Guittone d'Arezzo
«Ahi lasso, or è stagion de doler tanto»
È la più famosa canzone di Guittone, dedicata alla rotta di Montaperti del 1260 che causò il declino politico della città di Firenze (sino allora la città più potente della Toscana) e che ora suscita il lamento accorato del poeta, ispirato al genere provenzale del "planh". Guittone produce un alto esempio di poesia impegnata e civile, inaugurando il genere della canzone politica che tanto successo avrà in seguito (soprattutto nella poesia di Dante dell'esilio) e usando specialmente l'arma dell'ironia, con cui colpisce impietosamente la città di Firenze ormai decaduta.
► PERCORSO: La lirica amorosa
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Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
a ciascun om che ben ama Ragione, ch’eo meraviglio u’ trova guerigione, ca morto no l’ha già corrotto e pianto, vedendo l’alta Fior sempre granata e l’onorato antico uso romano ch’a certo pèr, crudel forte villano, s’avaccio ella no è ricoverata: ché l’onorata sua ricca grandezza e ’l pregio quasi è già tutto perito e lo valor e ’l poder si desvia. Oh lasso, or quale dia fu mai tanto crudel dannaggio audito? Deo, com’hailo sofrito, deritto pèra e torto entri ’n altezza? Altezza tanta êlla sfiorata Fiore fo, mentre ver’ se stessa era leale, che ritenëa modo imperïale, acquistando per suo alto valore provinci’ e terre, press’o lunge, mante; e sembrava che far volesse impero sì como Roma già fece, e leggero li era, c’alcun no i potea star avante. E ciò li stava ben certo a ragione, ché non se ne penava per pro tanto, como per ritener giustizi’ e poso; e poi folli amoroso de fare ciò, si trasse avante tanto, ch’al mondo no ha canto u’ non sonasse il pregio del Leone. Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo tratto l’onghie e li denti e lo valore, e ’l gran lignaggio suo mort’a dolore, ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo. E ciò li ha fatto chi? Quelli che sono de la schiatta gentil sua stratti e nati, che fun per lui cresciuti e avanzati sovra tutti altri, e collocati a bono; e per la grande altezza ove li mise ennantîr sì, che ’l piagâr quasi a morte; ma Deo di guerigion feceli dono, ed el fe’ lor perdono; e anche el refedier poi, ma fu forte e perdonò lor morte: or hanno lui e soie membre conquise. Conquis’è l’alto Comun fiorentino, e col senese in tal modo ha cangiato, che tutta l’onta e ’l danno che dato li ha sempre, como sa ciascun latino, li rende, e i tolle il pro e l’onor tutto: ché Montalcino av’abattuto a forza, Montepulciano miso en sua forza, e de Maremma ha la cervia e ’l frutto; Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle e Volterra e ’l paiese a suo tene; e la campana, le ’nsegne e li arnesi e li onor tutti presi ave con ciò che seco avea di bene. E tutto ciò li avene per quella schiatta che più ch’altra è folle. Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno, e l’onor suo fa che vergogna i torna, e di bona libertà, ove soggiorna a gran piacer, s’aduce a suo gran danno sotto signoria fella e malvagia, e suo signor fa suo grand’ enemico. A voi che siete ora in Fiorenza dico, che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia; e poi che li Alamanni in casa avete, servite·i bene, e faitevo mostrare le spade lor, con che v’han fesso i visi, padri e figliuoli aucisi; e piacemi che lor dobiate dare, perch’ebber en ciò fare fatica assai, de vostre gran monete. Monete mante e gran gioi’ presentate ai Conti e a li Uberti e alli altri tutti ch’a tanto grande onor v’hano condutti, che miso v’hano Sena in podestate; Pistoia e Colle e Volterra fanno ora guardar vostre castella a loro spese; e ’l Conte Rosso ha Maremma e ’l paiese, Montalcin sta sigur senza le mura; de Ripafratta temor ha ’l pisano, e ’l perogin che ’l lago no i tolliate, e Roma vol con voi far compagnia. Onor e segnoria adunque par e che ben tutto abbiate: ciò che desïavate potete far, cioè re del toscano. Baron lombardi e romani e pugliesi e toschi e romagnuoli e marchigiani, Fiorenza, fior che sempre rinovella, a sua corte v’apella, che fare vol de sé rei dei Toscani, dapoi che li Alamani ave conquisi per forza e i Senesi. |
Ahimè, questo è il tempo in cui ogni uomo che ama la Giustizia deve dispiacersi, al punto che mi meraviglio che trovi conforto e che il lutto e il pianto non l'abbiano già ucciso, vedendo la nobile Firenze sempre fiorente e il suo antico, onorato costume romano che muoiono certamente (il che è una crudeltà assai vergognosa) se essa non è soccorsa in fretta: poiché la sua onorata e ricca grandezza e il suo prestigio sono già quasi tutti estinti e il valore e il potere se ne vanno. Ahimè, quando mai si è sentita una sventura tanto crudele? O Dio, come hai potuto permettere che il diritto morisse e l'ingiustizia trionfasse?
