Torquato Tasso
Armida al campo dei Crociati
(Gerusalemme Liberata, IV, 28-42)
La bella maga Armida, al servizio delle forze demoniache, fa la sua apparizione nel campo dei soldati cristiani, gettando scompiglio tra le schiere dei Crociati i quali si innamorano tutti di lei con poche eccezioni. La donna si avvede dell'effetto che il suo fascino produce sui nemici, quindi chiede e ottiene di parlare col capitano Goffredo, al quale rivolge un falso discorso fingendosi una principessa pagana scacciata dal suo regno e bisognosa di aiuto militare. Il suo scopo è ovviamente quello di attirare quanti più guerrieri possibile fuori dal campo e conseguirà questo scopo grazie alle sue arti di seduttrice, riuscendo a irretire anche il giovane fratello di Goffredo, Eustazio. Il passo, che si colloca nei canti iniziali del poema, riprende la scena che apre l' "Orlando innamorato" in cui Angelica si presenta alla corte di Carlo Magno a Parigi.
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
28
Dopo non molti dí vien la donzella dove spiegate i Franchi avean le tende. A l’apparir de la beltà novella nasce un bisbiglio e ‘l guardo ognun v’intende, sí come là dove cometa o stella, non piú vista di giorno, in ciel risplende; e traggon tutti per veder chi sia sí bella peregrina, e chi l’invia. 29 Argo non mai, non vide Cipro o Delo d’abito o di beltà forme sí care: d’auro ha la chioma, ed or dal bianco velo traluce involta, or discoperta appare. Cosí, qualor si rasserena il cielo, or da candida nube il sol traspare, or da la nube uscendo i raggi intorno piú chiari spiega e ne raddoppia il giorno. 30 Fa nove crespe l’aura al crin disciolto, che natura per sé rincrespa in onde; stassi l’avaro sguardo in sé raccolto, e i tesori d’amore e i suoi nasconde. Dolce color di rose in quel bel volto fra l’avorio si sparge e si confonde, ma ne la bocca, onde esce aura amorosa, sola rosseggia e semplice la rosa. 31 Mostra il bel petto le sue nevi ignude, onde il foco d’Amor si nutre e desta. Parte appar de le mamme acerbe e crude, parte altrui ne ricopre invida vesta: invida, ma s’a gli occhi il varco chiude, l’amoroso pensier già non arresta, ché non ben pago di bellezza esterna ne gli occulti secreti anco s’interna. 32 Come per acqua o per cristallo intero trapassa il raggio, e no ‘l divide o parte, per entro il chiuso manto osa il pensiero sí penetrar ne la vietata parte. Ivi si spazia, ivi contempla il vero di tante meraviglie a parte a parte; poscia al desio le narra e le descrive, e ne fa le sue fiamme in lui piú vive. 33 Lodata passa e vagheggiata Armida fra le cupide turbe, e se n’avede. No ’l mostra già, benché in suo cor ne rida, e ne disegni alte vittorie e prede. Mentre, sospesa alquanto, alcuna guida che la conduca al capitan richiede, Eustazio occorse a lei, che del sovrano principe de le squadre era germano. 34 Come al lume farfalla, ei si rivolse a lo splendor de la beltà divina, e rimirar da presso i lumi volse che dolcemente atto modesto inchina; e ne trasse gran fiamma e la raccolse come da foco suole esca vicina, e disse verso lei, ch’audace e baldo il fea de gli anni e de l’amore il caldo: 35 «Donna, se pur tal nome a te conviensi, ché non somigli tu cosa terrena, né v’è figlia d’Adamo in cui dispensi cotanto il Ciel di sua luce serena, che da te si ricerca? ed onde viensi? qual tua ventura o nostra or qui ti mena? Fa’ che sappia chi sei, fa’ ch’io non erri ne l’onorarti; e s’è ragion, m’atterri». 36 Risponde: «Il tuo lodar troppo alto sale, né tanto in suso il merto nostro arriva. Cosa vedi, signor, non pur mortale, ma già morta a i diletti, al duol sol viva; mia sciagura mi spinge in loco tale, vergine peregrina e fuggitiva. Ricovro al pio Goffredo, e in lui confido tal va di sua bontate intorno il grido. 37 Tu l’adito m’impetra al capitano, s’hai, come pare, alma cortese e pia». Ed egli: «È ben ragion ch’a l’un germano l’altro ti guidi, e intercessor ti sia. Vergine bella, non ricorri in vano, non è vile appo lui la grazia mia; spender tutto potrai, come t’aggrada, ciò che vaglia il suo scettro o la mia spada». 