vi fu tolta la sua donna poi: ecco il giudicio uman come spesso erra! Quella che dagli esperi ai liti eoi avea difesa con sì lunga guerra, or tolta gli è fra tanti amici suoi, senza spada adoprar, ne la sua terra. Il savio imperator, ch’estinguer volse un grave incendio, fu che gli la tolse. 8 Nata pochi dì inanzi era una gara tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo, che entrambi avean per la bellezza rara d’amoroso disio l’animo caldo. Carlo, che non avea tal lite cara, che gli rendea l’aiuto lor men saldo, questa donzella, che la causa n’era, tolse, e diè in mano al duca di Bavera; 9 in premio promettendola a quel d’essi, ch’in quel conflitto, in quella gran giornata, degl’infideli più copia uccidessi, e di sua man prestasse opra più grata. Contrari ai voti poi furo i successi; ch’in fuga andò la gente battezzata, e con molti altri fu ‘l duca prigione, e restò abbandonato il padiglione. 10 Dove, poi che rimase la donzella ch’esser dovea del vincitor mercede, inanzi al caso era salita in sella, e quando bisognò le spalle diede, presaga che quel giorno esser rubella dovea Fortuna alla cristiana fede: entrò in un bosco, e ne la stretta via rincontrò un cavallier ch’a piè venìa. 11 Indosso la corazza, l’elmo in testa, la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo; e più leggier correa per la foresta, ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo. Timida pastorella mai sì presta non volse piede inanzi a serpe crudo, come Angelica tosto il freno torse, che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse. 12 Era costui quel paladin gagliardo, figliuol d’Amon, signor di Montalbano, a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo per strano caso uscito era di mano. Come alla donna egli drizzò lo sguardo, riconobbe, quantunque di lontano, l’angelico sembiante e quel bel volto ch’all’amorose reti il tenea involto. 13 La donna il palafreno a dietro volta, e per la selva a tutta briglia il caccia; né per la rara più che per la folta, la più sicura e miglior via procaccia: ma pallida, tremando, e di sé tolta, lascia cura al destrier che la via faccia. Di sù di giù, ne l’alta selva fiera tanto girò, che venne a una riviera. 14 Su la riviera Ferraù trovosse di sudor pieno e tutto polveroso. Da la battaglia dianzi lo rimosse un gran disio di bere e di riposo; e poi, mal grado suo, quivi fermosse, perché, de l’acqua ingordo e frettoloso, l’elmo nel fiume si lasciò cadere, né l’avea potuto anco riavere. 15 Quanto potea più forte, ne veniva gridando la donzella ispaventata. A quella voce salta in su la riva il Saracino, e nel viso la guata; e la conosce subito ch’arriva, ben che di timor pallida e turbata, e sien più dì che non n’udì novella, che senza dubbio ell’è Angelica bella. 16 E perché era cortese, e n’avea forse non men de’ dui cugini il petto caldo, l’aiuto che potea tutto le porse, pur come avesse l’elmo, ardito e baldo: trasse la spada, e minacciando corse dove poco di lui temea Rinaldo. Più volte s’eran già non pur veduti, m’al paragon de l’arme conosciuti. 17 Cominciar quivi una crudel battaglia, come a piè si trovar, coi brandi ignudi: non che le piastre e la minuta maglia, ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi. Or, mentre l’un con l’altro si travaglia, bisogna al palafren che ‘l passo studi; che quanto può menar de le calcagna, colei lo caccia al bosco e alla campagna. 