OPERA
Orlando furioso
L'Orlando furioso è un poema epico-cavalleresco scritto in ottave da Ludovico Ariosto (► AUTORE) nella prima metà del XVI sec., la cui prima edizione è del 1516 (in 40 canti e in volgare emiliano), mentre la terza e definitiva è del 1532 (in 46 canti e con la lingua corretta secondo le indicazioni di P. Bembo). L'opera prosegue idealmente la trama dell'Orlando innamorato di M. M. Boiardo e racconta le avventure dei paladini cristiani di Carlo Magno impegnati nella guerra contro i Saraceni di Spagna nell'VIII sec., anche se lo sfondo storico è scarsamente rispettato dall'autore e fornisce il pretesto per la narrazione di vicende in gran parte fantastiche. I protagonisti principali del poema di Ariosto sono gli stessi personaggi dell'Innamorato, ovvero Orlando (il campione dei guerrieri cristiani, che è innamorato di Angelica e a causa sua perde il senno, da cui il titolo dell'opera), Rinaldo, Angelica (la principessa del Catai già al centro della trama del primo poema), Ruggiero (il guerriero saraceno destinato a convertirsi e a sposare Bradamante, matrimonio da cui avrà origine la casata estense), oltre ai guerrieri pagani Rodomonte, Mandricardo, Ferraù e altri. La trama del poema è ricchissima di altri personaggi e di intermezzi narrativi che deviano dalla trama principale, alternati secondo la tecnica dell'intreccio di cui Ariosto si dimostra conoscitore esperto, anche al fine di mantenere sempre desta l'attenzione del lettore. Nella parte finale del poema l'attenzione si sposta dalle vicende amorose di Orlando e Angelica per concentrarsi sulla guerra tra pagani e cristiani, in cui avrà un ruolo decisivo Ruggiero e che si concluderà con la vittoria definitiva dei Franchi. Grande spazio ha l'elemento magico e sovrannaturale, come del resto già nell'Innamorato, e su tutto domina l'ironia dell'autore, che spesso trae spunto dalle vicende dei personaggi per trarre le sue personali considerazioni sulla vita e sugli errori degli uomini, sempre alla ricerca di qualcosa che non trovano (celebre in tal senso l'episodio del palazzo di Atlante, ma anche quello famosissimo di Astolfo sulla Luna). L'opera ha avuto uno straordinario successo già nel Rinascimento ed è considerata uno dei capolavori assoluti della letteratura italiana, avendo contribuito anche a imporre la soluzione linguistica proposta da Bembo, ovvero il toscano della tradizione letteraria (soluzione adottata da Ariosto che di Bembo era amico). Il poema ha subìto vari adattamenti teatrali e televisivi, nonché dei rifacimenti letterari in chiave moderna di cui il più famoso è senz'altro quello in prosa di Italo Calvino del 1970.
