Dante Alighieri
L'incontro con Matelda
(Purgatorio, XXVIII, 1-75)
Dopo il solenne discorso con cui Virgilio ha dichiarato che la purificazione di Dante è conclusa e ha invitato il discepolo a entrare nel giardino dell'Eden, il poeta toscano fa il suo ingresso nella "divina foresta" e inizia a esplorarla incuriosito, descrivendola come un luogo meraviglioso dove sembra regnare una eterna primavera. Giunto sulle sponde di un fiume (il Lete, le cui acque concedono l'oblio dei peccati), Dante scorge sulla sponda opposta una bellissima donna che accende in lui il desiderio e che apprenderemo presto trattarsi di Matelda, in un certo senso la custode del Paradiso Terrestre. La donna fornirà a lui e a Virgilio e Stazio alcuni importanti ragguagli circa la natura di questo luogo incantato.
► AUTORE: Dante Alighieri
► OPERA: Divina Commedia
► AUTORE: Dante Alighieri
► OPERA: Divina Commedia
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Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva, ch’a li occhi temperava il novo giorno, sanza più aspettar, lasciai la riva, prendendo la campagna lento lento su per lo suol che d’ogne parte auliva. Un’aura dolce, sanza mutamento avere in sé, mi feria per la fronte non di più colpo che soave vento; per cui le fronde, tremolando, pronte tutte quante piegavano a la parte u’ la prim’ombra gitta il santo monte; non però dal loro esser dritto sparte tanto, che li augelletti per le cime lasciasser d’operare ogne lor arte; ma con piena letizia l’ore prime, cantando, ricevieno intra le foglie, che tenevan bordone a le sue rime, tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su ‘l lito di Chiassi, quand’Eolo scilocco fuor discioglie. Già m’avean trasportato i lenti passi dentro a la selva antica tanto, ch’io non potea rivedere ond’io mi ‘ntrassi; ed ecco più andar mi tolse un rio, che ‘nver’ sinistra con sue picciole onde piegava l’erba che ‘n sua ripa uscìo. Tutte l’acque che son di qua più monde, parrieno avere in sé mistura alcuna, verso di quella, che nulla nasconde, avvegna che si mova bruna bruna sotto l’ombra perpetua, che mai raggiar non lascia sole ivi né luna. Coi piè ristretti e con li occhi passai di là dal fiumicello, per mirare la gran variazion d’i freschi mai; e là m’apparve, sì com’elli appare subitamente cosa che disvia per maraviglia tutto altro pensare, una donna soletta che si gia e cantando e scegliendo fior da fiore ond’era pinta tutta la sua via. «Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti che soglion esser testimon del core, vegnati in voglia di trarreti avanti», diss’io a lei, «verso questa rivera, tanto ch’io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera». Come si volge, con le piante strette a terra e intra sé, donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette, volsesi in su i vermigli e in su i gialli fioretti verso me, non altrimenti che vergine che li occhi onesti avvalli; e fece i prieghi miei esser contenti, sì appressando sé, che ‘l dolce suono veniva a me co’ suoi intendimenti. Tosto che fu là dove l’erbe sono bagnate già da l’onde del bel fiume, di levar li occhi suoi mi fece dono. Non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta dal figlio fuor di tutto suo costume. Ella ridea da l’altra riva dritta, trattando più color con le sue mani, che l’alta terra sanza seme gitta. Tre passi ci facea il fiume lontani; ma Elesponto, là ‘ve passò Serse, ancora freno a tutti orgogli umani, più odio da Leandro non sofferse per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perch’allor non s’aperse. |
Desideroso ormai di esplorare all'interno e tutt'intorno la foresta divina, folta e rigogliosa, che temperava agli occhi i raggi del sole appena sorto, senza attendere oltre lasciai il margine roccioso e mi inoltrai a passo lento nella vegetazione, sul suolo che da ogni lato mandava dolci profumi.