Nella città di Firenze, oggi sfiorita, ci fu tanta nobiltà quando essa era leale verso se stessa, che aveva un aspetto imperiale, conquistando grazie al suo alto valore numerose province e terre, vicine o lontane; e sembrava che volesse creare un impero come quello di Roma, e le sarebbe stato facile, poiché nessun'altra città la poteva sopravanzare. E ciò avveniva certamente a buon diritto, poiché non si dava tanto da fare per il suo vantaggio, quanto piuttosto per mantenere la giustizia e la pace; e poiché le piacque fare questo, acquistò un tale potere che nel mondo non c'è alcun luogo dove non risuonasse il prestigio del Leone. Ora invece, ahimè, Firenze non è più un Leone, poiché vedo che gli sono state strappate le unghie, i denti e il valore, e la sua nobile stirpe è stata uccisa dolorosamente, ed è stato messo con somma ingiustizia in una crudele prigione. E chi gli ha fatto questo? Quelli che sono discesi e nati dalla sua nobile stirpe e che grazie al Leone [di Firenze] furono cresciuti e innalzati sopra tutti gli altri, e collocati in posizioni di prestigio; e a causa del grande potere acquisito, insuperbirono a tal punto che lo ferirono quasi a morte; ma Dio gli fece dono della guarigione ed egli [il Leone] li perdonò; e quelli lo colpirono nuovamente, ma esso fu forte e risparmiò loro la vita: ora essi hanno conquistato lui e le sue membra. L'alto Comune di Firenze è stato conquistato e ha scambiato le parti con quello di Siena, a tal punto che questo gli rende tutta l'onta e il danno che Firenze gli ha sempre inflitto, come sa ogni italiano, e Siena toglie a Firenze tutto il potere e l'onore: infatti Siena ha abbattuto [le mura di] Montalcino, ha ridotto in suo potere Montepulciano, e ha la cerva [il tributo] e la rendita della Maremma; Siena considera come suoi San Gimignano, Poggibonsi, Colle Val d'Elsa, Volterra e il suo territorio; e Siena si è totalmente impadronita della campana, delle insegne, delle armi e di tutti gli arredi, insieme a tutto ciò che aveva di buono con sé. E tutto ciò accade a Firenze per quella parte del suo popolo [i Ghibellini] che è folle più d'ogni altra. È folle chi fugge il suo vantaggio e cerca il danno, e fa in modo che il suo onore diventi vergogna, e con grave danno si sottopone a una tirannia malvagia ed empia dopo aver goduto di una giusta libertà, dove stava con grande piacere, e fa di un suo gran nemico il proprio signore. Io dico a voi che vivete a Firenze che, a quanto sembra, ciò che è successo vi piace; e dal momento che avete in casa vostra i Tedeschi, serviteli bene e fatevi mostrare le loro spade con cui vi hanno sfregiato il viso, e ucciso i vostri padri e figli; e sono contento che dobbiate pagarli con molto denaro, poiché nel fare tutto questo sopportarono una gran fatica. Offrite molte monete e gran gioielli ai Conti [Guidi] e agli Uberti e tutti gli altri [Ghibellini] che vi hanno condotto a un tale onore, mettendo Siena sotto il vostro potere; Pistoia, Colle Val d'Elsa e Volterra ora fanno sorvegliare le vostre fortezze a loro spese; e il Conte Rosso [Aldobrandino] tiene il territorio della Maremma, Montalcino sta al sicuro senza le mura; i Pisani hanno timore per Ripafratta e i Perugini temono che gli leviate il lago [Trasimeno], e Roma vuole allearsi con voi. Sembra dunque che abbiate onore e potere, e ogni vantaggio: potete ottenere ciò che volevate, ovvero farvi signori di tutta la Toscana. Signori del nord, di Roma e del sud, toscani, romagnoli e marchigiani: Firenze, fiore che rifiorisce sempre, vi chiama alla sua corte, poiché vuole diventare regina (re) della Toscana, dal momento che ha conquistato con la forza i Tedeschi e i Senesi. |
Interpretazione complessiva
- Metro: canzone formata da sei stanze di quindici versi ciascuna (endecasillabi e settenari), con schema della rima ABBACDDCEFGgFfE; congedo di sette versi con schema EFGgFfE, che riprende la sirma. Tutte le stanze, a parte l'ultima, sono capfinidas: vv. 15-16, "altezza"; 30-31, "Leone"; 45-46, "conquis(e)"; 60-61, "foll(e); 75-76, "monete". Rima equivoca ai vv. 25-28 ("tanto") e identica ai vv. 40-44 ("morte"); rima siciliana ai vv. 80-83 (-ora/-ura). Il v. 45 presenta un trittongo in "soie", monosillabo.
