Letteratura italiana
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Dante Alighieri


Definizione del volgare illustre
(De vulgari eloquentia, I, XVII-XVIII)

Nei capitoli finali del primo libro del trattato l'autore, dopo aver passato in rassegna le varietà dei volgari italiani e aver concluso che nessuno di essi corrisponde al volgare "illustre", definisce questo come la selezione delle migliori parlate della Penisola, aggiungendo gli aggettivi "cardinale", "aulico" e "curiale" di cui spiega il senso. La dotta dissertazione è più filosofica che linguistica e pone le premesse di una costruzione retorica che Dante non portò in realtà mai a compimento, dal momento che il volgare da lui usato in tutte le sue opere (inclusa la "Commedia") è di fatto quel fiorentino duramente criticato nei capp. precedenti di questo stesso libro.

► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Dante Alighieri






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XVII
Dobbiamo ora esporre perché definiamo il volgare da noi trovato con l’aggiunta di «illustre, cardinale, regale, curiale»: renderemo con ciò più chiaro ed evidente che cos’è questo volgare.
Spieghiamo dunque anzitutto che cosa intendiamo con l’aggiunta di «illustre» e per quale ragione usiamo il termine «illustre». Con questo termine intendiamo qualcosa che illumina e che, una volta illuminato, risplende. In questo senso definiamo illustri certi uomini; essi infatti o ricevono luce dal potere e illuminano gli altri con la giustizia e la carità, o hanno ricevuto una dottrina eccelsa e impartiscono un’eccelsa dottrina: così fecero Seneca e Numa Pompilio [1]. Ora, il volgare di cui parliamo è reso sublime dalla dottrina e dal potere e rende sublimi i suoi cultori con l’onore e la gloria.
Che sia reso sublime dalla dottrina, è evidente: infatti da tanti rozzi vocaboli degli Italiani, da tanti costrutti intricati, da tante forme errate, da tanti accenti campagnoli noi vediamo scaturire un volgare così eccellente, così sciolto, così perfetto, così urbano come quello che ci mostrano le canzoni di Cino da Pistoia e dal suo amico. [2] Che poi esista un potere che lo eleva, si vede chiaramente. Qual maggiore potere infatti della possibilità di cambiare il cuore umano e di far volere chi non vuole e disvolere chi vuole, come ha fatto e fa questo volgare?  Che esso poi renda sublimi conferendo onore, è palese. Forse che i suoi ministri non vincono per fama qualsiasi re, marchese, conte o signore? Non c’è proprio bisogno di dimostrarlo. Noi stessi del resto sappiamo quanto esso renda gloriosi i suoi amici, perché la dolcezza di questa gloria ci spinge a dimenticare il nostro esilio. Pertanto dobbiamo a buon diritto dichiararlo «illustre».