Una brezza dolce e regolare mi colpiva la fronte, non più forte di un dolce vento; a causa di essa le fronde, tremolando, si piegavano tutte verso la parte [a occidente] in cui il santo monte proietta la prima ombra; tuttavia non si piegavano tanto che gli uccellini, sui rami, cessassero di adoperare ogni loro arte [di cantare]; ma con piena gioia, cantando, accoglievano le prime ore del giorno tra le foglie, che facevano accompagnamento ai loro canti, proprio come avviene di ramo in ramo nella pineta sul lido di Classe, quando Eolo scioglie il vento di scirocco. Ormai i lenti passi mi avevano trasportato dentro l'antica selva al punto che non potevo più vedere da dove ero entrato; ed ecco che mi impedì di procedere oltre un fiumicello [il Lete], che con le sue piccole onde piegava verso sinistra l'erba che cresceva sulla sua sponda. Tutte le acque che sulla Terra sono più pure, sembrerebbero sozze e fangose a paragone di quella, che non nasconde nulla, anche se scorre scura sotto quell'ombra perpetua, che non lascia mai filtrare i raggi del sole o della luna. Arrestai il passo e spinsi lo sguardo al di là del fiumicello, per osservare la gran varietà dei rami fioriti; e là mi apparve, come appare all'improvviso una cosa che, destando meraviglia, distoglie da ogni altro pensiero, una donna [Matelda] che se ne andava tutta sola, e mentre cantava coglieva i fiori di cui era cosparso il suo cammino. «Orsù, bella donna, che sei riscaldata dall'amore, se voglio credere all'aspetto che di solito è specchio fedele dei sentimenti, abbi la compiacenza di farti un poco avanti, verso questo fiume, così che io possa capire che cosa stai cantando. Tu mi fai ricordare dove si trovava e come era Proserpina, nel momento in cui la madre perse lei, e lei l'eterna primavera [o i fiori che aveva raccolto]». Come volteggia una donna che danza, con i piedi stretti a terra e fra di loro, e mette a malapena un piede davanti all'altro, così lei si volse verso di me sui fiorellini rossi e gialli, non diversamente da una vergine che abbassi gli occhi dignitosi; e esaudì le mie preghiere, avvicinandosi al punto che il dolce suono del suo canto era udito e compreso da me. Appena fu là dove le erbe sono bagnate dalle acque del bel fiume, mi fece il dono di sollevare i suoi occhi. Non credo che sotto le ciglia di Venere, trafitta dal figlio Cupido in modo involontario, splendesse un tale lume d'amore. Ella rideva in piedi dall'altra sponda, intrecciando con le sue mani più fiori colorati, che quell'alta terra produce senza sementi. Il fiume ci separava di non più di tre passi; ma l'Ellesponto, là dove passò Serse, il cui esempio è ancora ammonimento per ogni orgoglio umano, non fu più odiato da Leandro a causa delle sue mareggiate tra le città di Sesto e Abido, rispetto a quel fiume perché non mi fece passare. |
Interpretazione complessiva
- Il passo si colloca immediatamente dopo il solenne discorso con cui Virgilio, giunto all'ingresso dell'Eden con Dante, lo aveva dichiarato ormai puro dai suoi peccati e libero dalla sua guida, invitandolo a prendere il suo arbitrio come "duce" e a entrare a suo piacimento nel giardino, cosa che Dante fa all'inizio di questo canto (► TESTO: Virgilio e Dante alle soglie dell'Eden). Il Paradiso Terrestre viene descritto come una foresta dal fogliame talmente fitto che scherma i raggi del sole, su cui soffia una leggera brezza costante (apprenderemo essere prodotta dal movimento delle sfere celesti) e allietata dal canto soave degli uccelli, dove sembra regnare una eterna primavera: è evidente il richiamo al mito classico dell'età dell'oro, del resto rievocato da Matelda alla fine del canto, con la differenza che questo è il luogo creato da Dio per accogliere i primi progenitori e ora simbolo dell'avvenuta redenzione dal peccato originale. La descrizione dell'Eden si rifà in parte anche al locus amoenus della poesia stilnovista, incluso il particolare del fiume che scorre nel bosco e che scopriremo trattarsi del Lete, il fiume le cui acque concedono l'oblio dai peccati commessi; l'altro fiume del Paradiso è l'Eunoè, che rafforza il ricordo del bene compiuto e che verrà mostrato alla fine della cantica.
- La bellissima donna che Dante vede sulla sponda opposta del Lete e che accende in lui il desiderio è Matelda, forse la figura più enigmatica di tutto il poema: non identificabile con alcun personaggio storico o letterario (per quanto non siano mancati tentativi fantasiosi in tal senso), Matelda rappresenta con ogni probabilità la condizione di innocenza perduta dall'uomo dopo la cacciata di Adamo ed Eva dall'Eden e ora riacquistata dalle anime purificate, per cui essa è l'unica figura totalmente allegorica della Commedia. La sua descrizione riprende sia lo stereotipo della donna-angelo stilnovista (Matelda canta e balla sull'erba mentre è intenta a raccogliere fiori per farne una ghirlanda, particolare che ricorda anche Lia nel sogno del canto XXVII), sia la figura mitologica di Proserpina prima di essere rapita da Plutone, paragone esplicitato da Dante ai vv. 49-51 quando le si rivolge direttamente chiedendole di parlargli. Nella seconda parte del canto Matelda (il cui nome verrà fatto solo in XXXIII, 119) spiegherà a Dante qual è la natura dell'Eden, quale l'origine dei suoi fiumi (Lete ed Eunoè) e dirà che i poeti classici forse sognarono questo luogo quando descrissero nei loro versi l'età dell'oro, parole che fanno sorridere Virgilio e Stazio. Nei canti finali del Purgatorio Matelda immergerà Dante prima nel Lete e poi nell'Eunoè, lasciando intendere che forse è questo il suo ruolo nell'Eden.
- Numerosi i riferimenti alla poesia classica, a cominciare dal paragone tra Matelda e Proserpina (vv. 49-51) che Dante trae da Ovidio (Met., V, 341 ss.), mentre più avanti la luce che risplende negli occhi della donna è accostata a quella dello sguardo di Venere quando fu trafitta per sbaglio da Cupido (la fonte potrebbe essere ancora Ovidio, Met., X, 525-526); il Lete che separa Dante da Matelda gli ricorda l'Ellesponto che separava Ero da Leandro (Ovidio ne tratta nelle Heroides, ma è incerto che Dante conoscesse il testo), fiume accostato anche al re persiano Serse che l'attraversò nella guerra contro Atene e che ora è monito per l'orgoglio umano.