Titolo, struttura e storia editoriale
Ariosto iniziò la composizione dell'opera molto precocemente, probabilmente già dal 1502-1503 (una lettera di Isabella d'Este ne fa menzione nel 1507) ispirandosi alla tradizione del poema cavalleresco che era tornato di gran moda nella letteratura del Quattrocento, specie alla corte estense di Ferrara dove Boiardo aveva ottenuto grande successo con l'Orlando innamorato: egli si propose anzi di continuare in un certo modo la trama del poema boiardesco rimasto interrotto al canto IX del III libro, anche se l'opera di Ariosto si configurò subito come originale e in parte lontana dal modello precedente (► AUTORE: Matteo Maria Boiardo). Il titolo si rifà certo all'Hercules furens di Seneca e mette in evidenza l'ulteriore novità nella trama rispetto al poema di Boiardo, in quanto il protagonista Orlando non solo è innamorato di Angelica ma a causa del suo tradimento perde completamente il senno e fa mancare il suo apporto alla guerra dei Franchi contro i mori (la stessa opera di Boiardo, il cui titolo originale era Inamoramento de Orlando, verrà ribattezzata Orlando innamorato nel XVI sec. proprio sull'esempio del capolavoro ariostesco). Ariosto pubblicò una prima edizione del poema in 40 canti di ottave nel 1516, con dedica al cardinale Ippolito d'Este mantenuta anche nelle stampe successive, forse con una velata ironia (► TESTO: Il proemio); successivamente lavorò a un rifacimento dell'opera e ci fu una seconda edizione nel 1521, con poche varianti della trama e del linguaggio. Le correzioni decisive furono apportate alla terza e definitiva edizione, che vide la luce nel 1532 e che presentò due differenze fondamentali rispetto alle precedenti: anzitutto la trama venne arricchita di numerosi episodi relativi alla guerra contro i mori e la materia accresciuta a 46 canti, inoltre la lingua venne modificata seguendo le indicazioni di Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua, quindi Ariosto adottò il fiorentino letterario al posto del volgare emiliano presente nelle prime due edizioni. Il successo di questa versione fu tale da imporre la soluzione "bembiana" alla questione della lingua come quella largamente adottata nella letteratura del Rinascimento, che infatti (almeno al livello più alto) scelse il fiorentino trecentesco come proprio volgare e tracciò una strada seguita poi dai principali scrittori italiani almeno fino all'Ottocento, quando il problema verrà riaperto e diversamente risolto da Alessandro Manzoni con la seconda edizione dei Promessi sposi. Il lavoro di Ariosto intorno all'edizione del 1532 fu incessante e sappiamo che negli ultimi anni sottoponeva il poema al giudizio degli amici intellettuali che frequentavano la sua casa, accogliendo critiche e suggerimenti e apportando ulteriori correzioni dove riteneva necessario. Rimasero estranei alla versione definitiva del poema i cosiddetti Cinque canti, ovvero una aggiunta alla trama principale dell'opera riguardante i maneggi di Gano di Maganza e che Ariosto compose in un periodo tuttora imprecisato, ma forse successivo alla prima ediz. del 1516; in questa parte doveva forse essere descritta l'uccisione di Ruggiero già anticipata da Boiardo nell'Innamorato, ma l'aggiunta di Ariosto viene lasciata interrotta senza una vera e propria conclusione e resterà fuori dalle successive edizioni del Furioso, che infatti termina col matrimonio di Ruggiero e Bradamante (i Cinque canti verranno stampati postumi nel 1545).
Qui è possibile vedere un breve video sul ruolo della città di Ferrara nello sviluppo del genere del poema epico, tratto dal canale YouTube Video Letteratura |
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La trama del poema
Il poema ha una trama estremamente complicata e ricchissima di personaggi e filoni narrativi secondari, per cui riassumerla in modo esauriente eccederebbe i limiti di questa trattazione: in generale si può affermare che l'opera si sviluppa seguendo due grandi linee di racconto spesso intrecciate fra loro, quella riguardante la guerra tra cristiani e pagani già oggetto dell'epica carolingia e quella degli amori e delle vicende romanzesche che hanno come protagonisti i paladini di entrambi i campi, un dualismo già evidente nell'ottava proemiale ("Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, / le cortesie, l'audaci imprese io canto..."). A ciò si aggiungono innumerevoli intermezzi non direttamente legati alla trama principale che arricchiscono ulteriormente il già complicato intreccio, a volte sotto forma di racconti e favole inserite come pausa narrativa dall'autore. Questi, in estrema sintesi, i principali episodi di cui si compone l'opera.