XVIII
Non è senza ragione che onoriamo questo volgare con l’aggiunta del secondo aggettivo, cioè chiamandolo «cardinale». Infatti, come l’intero uscio segue il cardine e gira esso stesso muovendosi in dentro o in fuori nel senso in cui gira il cardine, così l’intero gregge dei volgari municipali si gira e si rigira, si muove e si ferma secondo quanto fa questo volgare che appare come il vero padrone di casa. Forse che non estirpa ogni giorno dalla selva italiana i cespugli spinosi? Forse che ogni giorno non innesta germogli e trapianta pianticelle? Di che si occupano i suoi contadini, se non, come si è detto, di togliere e mettere piante? Merita quindi davvero l’onore di un nome così alto.
La ragione per cui lo definiamo «regale» sta nel fatto che, se noi Italiani avessimo una reggia, esso sarebbe la lingua di palazzo. Infatti, se la reggia rappresenta la casa comune di tutto il regno e l’augusta governante di tutte le sue parti, è conveniente che vi si trovi e abiti tutto ciò che risulta tale da essere comune a tutti, senza essere proprio di nessuno: non vi è anzi dimora più degna di un abitante così nobile. E questo sembra appunto il caso del volgare di cui parliamo. Da questo fatto deriva che tutti coloro che si trovano nelle regge si esprimono sempre in un volgare illustre, e, come ulteriore conseguenza, che il nostro volgare illustre, mancando la reggia, va peregrinando come straniero e trova ospitalità in umili ricoveri.
È giusto chiamarlo anche «curiale». La curialità infatti non è altro che la norma e misura di ciò che si deve fare: e poiché la bilancia per tale misura suole esistere soltanto nelle eccellentissime «curie», [3] ne deriva che tutto ciò che nei nostri atti è ben misurato viene chiamato curiale. Ora, questo volgare riceve la sua misura nell’eccellentissima curia degli Italiani e merita pertanto il nome di curiale.
Parlare tuttavia di misure effettuate nella curia degli Italiani, pare uno scherzo, perché non abbiamo curia. Ma a questo si risponde facilmente: infatti, benché in Italia non esista una curia, intesa nella sua unità (come la curia del re di Germania), non mancano tuttavia le membra che la sostituiscono; e come le membra della curia di Germania ricevono unità da un unico Principe, così le membra della nostra sono unite dal lume di grazia della ragione. Sarebbe pertanto falso dire che gli Italiani mancano di una curia, benché siano privi di un Principe: abbiamo infatti una curia, anche se fisicamente dispersa.

[Traduzione di S. Cecchin, UTET, Torino 1986]







[1]
Seneca, il celebre filosofo vissuto nell'età di Nerone, era considerato maestro di saggezza,
mentre il re di Roma era anticamente un esempio di autorità e giustizia.

[2] Dante stesso, nel testo latino indicato con la perifrasi amicus eius.






















[3] Per curia Dante intende il consesso di uomini che lavorano a contatto col sovrano, quindi è un concetto lievemente più ampio del termine "corte".


Interpretazione complessiva

  • Dopo aver passato in rassegna le quattordici varietà di volgare parlate in Italia e non aver ravvisato in nessuna di esse il volgare "illustre", Dante definisce quest'ultimo come una selezione delle migliori caratteristiche di tutte le lingue parlate nella Penisola, da non intendersi dunque come semplice miscuglio di idiomi (tale sarà l'errata interpretazione di Trissino nel XVI sec.), ma come una sorta di costruzione retorica di una lingua non corrispondente a nessuna di quelle effettivamente parlate. L'autore definisce tale volgare come "illustre", in quanto capace di dare lustro a tutti gli altri volgari, "cardinale", poiché le altre lingue ruotano attorno ad esso e lo prendono come punto di riferimento, "aulico" e "curiale" in quanto degno di essere usato in una ideale reggia dagli uomini facenti parte della Curia, benché essa sia fisicamente assente in Italia (Dante pensa alla corte dell'imperatore che dovrebbe regnare a Roma, tuttavia identifica nelle corti dei vari signori italiani le "membra" della corte ideale assente). Risulta chiaro che l'autore non descrive una lingua "di popolo" parlata da una comunità, ma una lingua letteraria da forgiare con un lavoro "a tavolino" e che in certa misura egli identifica con quella già usata dai poeti Siciliani, bolognesi (tra essi soprattutto Guinizelli) e dagli Stilnovisti.
  • Nei capitoli precedenti Dante ha svolto una disamina non solo linguistica ma anche letteraria dei volgari della Penisola, tracciando una rudimentale storia della poesia volgare delle Origini: la linea da lui individuata parte dai Provenzali e passa per i Siciliani (che Dante leggeva nella versione corretta dai copisti toscani, dunque in un volgare privo di quella patina regionale che forse non avrebbe approvato), Guinizelli e i suoi imitatori dello Stilnovo, tra cui egli include Cino da Pistoia e se stesso, indicato con la perifrasi amicus eius. Il "canone" stabilito da Dante risente certo delle polemiche letterarie con i Siculo-toscani e Guittone, tuttavia doveva corrispondere alla percezione dei contemporanei e ha finito per influenzare la storiografia letteraria dell'età moderna, mantenendosi immutata ancora al giorno d'oggi.


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