18 Poi che s’affaticar gran pezzo invano i dui guerrier per por l’un l’altro sotto, quando non meno era con l’arme in mano questo di quel, né quel di questo dotto; fu primiero il signor di Montalbano, ch’al cavallier di Spagna fece motto, sì come quel ch’ha nel cuor tanto fuoco, che tutto n’arde e non ritrova loco. 19 Disse al pagan: «Me sol creduto avrai, e pur avrai te meco ancora offeso: se questo avvien perché i fulgenti rai del nuovo sol t’abbino il petto acceso, di farmi qui tardar che guadagno hai? che quando ancor tu m’abbi morto o preso, non però tua la bella donna fia; che, mentre noi tardiam, se ne va via. 20 Quanto fia meglio, amandola tu ancora, che tu le venga a traversar la strada, a ritenerla e farle far dimora, prima che più lontana se ne vada! Come l’avremo in potestate, allora di chi esser de’ si provi con la spada: non so altrimenti, dopo un lungo affanno, che possa riuscirci altro che danno.» 21 Al pagan la proposta non dispiacque: così fu differita la tenzone; e tal tregua tra lor subito nacque, sì l’odio e l’ira va in oblivione, che ‘l pagano al partir da le fresche acque non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone: con preghi invita, ed al fin toglie in groppa, e per l’orme d’Angelica galoppa. 22 Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! Eran rivali, eran di fé diversi, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi; e pur per selve oscure e calli obliqui insieme van senza sospetto aversi. Da quattro sproni il destrier punto arriva ove una strada in due si dipartiva. 23 E come quei che non sapean se l’una o l’altra via facesse la donzella (però che senza differenza alcuna apparia in amendue l’orma novella), si messero ad arbitrio di fortuna, Rinaldo a questa, il Saracino a quella. Pel bosco Ferraù molto s’avvolse, e ritrovossi al fine onde si tolse. 24 Pur si ritrova ancor su la rivera, là dove l’elmo gli cascò ne l’onde. Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l’elmo che ‘l fiume gli asconde, in quella parte onde caduto gli era discende ne l’estreme umide sponde: ma quello era sì fitto ne la sabbia, che molto avrà da far prima che l’abbia. 25 Con un gran ramo d’albero rimondo, di ch’avea fatto una pertica lunga, tenta il fiume e ricerca sino al fondo, né loco lascia ove non batta e punga. Mentre con la maggior stizza del mondo tanto l’indugio suo quivi prolunga, vede di mezzo il fiume un cavalliero insino al petto uscir, d’aspetto fiero. 26 Era, fuor che la testa, tutto armato, ed avea un elmo ne la destra mano: avea il medesimo elmo che cercato da Ferraù fu lungamente invano. A Ferraù parlò come adirato, e disse: «Ah mancator di fé, marano! perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi, che render già gran tempo mi dovevi? 27 Ricordati, pagan, quando uccidesti d’Angelica il fratel (che son quell’io), dietro all’altr’arme tu mi promettesti gittar fra pochi dì l’elmo nel rio. Or se Fortuna (quel che non volesti far tu) pone ad effetto il voler mio, non ti turbare; e se turbar ti déi, turbati che di fé mancato sei. 28 Ma se desir pur hai d’un elmo fino, trovane un altro, ed abbil con più onore; un tal ne porta Orlando paladino, un tal Rinaldo, e forse anco migliore: l’un fu d’Almonte, e l’altro di Mambrino: acquista un di quei dui col tuo valore; e questo, ch’hai già di lasciarmi detto, farai bene a lasciarmi con effetto.» 29 All’apparir che fece all’improvviso de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi, e scolorossi al Saracino il viso; la voce, ch’era per uscir, fermossi. Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso quivi avea già (che l’Argalia nomossi) la rotta fede così improverarse, di scorno e d’ira dentro e di fuor arse. 30 Né tempo avendo a pensar altra scusa, e conoscendo ben che ‘l ver gli disse, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna il cor sì gli trafisse, che giurò per la vita di Lanfusa non voler mai ch’altro elmo lo coprisse, se non quel buono che già in Aspramonte trasse dal capo Orlando al fiero Almonte. 