Matteo Bandello
Romeo e Giulietta
(Novelle, II, 9)
Il passo è tratto dalla parte iniziale della celebre novella dei due giovani amanti di Verona, che Bandello aveva rielaborato a partire dalla prima redazione di Luigi Da Porto e che tanto successo ebbe nei secoli successivi, fino alla tragedia di Shakespeare: viene narrato il primo incontro tra i due ragazzi, durante una festa in maschera tenutasi a casa dei Cappelletti e in occasione della quale Romeo e Giulietta si innamorano, quindi è descritto il celebre dialogo che si svolge tra la fanciulla affacciata alla finestra e il suo spasimante nascosto in una viuzza sotto di essa. Il colloquio notturno si conclude con la promessa di matrimonio fatta da Romeo alla giovane donna, fatto che darà inizio alla complesso intrigo in seguito al quale i due amanti moriranno.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► PERCORSO: Il Rinascimento
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Con molte altre ragioni ch’ora non dico essortò il fedel compagno il suo Romeo a distorsi da la mal cominciata impresa. [1] Romeo ascoltò pazientemente quanto detto gli fu e si deliberò il savio conseglio metter in opra. Il perché cominciò andar su le feste [2], e dove vedeva la ritrosa donna, mai non volgeva la vista, ma andava mirando e considerando l’altre per scieglier quella che piú gli fosse a grado, come se fosse andato ad un mercato per comprar cavalli o panni. Avvenne in quei dí, come s’è detto, che Romeo mascherato andò su la festa del Capeletto [3], e ben che fossero poco amici, pur non s’offendevano. Quivi stato Romeo buona pezza [4] con la maschera sul viso, quella si cavò ed in un canto se n’andò a sedere ove agiatamente vedeva quanti in sala erano, la quale allumata da molti torchi [5] era chiara come se fosse stato di giorno. Ciascuno guardava Romeo e massimamente le donne, e tutti si meravigliavano ch’egli sí liberamente in quella casa dimorasse. Tuttavia perché Romeo oltra che era bellissimo era anco giovinetto molto costumato e gentile, era generalmente da tutti amato. I suoi nemici poi non gli ponevano cosí la mente come forse averebbero fatto s’egli fosse stato di maggior etate. [6] Quivi era divenuto Romeo consideratore de le bellezze de le donne che erano su la festa, e questa e quella piú e meno secondo l’appetito commendava [7], e senza danzare s’andava in cotal maniera diportando [8], quando gli venne veduta una fuor di misura bellissima garzona che egli non conosceva. [9] Questa infinitamente gli piacque e giudicò che la piú bella ed aggraziata giovane non aveva veduta giá mai. Pareva a Romeo quanto piú intentamente la mirava che tanto piú le bellezze di quella divenissero belle, e che le grazie piú grate si facessero, onde cominciò a vagheggiarla molto amorosamente, non sapendo da la di lei vista levarsi; e sentendo gioia inusitata in contemplarla, tra sé propose far ogni suo sforzo per acquistar la grazia e l’amor di quella. E cosí l’amore che a l’altra donna portava, vinto da questo nuovo, diede luogo a queste fiamme che mai piú dapoi se non per morte si spensero. Entrato Romeo in questo vago laberinto, non avendo ardire di spiare chi la giovane si fosse, attendeva de la vaga di lei vista a pascer gli occhi, e di quella tutti gli atti minutamente considerando, beveva il dolce amoroso veleno, ogni parte ed ogni gesto di quella meravigliosamente lodando. Egli, come giá dissi, era in un canto assiso [10], nel qual luogo quando si ballava tutti gli passavano per dinanzi. Giulietta, – ché cosí aveva nome la garzona che cotanto a Romeo piaceva, – era figliuola del padrone de la casa e de la festa. Non conoscendo anco ella Romeo, ma parendole pure il piú bello e leggiadro giovine che trovar si potesse, meravigliosamente de la vista s’appagava, e dolcemente e furtivamente talora cosí sotto occhio mirandolo, sentiva non so che dolcezza al core che tutta di gioioso ed estremo piacere l’ingombrava. Desiderava molto forte la giovane che Romeo si mettesse in ballo, a ciò che meglio veder si potesse e l’udisse parlare, parendole che altra tanta dolcezza devesse dal parlar di quello uscire quanta dagli occhi di lui le pareva, tuttavia