Gian Giorgio Trissino
Il suicidio di Sofonisba
(Sofonisba, vv. 1861-1889; 1896-1926)
La tragedia si ispira alla vicenda storica di Sofonisba, la figlia del generale cartaginese Asdrubale e sposa di Siface, re della Numidia, che dopo la vittoria dei Romani a Zama cade prigioniera di Masinissa, re dei Massili. Questi ama la giovane e la sposa all'insaputa dei Romani, ma Scipione lo costringe in seguito a considerare Sofonisba come una schiava e lui procura alla moglie del veleno, affinché lei possa uccidersi. La scena che segue descrive proprio il patetico suicidio della protagonista, che condivide il momento drammatico con l'ancella Erminia cui affida il figlio.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► PERCORSO: Il Rinascimento
1865 1870 1875 1880 1885 1889 1896 1900 1905 1910 1915 1920 1925 |
SOFONISBA Molto mi piace che tu sia disposta di compiacermi; or morirò contenta. Ma tu, sorella mia [1], primieramente prendi il mio figliolin da la mia mano. ERMINIA O da che cara man, che caro dono! SOFONISBA Ora, in vece di me, li sarai madre. [2] ERMINIA Così farò, poiché di voi fia privo. [3] SOFONISBA O figlio, figlio, quando più bisogno hai de la vita mia, da te mi parto. ERMINIA Ohimé, come farò fra tanta doglia? SOFONISBA Il tempo suol far lieve ogni dolore. ERMINIA Deh lasciatemi ancor venir con voi! SOFONISBA Basta ben, basta de la morte mia. [4] ERMINIA O fortuna crudel, di che mi spogli! SOFONISBA O madre mia, quanto lontana siete! almen potuto avessi una sol volta vedervi, e abbracciar ne la mia morte! ERMINIA Felice lei, felice, che non vede questo caso crudel [5]; ch'assai men grave ci pare il mal, che solamente s'ode. SOFONISBA O caro padre, o dolci miei fratelli, quant'è ch'io non vi vidi; né più mai v'aggio a vedere [6]; Idio vi faccia lieti. ERMINIA O quanto quanto ben perderann'ora. SOFONISBA Erminia mia, tu sola a questo tempo mi sei padre, fratel, sorella e madre. ERMINIA Lassa, valesse pur per un di loro. SOFONISBA Or sento ben che la virtù si manca [7] a poco a poco, e tuttavia camino. [...] ERMINIA O che pietate, o che dolore estremo! SOFONISBA A che piangete? Non sapete ancora che ciò che nasce, a morte si destina? [8] CORO Ahimé, che questa è pur troppo per tempo, ch'ancor non siete nel vigesim'anno. [9] SOFONISBA Il bene esser non può troppo per tempo. ERMINIA Che duro bene è quel che ci distrugge! SOFONISBA Accostatevi a me, voglio appoggiarmi; ch'io mi sento mancare, e già la notte tenebrosa ne vien ne gli occhi miei. ERMINIA Appoggiatevi pur sopra 'l mio petto. SOFONISBA O figlio mio, tu non arai [10] più madre; ella già se ne va; statti con Dio. ERMINIA Ohimé, che cosa dolorosa ascolto. Non ci lasciate ancor, non ci lasciate. SOFONISBA I' non posso far altro, e sono in via. ERMINIA Alzate il viso a questo, che vi bascia. CORO Riguardatelo un poco. SOFONISBA Ahimé, non posso. CORO Dio vi raccolga in pace. SOFONISBA Io vado; adio. ERMINIA Ohimei, ch'io son distrutta. CORO Ell'è passata con soave morte. Sarebbe forse ben di ricoprirla. ERMINIA Deh lasciatela alquanto: o donna cara, luce de gli occhi miei, dolce mia vita, tosto m'avete, tosto abandonata. O dolci lumi [11], o dilicate mani, come vi vedo stare: o felice alma, udite un poco, udite la mia voce; la vostra cara Erminia vi dimanda. CORO Lassa [12], che più non vede, e più non ode; cuoprila pur, e riportianla dentro. [...] |
[1] Si rivolge alla ancella Erminia. [2] Ora gli farai da madre al mio posto. [3] Poiché sarà privo di voi. [4] È sufficiente che muoia solo io. [5] Che non assiste a questa crudele morte. [6] Non vi potrò vedere mai più. [7] Adesso sento che mi mancano le forze. [8] Non sapete ormai che tutto ciò che nasce è destinato a morire? [9] Ahimè, questa morte è troppo precoce, poiché non avete ancora vent'anni. [10] Tu non avrai. [11] Dolci occhi (lumi è termine petrarchesco). [12] Sventurata. |
Interpretazione complessiva
- Metro: endecasillabi sciolti, con inserzione di settenari senza uno schema preciso (ad es. il v. 1915); i vv. 1913-1914 sono endecasillabi divisi in due differenti battute, secondo un uso che diverrà frequente nel teatro tragico sino ad Alfieri e Manzoni. La lingua è il fiorentino letterario della tradizione, pur con la presenza di alcune forme settentrionali come al v. 1889 ("camino") e al v. 1914 ("adio"), con scempiamento delle geminate; non mancano elementi propri del lessico petrarchesco (ad es. "lumi" per "occhi", v. 1921), anche se Trissino non aderisce alla proposta linguistica di Bembo e conserva una certa libertà espressiva (il testo è tuttavia lontano da quella "lingua delle corti" che l'autore teorizzò nelle sue opere).
- La protagonista Sofonisba è presentata come una vera eroina tragica, che scegli la strada drammatica del suicidio per sottrarsi al triste destino di diventare schiava dei Romani e risolve in tal modo il contrasto al centro dell'opera: la sua figura ricorda in parte quella di Didone, anche lei suicida per l'abbandono dell'amato Enea ed essa pure legata affettivamente alla sorella Anna che nel libro IV dell'Eneide svolgeva il ruolo ricoperto qui da Erminia (con la differenza che Anna giungeva quando Didone si era già trafitta con la spada, Erminia invece assiste Sofonisba dopo che ha assunto il veleno). Il tono usato dall'autore è enfatico e declamatorio, in linea con i modelli greci che Trissino aveva studiato (e che imita in modo stretto, anche nell'utilizzo del "coro" di donne di Cirta, la città dove si svolge la scena), tuttavia la versificazione è sciolta e anticipa in certi passaggi felici l'arte dei tragediografi dei secoli successivi, in particolare Alfieri che pure dedicherà una tragedia a Sofonisba nel 1789.
- La triste vicenda di Sofonisba ispirò vari scrittori prima e dopo il Cinquecento, a cominciare da Petrarca che alla donna dedicò alcune pagine dei Trionfi (Tr. Cup., II, 79 ss.) e del poema Africa, ambientato proprio durante la seconda guerra punica (la donna è tra i protagonisti del libro V); in epoche successive Sofonisba fu al centro delle omonime tragedie dello scrittore francese Jean De Mairet (1634) e di Vittorio Alfieri (1789), con quest'ultimo che segue solo in parte il modello del Trissino e descrive la morte dell'eroina per avvelenamento di fronte al marito Masinissa e a Scipione, dunque in maniera diversa dallo scrittore del Cinquecento.