31 E servò meglio questo giuramento, che non avea quell’altro fatto prima. Quindi si parte tanto malcontento, che molti giorni poi si rode e lima. Sol di cercare è il paladino intento di qua di là, dove trovarlo stima. Altra ventura al buon Rinaldo accade, che da costui tenea diverse strade. 32 Non molto va Rinaldo, che si vede saltare inanzi il suo destrier feroce: «Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede! che l’esser senza te troppo mi nuoce.» Per questo il destrier sordo, a lui non riede anzi più se ne va sempre veloce. Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge. |
Orlando, che era stato innamorato di Angelica per tanto tempo e aveva compiuto per lei innumerevoli e nobili imprese in India, in Oriente, in Tartaria, era tornato con lei in Occidente, dove re Carlo Magno era accampato vicino ai monti Pirenei, con i guerrieri di Francia e di Germania, per indurre re Marsilio e re Agramante a rimproverarsi del loro folle proposito, poiché uno [Agramante] ha portato dall'Africa tutti i soldati in grado di portare spada e lancia, l'altro [Marsilio] ha spinto avanti la Spagna per distruggere il regno di Francia. E così Orlando arrivò qui al momento giusto, ma si pentì subito di essere tornato: infatti poi gli fu sottratta la sua donna: ecco come spesso sbaglia il giudizio degli uomini! Colei che aveva difeso con tante battaglie dall'Occidente all'Oriente, ora gli è tolta tra tanti suoi amici, senza che sia usata la spada, nella sua terra. Colui che gliela tolse fu il saggio imperatore, che volle spegnere un grave incendio. Pochi giorni prima era iniziata una gara tra il conte Orlando e suo cugino Rinaldo, che erano entrambi innamorati con gran desiderio della rara bellezza di Angelica. Carlo, che non amava questa lite che gli rendeva meno saldo il loro aiuto militare, prese la fanciulla che ne era la causa e la affidò in custodia a Namo di Baviera; promettendola in premio a chi di loro in quella guerra, in quella grande battaglia, avrebbe ucciso il maggior numero di infedeli e avrebbe prestato la più efficace opera militare. Lo scontro poi finì male, poiché i cristiani andarono in fuga e il duca Namo fu fatto prigioniero insieme a molti altri, così la sua tenda rimase abbandonata. E qui la fanciulla [Angelica], che doveva essere il premio del vincitore, prima della rotta era salita in sella a un cavallo e al momento opportuno era fuggita, avendo previsto che quel giorno la fortuna avrebbe voltato le spalle alla fede cristiana: entrò in un bosco e nel sentiero stretto incontrò un cavaliere che veniva a piedi. Egli aveva la corazza addosso, l'elmo in testa, la spada al fianco e al braccio lo scudo; e correva per la foresta più agile di un contadino mezzo nudo dietro al drappo rosso [in una gara campestre]. Una timida pastorella non ritrasse mai il piede davanti a un serpente più velocemente di quanto Angelica fermò il cavallo, non appena si accorse del guerriero che giungeva. Costui era quel valoroso paladino figlio d'Amone e signore di Montalbano [Rinaldo], al quale poco prima il suo cavallo Baiardo era scappato di mano per una strana circostanza. Non appena guardò la donna riconobbe, anche se da lontano, l'aspetto angelico e quel bel viso che lo teneva stretto nelle reti d'amore. La donna volta indietro il cavallo e lo sprona a briglia sciolta nel bosco; e non cerca la via più sicura e migliore tra i sentieri più radi e meno selvosi, anzi, pallida e tremante e quasi fuor di sé lascia che il cavallo vada dove voglia. Girò in lungo e in largo in quella selva intricata, finché giunse a un fiume. Su di esso si trovava Ferraù, pieno di sudore e tutto impolverato. Poco prima