La fuga di Angelica
L'inizio della narrazione riprende in parte l'Innamorato di Boiardo rimasto interrotto, quando Carlo Magno sottraeva Angelica ai due contendenti Orlando e Rinaldo promettendola in sposa a chi si fosse battuto più valorosamente nell'imminente battaglia contro i mori di re Agramante che dall'Africa hanno passato i Pirenei e invaso la Francia, nel tentativo di vendicare la morte del padre Troiano ucciso proprio da Orlando (Inn., II.XXI.21). Lo scontro si risolve in una sconfitta per i cristiani di cui Angelica approfitta per fuggire, dando inizio a una girandola di inseguimenti (da parte di Rinaldo, Ferraù, Orlando...) da cui partono la maggior parte delle vicende romanzesche del poema (► TESTO: La fuga di Angelica/1). Angelica viene catturata dagli abitanti dell'isola di Ebuda e legata a uno scoglio per essere divorata da un'orca mostruosa, venendo poi liberata da Ruggiero. La donna si rende invisibile grazie al suo anello magico e continua a fuggire, spezzando in seguito l'incantesimo del secondo castello del mago Atlante (► TESTO: Il castello di Atlante). Capitata sul campo dove infuria la guerra tra pagani e cristiani, si imbatte nel giovane fante saraceno Medoro gravemente ferito: lo cura, si innamora di lui e lo sposa, partendo poi con lui per l'Oriente (► TESTO: L'amore di Angelica e Medoro). Sul lido di Tarragona, in Spagna, i due stanno per imbarcarsi, quando incontrano un pazzo dal quale scappano a stento: è Orlando, che ha appreso del loro matrimonio e ha perso il senno. Angelica e Medoro partono e questa è la loro ultima apparizione del poema (► TESTO: Orlando e Angelica a Tarragona).
La follia di Orlando
Orlando, il campione dei paladini cristiani, fa un sogno in cui vede Angelica in pericolo, quindi lascia Parigi nel bel mezzo della guerra contro Agramante e inizia a cercare la donna. Giunto in Olanda, aiuta Olimpia contro Cimosco, malvagio re negromante che possiede un archibugio (► TESTO: Orlando e l'archibugio). Orlando sconfigge Cimosco e distrugge l'arma, poi libera Olimpia dall'orca dell'isola di Ebuda (la donna, abbandonata dall'amato Bireno, era stata a sua volta catturata; ► TESTI: L'abbandono di Olimpia; L'orca di Ebuda). In seguito il paladino finisce nel secondo castello di Atlante, in compagnia di Ruggiero e altri guerrieri, e viene liberato grazie all'intervento di Angelica che gli sfugge. Libera Isabella dai predoni che l'avevano rapita e la riconsegna al fidanzato Zerbino, dopo aver liberato anche lui dai Maganzesi. Si scontra col pagano Mandricardo, ma durante una pausa del duello capita nel luogo che aveva visto l'amore di Angelica e Medoro, finendo per impazzire di gelosia (► TESTO: La follia di Orlando): avendo perso del tutto il senno, Orlando si trasforma in un bruto che va in giro per il mondo a fare follie, finché Astolfo non va sulla Luna a recuperare il suo senno sotto forma di liquido dentro un'ampolla (► TESTO: Astolfo sulla Luna). Il paladino riacquista il senno grazie all'intervento di Astolfo e altri guerrieri, quindi torna a dare il suo apporto alla guerra contro i mori e partecipa allo scontro dei tre contro tre sull'isola di Lipadusa, che si conclude con la vittoria dei cristiani. A questo punto Orlando torna a Parigi, essendo la guerra vinta su tutti i fronti.