che il mirava, senza fine gustare; ma egli tutto solo se ne sedeva né di ballar aver voglia dimostrava. Tutto il suo studio era in vagheggiar la bella giovanetta, e quella ad altro non metteva il pensiero che a mirar lui; e di tal maniera si guardavano che riscontrandosi talora gli occhi loro ed insieme mescolandosi i focosi raggi de la vista de l’uno e de l’altra, di leggero [11] s’avvidero che amorosamente si miravano, perciò che ogni volta che le viste si scontravano, tutti dui empivano l’aria d’amorosi sospiri, e pareva che per alora altro non desiderassero che di poter, insieme parlando, il lor nuovo fuoco scoprire. Ora stando eglino in questo vagheggiamento, venne il fine de la festa del ballare e si cominciò a far la danza o sia il ballo del «torchio» che altri dicono il ballo del «cappello». [12] Facendosi questo giuoco fu Romeo levato da una donna; il quale entrato in ballo fece il dover suo, e dato il torchio ad una donna, andò presso a Giulietta, ché cosí richiedeva l’ordine, e quella prese per mano con piacer inestimabile di tutte due le parti. Restava Giulietta in mezzo a Romeo e a uno chiamato Marcuccio il guercio, che era uomo di corte molto piacevole e generalmente molto ben visto per i suoi motti festevoli e per le piacevolezze ch’egli sapeva fare, perciò che sempre aveva alcuna novelluccia per le mani da far ridere la brigata e troppo volentieri senza danno di nessuno si sollazzava. Aveva poi sempre il verno e la state e da tutti i tempi le mani via piú fredde e piú gelate che un freddissimo ghiaccio alpino; e tutto che buona pezza scaldandole al fuoco se ne stesse, restavano perciò sempre freddissime. Giulietta che da la sinistra aveva Romeo e Marcuccio da la destra, come da l’amante si sentí pigliar per mano, forse vaga di sentirlo ragionare, con lieto viso alquanto verso lui rivoltata, con tremante voce gli disse: – Benedetta sia la venuta vostra a lato a me! – e cosí dicendo amorosamente gli strinse la mano. Il giovine che era avveduto e punto non teneva de lo scemo [13], dolcemente a lei stringendo la mano in questa maniera le rispose: – Madonna, e che benedizione è cotesta che mi date? – e guardandola con occhio gridante pietá, da la bocca di lei sospirando se ne stava pendente. Ella alora dolce ridendo rispose: – Non vi meravigliate, gentil giovine, che io benedica il vostro venir qui, perciò che messer Marcuccio giá buona pezza con il gelo de la sua fredda mano tutta m’agghiaccia, e voi, la vostra mercé [14], con la dilicata mano vostra mi scaldate. – A questo subito soggiunse Romeo: – Madonna, che io in qual si sia modo servigio vi faccia, m’è sommamente caro, ed altro al mondo non bramo che potervi servire, ed alora beato mi terrò quando degnarete di comandarmi come a vostro minimo servidore. Ben vi dico che se la mia mano vi scalda, che voi con il fuoco dei begli occhi vostri tutto m’ardete, assicurandovi che se aita non mi porgete a ciò possa tanto incendio sofferire [15], non passerá troppo che mi vederete tutto abbruciare e divenir cenere. – A pena puoté egli finir di dire l’ultime parole che il giuoco del «torchio» ebbe fine. Onde Giulietta che tutta d’amor ardeva, sospirando e stringendo la mano, non ebbe tempo di fargli altra risposta se non che disse: – Oimè, che posso io dirvi se non ch’io sono assai piú vostra che mia? – Romeo, partendosi ciascuno, aspettava per vedere ove la giovanetta s’inviasse; ma guari non stette [16] che egli chiaramente conobbe che era figliuola del padrone de la casa, ed anco se ne certificò da un suo benvogliente [17] dimandandogli di molte donne. Di questo si trovò forte di mala voglia, stimando cosa perigliosa e molto difficile a poter conseguir desiderato fine di questo suo amore. Ma giá la piaga era aperta e l’amoroso veleno molto a dentro entrato. Da l’altra banda [18] Giulietta bramosa di saper chi fosse il giovine in preda di cui giá sentiva esser tutta, chiamata una sua vecchia che nodrita l’aveva, entrò in una camera, e fattasi a la finestra che per la strada da molti accesi torchi era fatta chiara, cominciò a domandarla chi fosse il tale che cosí fatto abito aveva e chi quello che la spada aveva in mano e chi