un gran desiderio di bere e di riposare lo aveva distolto dalla battaglia e poi, suo malgrado, si era fermato qui, perché, goloso d'acqua e frettoloso, aveva fatto cadere l'elmo nel fiume e non era ancora riuscito a riprenderlo. La fanciulla spaventata giungeva gridando più forte possibile. A quella voce il saraceno salta sulla riva e la guarda in viso; al suo arrivo capisce subito che è la bella Angelica, anche se pallida e sconvolta dalla paura e benché non ne abbia avuto notizie per più giorni. E perché era nobile e forse non ne era meno innamorato dei due cugini, le diede tutto l'aiuto che poteva, come se avesse ancora l'elmo, baldo e coraggioso: sguainò la spada e corse minacciando verso Rinaldo che non ne aveva paura. I due si erano già non solo incontrati, ma anche sfidati più volte. Qui iniziarono una crudele battaglia, entrambi a piedi e con le nude spade: ai loro colpi non reggerebbero le incudini, figurarsi le piastre e la maglia dell'armatura. Ora, mentre i due se le danno di santa ragione, il cavallo di Angelica deve studiare il passo; infatti lei lo fa correre nel bosco e nella campagna, spronandolo quanto più può con le calcagna. Dopo che i due guerrieri si affaticarono molto tempo invano per sopraffarsi a vicenda, poiché entrambi erano esperti nell'uso delle armi e nessuno era superiore all'altro, il primo che parlò al cavaliere spagnolo fu il signore di Montalbano [Rinaldo], come uno che ha il cuore in fiamme, che brucia e non può spegnersi. Disse al pagano: «Tu pensi di danneggiare solo me, invece danneggerai anche te stesso: se ci scontriamo perché gli occhi splendenti del nuovo sole [di Angelica] ti hanno acceso il petto, cosa ci guadagni a trattenermi qui? infatti, anche se mi ucciderai o catturerai, la bella donna non sarà tua: mentre noi perdiamo tempo qui, lei scappa via. Sarà molto meglio, se anche tu la ami, che tu pensi a sbarrarle la strada e trattenerla, prima che vada più lontana! Quando l'avremo in nostro potere, allora proveremo con la spada di chi debba essere: in altro modo non so proprio cosa potrà accaderci dopo una lunga battaglia, se non un danno». Al pagano la proposta piacque: così il duello fu differito e tra loro nacque subito una tregua, tale che dimenticarono l'odio e l'ira e il pagano allontanandosi dal fiume non lasciò a piedi il buon figlio d'Amone: lo invita con preghiere e alla fine lo fa salire sul suo cavallo, poi galoppa sulle tracce di Angelica. O grande bontà degli antichi cavalieri! Erano rivali, avevano una fede religiosa diversa, e sentivano tutto il corpo dolente per gli aspri colpi ricevuti; eppure vanno insieme senza sospetto, per selve oscure e sentieri fuori mano. Il cavallo, spronato da quattro piedi, arriva al punto in cui la strada si biforca. E poiché i due non sapevano quale delle due vie avesse imboccato la fanciulla (poiché le orme fresche sembravano uguali in entrambe), si rimisero alla sorte e Rinaldo percorse una strada, il saraceno l'altra. Ferraù si addentrò molto nel bosco e alla fine si ritrovò nel punto da dove era partito. Si ritrova proprio sul fiume dove l'elmo gli era caduto in acqua. Non sperando più di ritrovare la donna, per riprendere l'elmo scende nelle rive umide più vicine al margine, in quel punto dove gli era cascato: ma quello era così conficcato nella sabbia che avrebbe dovuto faticare molto per riaverlo. Tasta il fondale del fiume con un gran ramo d'albero senza foglie, del quale aveva fatto una lunga pertica, e non tralascia di battere e cercare in ogni punto. Mentre in maniera molto stizzita prolungava il suo indugio qui, vide uscire dal fiume un cavaliere fino al petto, di aspetto feroce. Era tutto armato tranne che nella testa e