38 Tace, e la guida ove tra i grandi eroi allor dal vulgo il pio Buglion s’invola. Essa inchinollo riverente, e poi vergognosetta non facea parola. Ma quei rossor, ma quei timori suoi rassecura il guerriero e riconsola, sí che i pensati inganni al fine spiega in suon che di dolcezza i sensi lega. 39 «Principe invitto,» disse «il cui gran nome se ‘n vola adorno di sí ricchi fregi che l’esser da te vinte e in guerra dome recansi a gloria le provincie e i regi, noto per tutto è il tuo valor; e come sin da i nemici avien che s’ami e pregi, cosí anco i tuoi nemici affida, e invita di ricercarti e d’impetrarne aita. 40 Ed io, che nacqui in sí diversa fede che tu abbassasti e ch’or d’opprimer tenti, per te spero acquistar la nobil sede e lo scettro regal de’ miei parenti; e s’altri aita a i suoi congiunti chiede contro il furor de le straniere genti, io, poi che ‘n lor non ha pietà piú loco, contra il mio sangue il ferro ostile invoco. 41 Io te chiamo, in te spero; e in quella altezza puoi tu sol pormi onde sospinta io fui, né la tua destra esser dée meno avezza di sollevar che d’atterrar altrui, né meno il vanto di pietà si prezza che ‘l trionfar de gl’inimici sui; e s’hai potuto a molti il regno tòrre, fia gloria egual nel regno or me riporre. 42 Ma se la nostra fé varia ti move a disprezzar forse i miei preghi onesti, la fé, c’ho certa in tua pietà, mi giove, né dritto par ch’ella delusa resti. Testimone è quel Dio ch’a tutti è Giove ch’altrui piú giusta aita unqua non désti. Ma perché il tutto a pieno intenda, or odi le mie sventure insieme e l’altrui frodi. [...]» |
Pochi giorni dopo la fanciulla si reca dove i Franchi hanno posto le tende. All'apparire di quella singolare bellezza nasce un mormorio e ognuno la guarda, proprio come quando una cometa o una stella splende in cielo di giorno, spettacolo raro; e tutti si avvicinano per vedere che sia una straniera così bella e chi la mandi lì. Né Argo, né Cipro o Delo hanno mai visto una simile bellezza di forme e di costumi: ha i capelli dorati ed ora traspare avvolta dal bianco velo, ora si lascia ammirare scoperta. Così, quando il cielo si rasserena, a volte il sole traspare da una bianca nuvola e a volte, uscendo da essa, dispiega tutt'intorno i suoi raggi e aumenta la luce del giorno. Il vento scompiglia e increspa i capelli sciolti, che per natura sono già ricci; lo sguardo ritroso sta chiuso in sé e nasconde i tesori d'amore e i propri. Un dolce colore di rose si sparge e si confonde con l'avorio in quel bel viso, ma nella bocca, da dove esce un'aria d'amore, la rosa rosseggia sola e semplice. Il bel petto mostra le sue nevi scoperte [il bianco della pelle], di cui il fuoco d'amore si nutre e si alimenta. Si intravede una parte del seno ancora acerbo e immaturo, un'altra parte è coperta dalla veste gelosa: gelosa, ma se preclude l'accesso agli occhi non arresta certo il pensiero, infatti questo, non soddisfatto della bellezza esterna, si addentra nei segreti nascosti. Come il raggio di sole passa attraverso l'acqua o un cristallo restando intero, non venendo diviso in parti, così il pensiero osa penetrare entro il mantello fino a giungere nelle parti più intime. Qui si allarga e contempla l'essenza di tante meraviglie, in ogni loro parte; poi le narra e descrive al desiderio e ne ravviva ancor di più le fiamme. Armida passa lodata e desiderata tra le schiere innamorate, e se ne accorge. Non lo dà a vedere, anche se in cuor suo ne ride e progetta già grandi vittorie e prede. Mentre è alquanto dubbiosa e chiede una guida che la conduca al capitano, accorse da lei Eustazio, che era il fratello del comandante dei Crociati. Come la farfalla va verso la luce, così lui si rivolse allo splendore di quella bellezza divina, e volle vedere da vicino gli occhi che lei abbassa dolcemente con modestia; e ne trasse una gran fiamma e la raccolse come suol fare l'esca vicino al fuoco, e rivolto a lei parlò così, reso audace e baldo dalla sua gioventù e dal calore dell'amore: «O donna, ammesso che ti si debba chiamare con tal nome, poiché tu non somigli a una creatura terrena e non c'è figlia di Adamo a cui il Cielo regali tanta luce serena, che cosa cerchi? da dove vieni? quale fortuna tua o nostra ti conduce qui? Dimmi chi sei, fa' che io non sbagli nell'onorarti e, se è necessario, mi inchini». Lei risponde: «Le tue lodi sono eccessive e il mio merito non arriva tanto in