L'amore di Ruggiero e Bradamante
Bradamante, la sorella di Rinaldo innamorata del pagano Ruggiero, cerca il suo amato e incontra Pinabello, che le racconta di come il fidanzato sia prigioniero del mago Atlante, suo padre adottivo che vuole impedire che diventi cristiano. La donna libera Ruggiero dal primo castello del mago anche grazie all'aiuto di Melissa, un'incantatrice che le predice le future gesta degli Este la cui stirpe nascerà dalle nozze tra lei e il guerriero (è il tema encomiastico del poema, per cui si veda oltre). Ruggiero viene però sottratto dall'ippogrifo, un cavallo alato inviato da Atlante, e giunge all'isola della maga Alcina dove libera Astolfo trasformato in mirto. In seguito, sempre in groppa all'ippogrifo, Ruggiero libera Angelica dall'orca dell'isola di Ebuda e ne è affascinato, ma la donna fugge grazie all'anello magico. Il guerriero viene poi nuovamente rapito da Atlante nel suo secondo castello (► TESTO: Il castello di Atlante), che Astolfo riuscirà a distruggere liberando lui e Bradamante, prima di impossessarsi dell'ippogrifo. Ruggiero decide di tornare al campo pagano per unirsi a re Agramante, ma viene coinvolto in una serie di scontri con gli altri saraceni e, ferito, deve separarsi da Bradamante. Ritrovata la sua donna, apprende dallo spirito di Atlante (nel frattempo defunto) la verità sulle sue origini cristiane e il fatto che lui e Marfisa sono gemelli; viene poi battezzato da un eremita e si converte per sposare Bradamante, ma intanto il padre di questa, Amone, ha deciso di darla in moglie a Leone, figlio dell'imperatore greco Costantino. Ruggiero parte per la Grecia per ottenere fama e ricchezze, e in seguito a una serie di peripezie riesce a ottenere in sposa Bradamante. Le nozze concludono il poema, anche se durante il banchetto irrompe Rodomonte che sfida a duello Ruggiero, il quale lo uccide dopo un aspro combattimento (► TESTO: Il duello di Ruggiero e Rodomonte).
La guerra tra pagani e cristiani
Il conflitto nasce dalla volontà del re africano Agramante di vendicare la morte del padre Troiano, ucciso a suo tempo da Orlando, per cui si allea al re di Spagna Marsilio e invade la Francia, infliggendo una serie di dure sconfitte ai cristiani e giungendo ad assediare Parigi. Qui il guerriero pagano Rodomonte compie straordinarie imprese belliche (► TESTO: L'assedio di Parigi), restando persino chiuso dentro le mura della città e facendo strage di nemici (episodio che si rifà a quello di Turno nel libro IX dell'Eneide). Alla guerra ha fatto mancare il suo apporto fondamentale Orlando, che ha lasciato Parigi per cercare Angelica: in sua assenza i cristiani riescono comunque a riprendersi e a respingere i saraceni, come nella battaglia in cui viene ucciso re Dardinello e si colloca l'episodio di Cloridano e Medoro (► VAI AL TESTO). Dio si schiera decisamente coi cristiani e invia l'arcangelo Michele a dar manforte ai Franchi; questi scatena la Discordia contro i pagani e getta scompiglio tra le loro fila. L'esercito dei mori è in rotta e Agramante medita di ritornare in Africa, ma poi propone un duello di tre pagani contro altrettanti cristiani sull'isola di Lipadusa (Lampedusa), per decidere le sorti della guerra: lo scontro oppone i cristiani Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i pagani Agramante, Gradasso e Sobrino, che vengono sconfitti. Agramante viene ucciso da Orlando e i regni pagani sono distrutti ovunque, per cui la guerra è vinta da Carlo Magno su tutti i fronti. L'ultimo pagano ad essere ucciso è Rodomonte, che cade nel duello finale contro Ruggiero (► TESTO: Il duello di Ruggiero e Rodomonte).
Le avventure di Astolfo
Imprigionato in un mirto sull'isola della maga Alcina, Astolfo (figlio del re d'Inghilterra Ottone) viene liberato da Ruggiero e in seguito inizia una serie di viaggi avventurosi, dopo che Logistilla gli ha consegnato un libro di incantesimi e un corno magico. Sconfigge i mostri Caligorante e Orrilo, quindi distrugge il secondo castello di Atlante e si impossessa del cavallo alato ippogrifo, in groppa al quale prosegue i suoi straordinari viaggi. Attraversa l'Africa, giunge in Nubia presso il Senàpo (un leggendario re cristiano dell'Etiopia) e lo libera dalle Arpie, poi visita l'Inferno e il Paradiso Terrestre, dove incontra S. Giovanni Evangelista: raggiunge con questi la Luna grazie al carro di Elia e recupera il senno perduto di Orlando, racchiuso sotto forma di liquido in una grossa ampolla (► TESTO: Astolfo sulla Luna). Crea magicamente un'armata da usare contro i mori, poi restituisce il senno a Orlando con l'aiuto di altri paladini, dando un contributo decisivo alla conclusione vittoriosa della guerra contro Agramante.