quell’altro, ed anco le richiese chi fosse il bel giovine che la maschera teneva in mano. La buona vecchia che quasi tutti conosceva, le nominava questi e quelli, ed ottimamente conosciuto Romeo, le disse chi fosse. Al cognome del Montecchio rimase mezza stordita la giovane, disperando di poter ottener per sposo il suo Romeo per la nemichevol gara [19] che era tra le due famiglie; nondimeno segno alcuno di mala contentezza non dimostrò. Andata poi a dormire, nulla o poco quella notte dormí, varii pensieri per la mente rivolgendo; ma distorsi d’amar il suo Romeo né poteva né voleva [20], sí fieramente di lui accesa si trovava. E combattendo in lei l’incredibil bellezza de l’amante, quanto piú difficile e perigliosa la cosa sua vedeva, tanto piú pareva che in lei, mancando la speranza, crescesse il disio. [...] Nei giorni seguenti Romeo inizia a passare spesso accanto alla casa di Giulietta, nella speranza di vederla, e quando ciò avviene gli sguardi innamorati della ragazza accendono in lui il desiderio. Aveva la camera di Giulietta le finestre suso una vietta [21] assai stretta cui di rimpetto era un casale; e passando Romeo per la strada grande, quando arrivava al capo de la vietta, vedeva assai sovente la giovane a la finestra, e quantunque volte la vedeva [22], ella gli faceva buon viso e mostrava vederlo piú che volentieri. Andava spesso di notte Romeo ed in quella vietta si fermava, sí perché quel camino non era frequentato ed altresí perché stando per iscontro a la finestra sentiva pur talora la sua innamorata parlare. Avvenne che essendo egli una notte in quel luogo, o che Giulietta il sentisse o qual se ne fosse la cagione, ella aprí la finestra. Romeo si ritirò dentro il casale, ma non sí tosto ch’ella nol conoscesse, perciò che la luna col suo splendore chiara la vietta rendeva. Ella che sola in camera si trovava, soavemente l’appellò e disse: – Romeo, che fate voi qui a quest’ore cosí solo? Se voi ci foste còlto [23], misero voi, che sarebbe de la vita vostra? Non sapete voi la crudel nemistá [24] che regna tra i vostri e i nostri e quanti giá morti ne sono? Certamente voi sareste crudelmente ucciso, del che a voi danno e a me poco onore ne seguirebbe. – Signora mia, – rispose Romeo, – l’amor ch’io vi porto è cagione ch’io a quest’ora qui venga; e non dubito punto che se dai vostri fossi trovato, ch’essi non cercassero d’ammazzarmi. Ma io mi sforzarei per quanto le mie deboli forze vagliano, di far il debito mio, e quando pure da soverchie forze mi vedessi avanzare, m’ingegnerei non morir solo. E devendo io ad ogni modo morire in questa amorosa impresa, qual piú fortunata morte mi può avvenire che a voi vicino restar morto? Che io mai debbia esser cagione di macchiar in minimissima parte l’onor vostro, questo non credo che avverrá giá mai, perché io per conservarlo chiaro e famoso com’è mi ci affaticherei col sangue proprio. Ma se in voi tanto potesse l’amor di me come in me di voi può il vostro, e tanto vi calesse [25] de la vita mia quanto a me de la vostra cale, voi levareste via tutte queste occasioni e fareste di modo che io viverei il piú contento uomo che oggidí sia. – E che vorreste voi che io facessi? – disse Giulietta. – Vorrei, – rispose Romeo, – che voi amassi me com’io amo voi e che mi lasciaste venir ne la camera vostra, a ciò che piú agiatamente e con minor pericolo io potessi manifestarvi la grandezza de l’amor mio e le pene acerbissime che di continovo [26] per voi soffro. – A questo Giulietta alquanto d’ira accesa e turbata gli disse: – Romeo, voi sapete l’amor vostro ed io so il mio, e so che v’amo quanto si possa persona amare, e forse piú di quello che a l’onor mio si conviene. Ma ben vi dico che se voi pensate di me godere oltra il convenevole nodo del matrimonio, voi vivete in grandissimo errore e meco punto non sarete d’accordio. E perché conosco che praticando voi troppo sovente per questa vicinanza potreste di leggero incappare negli spiriti maligni ed io non sarei piú lieta giá mai, conchiudo che se voi desiderate esser cosí mio come io eternamente bramo esser vostra, che debbiate per moglie vostra legitima sposarmi. Se mi sposarete, io sempre sarò presta