alto. Tu, signore, vedi una creatura non solo mortale, ma ormai morta ai piaceri, solo viva al dolore; la mia sciagura mi porta qui, vergine straniera e fuggiasca. Mi rivolgo al pio Goffredo e confido in lui, a tal punto è diffusa la fama della sua bontà. Tu ottieni per me l'udienza dal capitano, se hai, come sembra, un'anima cortese e pia». E lui: «È giusto che un fratello ti porti dall'altro e interceda per te. O bella vergine, tu non speri invano nel suo aiuto e il favore che godo presso di lui non è di poco conto; tu potrai usare a tuo vantaggio il valore del suo scettro o della mia spada, come vorrai». Tace e la porta dove il pio Buglione si sottrae alla schiera dei soldati, tra i grandi eroi. Lei gli si inchinò con deferenza, poi rimase in silenzio, vergognandosi. Ma il guerriero [Goffredo] la rassicura quanto al suo rossore e ai suoi timori e la consola, cosicché lei alla fine mette in opera i meditati inganni con un suono così dolce da legare i sensi. «O principe invitto, - disse - il cui grande nome ha fama di così preziosa virtù che le province e i re si vantano di essere vinte e domate in guerra da te, il tuo valore è noto ovunque; e poiché avviene che esso sia amato e lodato persino dai nemici, così rassicura i tuoi nemici e li spinge a cercarti e chiederti aiuto. Ed io, che nacqui nella fede [musulmana] che tu hai sconfitto e ora tenti di distruggere, grazie a te spero di riconquistare il nobile regno e lo scettro regale dei miei genitori; e se altri chiedono aiuto ai loro parenti contro il furore dei popoli stranieri, io invece invoco le spade nemiche contro la mia famiglia, poiché in essa non ha più posto la pietà. Io invoco te e in te spero; e tu solo puoi rimettermi in quella posizione dalla quale sono stata scacciata, e la tua destra non deve essere meno abituata a sollevare gli altri piuttosto che di sconfiggerli, né la pietà è minor motivo di vanto che non il trionfare sui propri nemici; e se hai potuto togliere a molti il regno, sarà una gloria altrettanto grande rimettere me nel mio. Ma se la nostra fede diversa ti spinge a disprezzare forse le mie oneste suppliche, la fiducia che io ripongo salda nella tua pietà mi sia d'aiuto, e non sarebbe giusto che essa resti delusa. Mi è testimone quel Dio che è Giove per tutti [che tutti aiuta], poiché non hai dato a nessun altro mai un aiuto più giusto. Ma affinché tu capisca tutto senza equivoci, ascolta le mie sventure e, al tempo stesso, le frodi degli altri. [...]». |
Interpretazione complessiva
- Il passo descrive la prima apparizione della maga Armida nel poema, mostrandola in azione quando giunge al campo crociato per mettere in atto le sue arti di seduzione e irretire i soldati cristiani: la fanciulla è la nipote di Idraote, re di Damasco, ed è stata mandata qui dallo zio per aiutare con i suoi incanti le forze che difendono Gerusalemme, già coadiuvate dai demoni evocati dall'altro perfido mago al servizio dell'inferno, Ismeno. Armida getta lo scompiglio fra i Crociati facendo innamorare tutti di sé (più avanti ci verrà detto che tra i pochi immuni al suo fascino vi sono Goffredo, Rinaldo e Tancredi, quest'ultimo perso dietro a Clorinda) e tra i primi ad essere sedotti è Eustazio, il giovane e focoso fratello del capitano. È lui a portare la ragazza da Goffredo e Armida gli rivolge un falso discorso, dicendo di essere stata scacciata dal suo regno e chiedendo l'aiuto dei Crociati per riconquistarlo, per cui il capitano dovrebbe affidarle dieci tra i migliori guerrieri che la seguano fino a Damasco. Goffredo, che forse intuisce l'inganno, inizialmente si mostra riluttante, ma di fronte alle pressioni del fratello alla fine acconsente alle richieste della giovane e decide in seguito di estrarre a sorte i nomi di chi dovrà seguirla, anche se un gran numero di soldati lasceranno il campo irretiti dal suo fascino maliardo (tra questi lo stesso Eustazio). Armida si presenta dunque come la perfida incantatrice che usa la sua bellezza e la magia per ottenere i suoi scopi e il suo arrivo al campo cristiano ricorda la scena iniziale dell'Orlando innamorato, quando Angelica si presentava alla corte di Carlo Magno a Parigi e rivolgeva al re franco un discorso assai simile (► TESTO: L'apparizione di angelica).