- Il testo è in volgare toscano, con alcuni francesismi (v. 20, 76, mante, "molte") e provenzalismi (v. 13, dannaggio; v. 40, ennantîr, "si innalzarono"). Latinismo è u' ("dove"), da ubi. Forme particolari sono granata (v. 5, "fiorente", da "granare", mettere semi; êlla (v. 16, "en la" per "nella"); folli (v. 27, "gli fu"), veo (v. 31, "vedo", dal siciliano vio), fun (v. 37, "furono"), soie (v. 45, "sue"), av[e] (v. 51, 58 e altrove, "ha"), rei (v. 95, "re"). Molti gli artifici retorici, secondo il gusto proprio dell'autore per dare maggiore solennità ai versi: al v. 15 c'è antitesi di "deritto" e "torto"; chiasmo ai vv. 48-50 ("l'onta e 'l danno... rende... tolle... il pro e l'onor tutto") e al v. 76 ("Monete mante" e "gran gioi'"); apostrofe al v. 67 ("A voi che siete ora in Fiorenza dico..."); interrogazioni retoriche ai vv. 14 e 35; sineddoche ai vv. 84-85 ("'l pisano, / e 'l perogino", singolare per il plurale); ironia nelle ultime due stanze e nel congedo. Il polisindeto ai vv. 91-92 sottolinea il rischio che i nemici di Firenze si moltiplichino in tutta Italia, ora che la città è stata sconfitta.
- Il testo, molto elaborato sul piano metrico e stilistico, è un lamento (costruito secondo il modello del sirventese e del planh provenzale) per la rovinosa sconfitta subìta il 4 sett. 1260 dai guelfi di Firenze, ad opera dei fuorusciti ghibellini alleatisi con la nemica storica Siena e spalleggiati dalle truppe tedesche di Manfredi di Svevia: nella prima parte (stanze 1-3) Guittone esprime il dolore per il declino di Firenze, il rimpianto per la grandezza passata (la città, emula dell'antica Roma da cui si pensava discendesse, aveva costruito un impero con cui manteneva pace e giustizia), la vergogna per l'umiliazione patita (il Leone, simbolo araldico di Firenze, è rimasto privo di unghie e denti ed è stato conquistato dai nemici); nella seconda parte (stanze 4-6 e congedo) l'autore dapprima elenca le roccheforti e le terre sottratte a Firenze da Siena, quindi accusa i ghibellini di aver venduto la loro città ai nemici senesi e ai mercenari tedeschi per un'effimera vittoria, dovendo anche pagare denaro sonante ai soldati che hanno ucciso i loro padri e figli. La conclusione della canzone usa l'arma dell'ironia, poiché Guittone si rivolge ancora ai ghibellini e si complimenta con loro per la grande vittoria, che ha fatto di Firenze una città gloriosa e potente (ovviamente è vero il contrario), mentre nel congedo è un sarcastico invito ai potenti d'Italia perché proclamino la superiorità della città toscana, in realtà esposta al rischio di ulteriori vessazioni.
- La canzone riecheggia l'antica rivalità tra guelfi e ghibellini che insanguinò spesso Firenze nel XIII sec. con scontri intestini, di cui vi sono anche qui indiretti riferimenti: Guittone ricorda ai vv. 35-45 che il "Leone" fiorentino è stato vinto dai suoi stessi figli, ovvero da quelle famiglie ghibelline che gli si erano rivoltate contro in due occasioni (1248, 1258) ed erano state sconfitte e perdonate, mentre ora si abbandonano a truci vendette contro i guelfi (dopo Montaperti ci furono in effetti condanne all'esilio e uccisioni). L'autore colpisce con feroce irrisione la follia dei ghibellini, che nell'ansia della vendetta hanno di fatto causato la rovina politica della loro città e favorito la temporanea ascesa dell'odiata Siena a proprio danno (nel 1266, con la battaglia di Benevento, i ghibellini saranno sconfitti e i guelfi rientreranno a Firenze per restarvi).
- La battaglia di Montaperti ebbe una importanza decisiva negli equilibri politico-militari dell'Italia comunale del tempo e fu sempre sentita dai guelfi fiorentini come un'onta da cancellare: lo scontro fu in effetti molto sanguinoso e vide le truppe dei fuorusciti ghibellini capeggiate dal nobile fiorentino Farinata degli Uberti, mentre il tradimento di Bocca degli Abati che militava tra i cavalieri di Firenze favorì la presa del carroccio delle forze guelfe, nonché il massacro dei suoi eroici difensori (Bocca verrà posto da Dante tra i traditori della patria, nel canto XXXII dell'Inferno). Farinata è il protagonista di un celebre episodio dell'Inferno dantesco (nel canto X), dove compare tra gli eresiarchi del sesto cerchio e scambia alcune battute salaci con il guelfo dante, al quale profetizza indirettamente anche l'esilio (TESTO: ► Dante e Farinata degli Uberti). Dante motiva in quel passo l'odio dei guelfi verso le famiglie ghibelline proprio per lo scacco di Montaperti, citando in particolare "l'Arbia colorata in rosso" (secondo le cronache del tempo, il fiume Arbia che scorre presso Siena si colorò del sangue dei soldati fiorentini uccisi).