nella mano destra teneva un elmo: era lo stesso elmo che Ferraù aveva a lungo cercato inutilmente. Parlò a Ferraù come se fosse arrabbiato, e disse: «Ah, mancatore di parola, fellone! perché fai tante storie per lasciarmi l'elmo che molto tempo fa avresti dovuto restituirmi? Ricordati, pagano, quando uccidesti il fratello di Angelica (e sono io), e mi promettesti di gettare nel fiume entro pochi giorni anche il mio elmo insieme al resto dell'armatura. Ora se la fortuna fa il mio volere, quello che tu non hai voluto fare, non arrabbiarti; e se proprio ti devi arrabbiare, fallo per il fatto che hai mancato di parola. Ma se proprio hai desiderio di un elmo raffinato, trovane un altro e conquistalo con maggiore onore; il paladino Orlando ne porta uno e così Rinaldo, forse migliore del mio: uno appartenne ad Almonte, l'altro a Mambrino; conquista uno di quelli col tuo valore e questo, che avevi promesso di lasciarmi, fari meglio a lasciarmelo subito». All'improvvisa apparizione di quel fantasma dall'acqua al saraceno si rizzò ogni pelo e impallidì il viso; la voce si strozzò in gola al momento di uscire. Sentendo poi che l'Argalia, che aveva ucciso qui (aveva infatti quel nome) gli rimproverava in quel modo di aver mancato di parola, arse dentro e fuori di vergogna ed ira. Non avendo il tempo di trovare una scusa e sapendo bene che diceva il vero, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna gli colpì tanto il cuore che giurò sulla vita della madre Lanfusa di non volere più un altro elmo se non quello che Orlando aveva tolto dal capo del feroce Almonte, in Aspromonte. E mantenne questo giuramento meglio di quanto non avesse fatto col primo. Se ne andò via tanto scontento che si rose dentro di sé molti giorni. Voleva solo cercare Orlando in ogni luogo, dove pensava di trovarlo. Al buon Rinaldo accadde un'altra avventura, poiché percorreva una via diversa. Rinaldo non percorse molta strada quando vide saltare davanti il suo feroce destriero: «Baiardo mio, su, ferma il passo! Essere senza di te mi è troppo dannoso». Ma il cavallo, sordo, non torna a lui per questo richiamo, anzi fugge via ancora più veloce. Rinaldo lo insegue e si strugge di rabbia: ma seguiamo Angelica, che fugge a sua volta. |
Interpretazione complessiva
- L'autore si rifà al racconto di Boiardo che già nell'Innamorato (II.XXI.21) accennava al fatto che Carlo Magno aveva sottratto Angelica a Orlando e Ranaldo e l'aveva affidata a Namo di Baviera, promettendo in realtà solo di dirimere la contesa in modo "Che ogniom iudicherebbe per certanza / Lui esser iusto e dritto a la bilanza": Ariosto riprende la narrazione da qui e immagina che la fanciulla, approfittando della rotta dei cristiani, fugga dalla tenda di Namo e inizi la sua fuga precipitosa nella selva da dove si dipaneranno buona parte degli intrecci del poema. Questa selva ricorda in parte quella "oscura" in cui Dante si smarrisce all'inizio della Commedia, anche se nel Furioso essa allude metaforicamente alla vita umana in cui tutti, chi più chi meno, siamo alla affannosa ricerca di qualcosa che quasi mai riusciamo a trovare, quindi è un luogo "terreno" in cui nessun personaggio troverà indicazioni per imboccare la "diritta via" ma, al contrario, ciascuno finirà per smarrirsi e sbagliare strada (una funzione simile sarà svolta anche dal secondo castello di Atlante, in cui tutti cercano qualcosa che non trovano; ► TESTO: Il castello di Atlante). La selva si presenta come uno spazio labirintico in cui non è chiaro dove si dirigano i vari personaggi, con Angelica che scappa disperata, Rinaldo che insegue sia lei sia il cavallo che gli è sfuggito, Ferraù che cerca la fanciulla e l'elmo, e così via.