I personaggi del poema
Ariosto attinge al consueto repertorio di personaggi del ciclo carolingio a sua volta già ampiamente sfruttato da Pulci nel Morgante e da Boiardo nell'Innamorato (quest'ultimo più strettamente seguito in quanto il Furioso intendeva proseguirne la trama; ► AUTORE: Matteo Maria Boiardo), dunque i protagonisti del poema sono quelli noti al pubblico attraverso le chansons de geste e i "cantari" medievali, con l'aggiunta della figura di Angelica che era stata la principale invenzione boiardesca. Questa conserva per buona parte dell'opera la sua tradizionale fisionomia di donna bellissima e astuta, abile a usare il suo fascino per abbindolare gli uomini (come fa con Sacripante nel canto iniziale; ► TESTO: La fuga di Angelica/2) e in possesso di arti magiche, tra cui un anello in grado di spezzare ogni incanto e di rendere invisibili; solo nella seconda parte del poema il suo personaggio subisce una trasformazione positiva, poiché l'amore per Medoro la rende migliore e la spinge a tornare in Oriente con colui che è diventato il suo sposo, senza sapere di aver indirettamente causato la follia di Orlando. La sua ultima apparizione nel poema è grottesca, poiché dopo aver incontrato Orlando pazzo sul lido di Tarragona finisce a gambe all'aria sulla sabbia, mentre il paladino si impossessa della sua giumenta.
Orlando è dal canto suo il protagonista dell'opera, campione dei paladini cristiani dal corpo invulnerabile ed eroe della guerra, tuttavia lo spazio dedicato da Ariosto al suo personaggio non è molto ampio ed egli entra in scena solo nel canto VIII, quando decide di lasciare Parigi per rimettersi alla ricerca di Angelica andando incontro a molte avventure, ma anche sottraendosi per amore alla battaglia imminente contro il nemico. Certamente Orlando ricorda la figura di Achille nell'Odissea quando lascia la guerra in polemica con Agamennone e anche per la sua invulnerabilità, tuttavia Ariosto introduce il motivo originale della sua follia, ulteriore sviluppo della novità tematica già introdotta da Boiardo che l'aveva descritto come uomo innamorato e non solo eroe della fede. Alla fine del poema riacquista il senno e si pente di aver perso tempo dietro Angelica, dando un contributo decisivo alla vittoria nel duello di Lipadusa in cui uccide re Agramante.
Figura particolare è anche Ruggiero, il personaggio della tradizione carolingia che già Boiardo intendeva sviluppare come progenitore leggendario della stirpe estense: Ariosto trae dall'Innamorato la storia del suo amore per Bradamante, la bellissima donna-guerriera sorella di Rinaldo per sposare la quale Ruggiero si converte al Cristianesimo; il giovane ha del resto origini cristiane ed è stato allevato dal mago Atlante di Carena, che come nel precedente poema cerca di allontanarlo dall'amata perché conosce il suo destino e sa che verrà ucciso da un tradimento di Gano di Maganza. I suoi tentativi però non hanno esito e Ruggiero diventerà marito di Bradamante, dopo aver preso parte all'ultima parte della guerra nelle file cristiane (negli ultimi canti del Furioso il suo ruolo diventa preminente su quello di Orlando, anche in ragione del motivo encomiastico che è incentrato sul suo personaggio). Il poema si conclude anzi con le nozze di lui e Bradamante, interrotte dall'arrivo di Rodomonte che lo sfida a duello e viene da lui ucciso, episodio che ricalca il duello di Enea e Turno che chiude l'Eneide (► TESTO: Il duello di Ruggiero e Rodomonte).