- Armida viene descritta secondo i canoni della bellezza classica, con i lunghi capelli biondi e ricci increspati dal vento, la pelle bianchissima, il volto colorato di rosa e bianco (attraverso i paragoni letterari delle rose e dell'avorio, tipici della poesia antica), la bocca simile a una rosa che risalta nel volto. La donna si mostra consapevole del proprio fascino e impegnata in un raffinato gioco di seduzione con i guerrieri cristiani, lasciando intravedere parte del proprio corpo attraverso il velo bianco ed eccitando così le fantasie dei soldati che immaginano il resto delle sue bellezze, cosa di cui lei si rende perfettamente conto. Preziose e ricercate le similitudini usate dall'autore nella presentazione, a cominciare dal paragone con la cometa o la stella visibile in cielo di giorno (a indicare la singolarità della sua bellezza), per poi accostare il fascino di Armida ai raggi del sole che traspaiono da una nube e aumentano la luce, immagine simile a quella del raggio che attraversa l'acqua o un cristallo restando intatto (ott. 32); di sapore molto manieristico la similitudine di 31.1-2, in cui il biancore della pelle di Armida è paragonato a quello della neve da cui il fuoco amoroso trae alimento (l'antitesi neve-fuoco quasi anticipa certe sottigliezze dei poeti del Barocco, che spesso useranno simili accostamenti nei loro "concetti").
- Numerosi e di alto livello i riferimenti letterari presenti nel passo, già nell'ott. 29 in cui la bellezza della maga è definita superiore a quella di alcune divinità femminili del mondo classico (attraverso la citazione di Cipro, patria di Venere, Delo, sacra a Diana-Artemide, e Argo, città natale di Elena e consacrata a Era-Giunone), mentre all'ott. 35 Eustazio si rivolge a lei con parole simili a quelle con cui Odisseo apostrofa Nausicaa nel libro VI dell'Odissea (cfr. vv. 101 ss.), incerto se si tratti di una donna mortale o di una dea. Il v. 3 dell'ott. 30 ricorda Petrarca (Canz., 11, v.10: "et l'amoroso sguardo in sé raccolto") e l'autore del Trecento è citato anche in 38.8 (Canz., 167, v. 9: "Ma 'l suon che di dolcezza i sensi lega"). Nelle ott. 39 ss. Armida rivolge a Goffredo una suasoria che è un piccolo capolavoro retorico, iniziando con una captatio benevolentiae (39.1 ss: "Principe invitto... / noto è per tutto il tuo valor"; 41.1: "Io te chiamo, in te spero") e in seguito facendo leva sulle corde patetiche col racconto delle sue vicissitudini familiari, col dire infine che la lode derivante da un gesto pietoso non è meno grande di quella data da una vittoria militare. Il riferimento al "Dio ch'a tutti è Giove" di 42.5 nasce probabilmente dalla falsa etimologia varroniana di Iuppiter, da Iuvans pater (Dio giova tutti), e anche il "giusta" di 42.6 si richiama a Giove.