- Angelica nella sua fuga precipitosa incontra vari suoi pretendenti, tra cui inizialmente Rinaldo e Ferraù già protagonisti dell'Innamorato: il primo ama Angelica ma è odiato da lei, perché i due avevano bevuto rispettivamente alla fonte dell'amore e del disamore, il che spiega perché la fanciulla scappa come la "pastorella" che vede un serpente nell'erba (cfr. Inn., II.XV, episodio che ribaltava quello avvenuto nel primo libro), mentre Ferraù l'ama a sua volta e la insegue da quando aveva ucciso suo fratello Argalìa e l'aveva pretesa in sposa, venendo da lei rifiutato per la sua bruttezza. Il duello tra i due paladini è inevitabile e lo scontro ricalca quello avvenuto tra lo stesso Ferraù e Orlando nel precedente poema, anche in quel caso per amore di Angelica e durante il quale il cristiano gli aveva rivolto la stessa proposta di differire lo scontro per inseguire la fanciulla, benché in quel caso Ferraù avesse rifiutato con sdegno (Inn., I.III.79-81). Qui invece il saraceno accetta e i due inseguono Angelica sul suo cavallo, in virtù di una tregua poco verosimile ma che dà modo all'autore di celebrare la "gran bontà de’ cavallieri antiqui", capaci di sospendere le ostilità in virtù di un patto cortese (l'ironia di Ariosto è evidente e si collega alla rievocazione nostalgica della cavalleria ormai inconciliabile con la moderna società, in cui le corti si sono tramutate in centri spietati di potere). Rinaldo all'inizio e alla fine dell'episodio insegue Baiardo, il prodigioso destriero dal corpo fatato e dotato di intelligenza umana che compariva già nelle chansons de geste e che nell'Innamorato veniva portato da Astolfo ad Albraca, dove cadeva nelle mani prima di re Agricane e poi di Orlando suo uccisore (► TESTO: Il duello di Orlando e Agricane): ci verrà poi spiegato (II.20-22) che il cavallo non è scappato per caso, ma per condurlo da Angelica che lui aveva seguito sin da quando lei era fuggita dalla tenda di Namo. Al termine del canto il cavallo si lascerà ammansire da Angelica, prima che Rinaldo lo ritrovi e si batta con Sacripante (► TESTO: La fuga di Angelica/3).
- Ferraù ha perso nel fiume l'elmo che aveva sottratto ad Argalìa, il fratello di Angelica da lui ucciso, al quale aveva promesso di gettare il corpo con tutta l'armatura in un corso d'acqua nelle Ardenne, ottenendo però di trattenere l'elmo per quattro giorni avendo distrutto il suo: il saraceno non aveva mantenuto la promessa e ora viene aspramente rimproverato dallo spettro dello stesso Argalìa, che emerge magicamente dall'acqua armato di tutto punto con in mano l'elmo cercato da Ferraù (► TESTO: La morte di Argalìa; Ferraguto perdeva l'elmo in circostanze analoghe anche in Inn., II.XXXI.4, pur recuperandolo). Questi riceve epiteti propri del gergo cavalleresco ("mancator di fé, marano") e si vergogna di se stesso, tanto che decide di restare senza elmo finché non otterrà in battaglia quello di Orlando, a sua volta sottratto ad Almonte (fratello di Troiano, padre di Agramante) che il paladino franco aveva ucciso in Aspromonte. Ariosto dice ironicamente che a questo giuramento Ferraù terrà fede, nel senso che il pagano sottrarrà furtivamente l'elmo di Orlando alla fine di un duello, avvenuto dopo che i due saranno usciti dal secondo castello di Atlante. L'apparizione del fantasma di Argalìa costituisce il primo di una lunga serie di elementi magici che caratterizzano il poema.
- Il testo è fitto di rimandi letterari alle più diverse fonti e oltre al poema boiardesco, che costituisce il precedente immediato, viene citata anche l'Eneide, specie nella reazione di Ferraù davanti al fantasma di Argalìa ("ogni pelo arricciossi, / e scolorossi al Saracino il viso; / la voce, ch’era per uscir, fermossi") che ricalca Aen., I.774 (obstipui, steteruntque comae et vox faucibus haesit, il racconto di Enea che vedeva l'ombra della moglie Creusa), ma anche Dante, Inf., V.131 ("e scolorocci il viso", il racconto di Francesca da Rimini; ► TESTO: Paolo e Francesca). Dante è peraltro più volte riecheggiato nel corso dell'episodio, anzitutto in 13.7 ("Di sù di giù") e 31.6 ("di qua di là"), in entrambi i casi con riferimento ancora a Inf., V.43 ("di qua, di là, di giù, di sù li mena"), e poi anche in 27.7-8 ("e se turbar ti déi, / turbati che di fé mancato sei", che rimanda a Inf., III.94-96). L'immagine di Angelica che fugge da Rinaldo come la contadinella davanti al "serpe crudo" riprende invece ancora Virgilio, Georg., IV.457-9 (il racconto di Euridice morsa da un serpente mentre scappa da Aristeo).