Tra gli altri paladini cristiani hanno un ruolo importante, benché non molto ampio, anche Rinaldo, il cugino di Orlando e fratello di Bradamante che è protagonista di molti episodi secondari (specie all'inizio, quando si reca in Scozia per cercare rinforzi militari) e Astolfo, il figlio del re d'Inghilterra che compariva già nel Morgante e nell'Innamorato, dove si presentava come un fanfarone un po' sgangherato, mentre nel Furioso compie fantastici viaggi in groppa all'ippogrifo ed è vincitore di molti mostri, inoltre a lui è affidato il compito essenziale di recuperare il senno di Orlando sulla Luna. Più patetico invece il personaggio di Zerbino, il figlio del re di Scozia fidanzato di Isabella che muore ucciso da Mandricardo nel tentativo di proteggere le armi di Orlando, che il paladino impazzito ha lasciato incustodite nella foresta. Tra i guerrieri pagani spiccano soprattutto Ferraù, già visto nell'Innamorato, e Rodomonte, una sorta di gigante quasi invincibile che compie mirabolanti imprese durante l'assedio di Parigi la cui promessa sposa Doralice viene poi rapita da Mandricardo, figlio del re dei Tartari Agricane (Rodomonte e Mandricardo saranno entrambi uccisi da Ruggiero).
Numerosi e variamente sfaccettati anche i personaggi femminili, tra cui (oltre ad Angelica e Bradamante che hanno un ruolo essenziale) vi sono anche Isabella, la fidanzata di Zerbino che pur di mantenersi a lui fedele dopo che è morto e non concedersi a Rodomonte si fa uccidere, Olimpia, la regina d'Olanda protagonista della guerra contro Cimosco, la maga Melissa, che aiuta Bradamante a ritrovare Ruggiero, la maga Alcina che invece tiene prigioniero Astolfo sulla sua isola. Decisamente marginale rispetto ai poemi precedenti la figura di Carlo Magno, che compare in un numero limitato di episodi, mentre uno spazio maggiore trova il suo avversario Agramante, fautore della guerra contro i Franchi come già nel poema di Boiardo. Impossibile poi citare i moltissimi personaggi secondari che affollano letteralmente l'opera, tra cui merita ricordare soprattutto Gabrina, una vecchia malvagia e quasi grottesca che compie imprese ai limiti della perfidia, Bireno, il fidanzato di Olimpia che la abbandona su un'isola deserta (come Teseo con Arianna), e Leone, il promesso sposo di Bradamante che diventa amico di Ruggiero senza sapere che il guerriero è il suo rivale in amore.
Orlando è dal canto suo il protagonista dell'opera, campione dei paladini cristiani dal corpo invulnerabile ed eroe della guerra, tuttavia lo spazio dedicato da Ariosto al suo personaggio non è molto ampio ed egli entra in scena solo nel canto VIII, quando decide di lasciare Parigi per rimettersi alla ricerca di Angelica andando incontro a molte avventure, ma anche sottraendosi per amore alla battaglia imminente contro il nemico. Certamente Orlando ricorda la figura di Achille nell'Odissea quando lascia la guerra in polemica con Agamennone e anche per la sua invulnerabilità, tuttavia Ariosto introduce il motivo originale della sua follia, ulteriore sviluppo della novità tematica già introdotta da Boiardo che l'aveva descritto come uomo innamorato e non solo eroe della fede. Alla fine del poema riacquista il senno e si pente di aver perso tempo dietro Angelica, dando un contributo decisivo alla vittoria nel duello di Lipadusa in cui uccide re Agramante.