a venir in ogni parte ove piú a grado vi fia. Avendo altra fantasia in capo, attendete a far i fatti vostri e me lasciate nel grado mio vivere in pace. – Romeo che altro non bramava, udendo queste parole, lietamente le rispose che questo era tutto il suo disio e che ogni volta che le piacesse la sposeria in quel modo che ella ordinasse. [27] – Ora sta bene, – soggiunse Giulietta. – Ma perché le cose nostre ordinatamente si facciano, io vorrei che il nostro sponsalizio a la presenza del reverendo frate Lorenzo da Reggio, mio padre spirituale, si facesse. – A questo s’accordarono, e si conchiuse che Romeo con lui il seguente giorno del fatto parlasse, essendo egli molto di quello domestico. [...] |
[1] Si tratta dell'amore di Romeo per una donna che non lo corrisponde. [2] Cominciò a frequentare le feste. [3] Il Capuleti, padre di Giulietta. [4] Un notevole lasso di tempo. [5] Illuminata da molte torce. [6] Se lui fosse stato più vecchio. [7] Lodava secondo il suo gusto. [8] Si divertiva. [9] Quando vide una bellissima fanciulla che non conosceva. [10] Seduto in un angolo. [11] Facilmente. [12] Danza durante la quale un ballerino, a turno, tiene una torcia che passa ad un altro. [13] E non era minimamente sciocco (è espressione del Boccaccio). [14] Per vostra grazia. [15] Che se non mi aiutate a sopportare questo incendio. [16] Non passò molto tempo. [17] Se ne assicurò parlando con un suo conoscente [18] Dal canto suo. [19] Per la fiera rivalità. [20] Ma non poteva né voleva rinunciare ad amare il suo Romeo. [21] Che si affacciavano su una viuzza. [22] E ogni volta che la vedeva. [23] Se voi foste sorpreso qui. [24] Inimicizia. [25] Vi importasse. [26] Di continuo. [27] E che l'avrebbe sposata in qualunque momento, nel modo che fosse piaciuto a lei. |
Interpretazione complessiva
- Il testo è una rielaborazione della novella di Luigi Da Porto, un altro narratore del Cinquecento che l'aveva pubblicata intorno al 1530 asserendo che essa si ispirava a un fatto storico avvenuto a Verona al tempo di Bartolomeo della Scala (XIV sec.): su questo non ci sono conferme, anche se le due casate rivali dei Montecchi e dei Cappelletti (poi storpiati in Capuleti) sono citate da Dante in Purg., VI, 106 ed erano rispettivamente una famiglia ghibellina di Verona e una guelfa di Cremona, anch'essa vissuta pare nella città veneta. Bandello riprende la redazione del Da Porto e la amplia notevolmente, accentuando gli elementi patetici e declamatori che il primo autore aveva eliminato e fornendo il modello narrativo da cui Shakespeare alla fine del XVI sec. avrebbe tratto la tragedia omonima (sul punto si veda oltre). È molto evidente anche l'ispirazione boccaccesca della novella, sia nella descrizione dell'innamoramento dei due giovani (con rimandi anche alla tradizione della poesia volgare e al Filocolo dello stesso Boccaccio, che narra la storia simile di un amore contrastato e a lieto fine), sia per le molte le citazioni di espressioni dell'autore trecentesco, come "non guari stette", "non teneva de lo scemo", ecc. È noto inoltre che lo schema narrativo della vicenda ha un precedente nella storia di Piramo e Tisbe di Ovidio (Met., IV, 55 ss.), specie nel finale quando il giovane crede erroneamente che l'amata sia morta sbranata da una belva.
- La novella di Bandello ispirerà a Shakespeare l'omonima tragedia ambientata a Verona, edita alla fine del XVI sec. (1594-1596) e che riprende la trama dell'autore italiano quasi integralmente, con pochi ritocchi e l'introduzione di alcuni nuovi personaggi tra cui Mercutio: la scena del ballo in maschera si svolge nell'atto I, scena V, in cui ha luogo un enfatico dialogo tra i due innamorati e Romeo apprende subito dalla nutrice di Giulietta che lei è una Capuleti; in seguito (II, sc. I-II) il giovane si nasconde nel giardino della villa e ha il colloquio notturno con Giulietta affacciata al balcone di casa, fatto che invece in Bandello avviene parecchi giorni dopo la festa. Shakespeare riprende da Bandello anche il personaggio di frate Lorenzo e lo stratagemma del veleno per far credere alla morte della ragazza, da cui l'equivoco che condurrà alla morte di entrambi.