Figura particolare è anche Ruggiero, il personaggio della tradizione carolingia che già Boiardo intendeva sviluppare come progenitore leggendario della stirpe estense: Ariosto trae dall'Innamorato la storia del suo amore per Bradamante, la bellissima donna-guerriera sorella di Rinaldo per sposare la quale Ruggiero si converte al Cristianesimo; il giovane ha del resto origini cristiane ed è stato allevato dal mago Atlante di Carena, che come nel precedente poema cerca di allontanarlo dall'amata perché conosce il suo destino e sa che verrà ucciso da un tradimento di Gano di Maganza. I suoi tentativi però non hanno esito e Ruggiero diventerà marito di Bradamante, dopo aver preso parte all'ultima parte della guerra nelle file cristiane (negli ultimi canti del Furioso il suo ruolo diventa preminente su quello di Orlando, anche in ragione del motivo encomiastico che è incentrato sul suo personaggio). Il poema si conclude anzi con le nozze di lui e Bradamante, interrotte dall'arrivo di Rodomonte che lo sfida a duello e viene da lui ucciso, episodio che ricalca il duello di Enea e Turno che chiude l'Eneide (► TESTO: Il duello di Ruggiero e Rodomonte).
Tra gli altri paladini cristiani hanno un ruolo importante, benché non molto ampio, anche Rinaldo, il cugino di Orlando e fratello di Bradamante che è protagonista di molti episodi secondari (specie all'inizio, quando si reca in Scozia per cercare rinforzi militari) e Astolfo, il figlio del re d'Inghilterra che compariva già nel Morgante e nell'Innamorato, dove si presentava come un fanfarone un po' sgangherato, mentre nel Furioso compie fantastici viaggi in groppa all'ippogrifo ed è vincitore di molti mostri, inoltre a lui è affidato il compito essenziale di recuperare il senno di Orlando sulla Luna. Più patetico invece il personaggio di Zerbino, il figlio del re di Scozia fidanzato di Isabella che muore ucciso da Mandricardo nel tentativo di proteggere le armi di Orlando, che il paladino impazzito ha lasciato incustodite nella foresta. Tra i guerrieri pagani spiccano soprattutto Ferraù, già visto nell'Innamorato, e Rodomonte, una sorta di gigante quasi invincibile che compie mirabolanti imprese durante l'assedio di Parigi la cui promessa sposa Doralice viene poi rapita da Mandricardo, figlio del re dei Tartari Agricane (Rodomonte e Mandricardo saranno entrambi uccisi da Ruggiero).
Numerosi e variamente sfaccettati anche i personaggi femminili, tra cui (oltre ad Angelica e Bradamante che hanno un ruolo essenziale) vi sono anche Isabella, la fidanzata di Zerbino che pur di mantenersi a lui fedele dopo che è morto e non concedersi a Rodomonte si fa uccidere, Olimpia, la regina d'Olanda protagonista della guerra contro Cimosco, la maga Melissa, che aiuta Bradamante a ritrovare Ruggiero, la maga Alcina che invece tiene prigioniero Astolfo sulla sua isola. Decisamente marginale rispetto ai poemi precedenti la figura di Carlo Magno, che compare in un numero limitato di episodi, mentre uno spazio maggiore trova il suo avversario Agramante, fautore della guerra contro i Franchi come già nel poema di Boiardo. Impossibile poi citare i moltissimi personaggi secondari che affollano letteralmente l'opera, tra cui merita ricordare soprattutto Gabrina, una vecchia malvagia e quasi grottesca che compie imprese ai limiti della perfidia, Bireno, il fidanzato di Olimpia che la abbandona su un'isola deserta (come Teseo con Arianna), e Leone, il promesso sposo di Bradamante che diventa amico di Ruggiero senza sapere che il guerriero è il suo rivale in amore.
Le tecniche narrative
Ariosto è scrittore abilissimo a tenere le fila di questa complessa matassa narrativa, nella quale tutti i vari filoni si intrecciano variamente e ogni cosa sembra andare al suo posto, con l'autore che manovra le sue creature dall'alto come un sapiente burattinaio: il poema ha dunque una struttura salda a dispetto del gran numero di personaggi ed episodi e in questo differisce nettamente sia dal Morgante, in cui ogni "cantare" aveva una sorta di autonomia narrativa, sia dell'Innamorato, la cui trama era assai più aggrovigliata e meno lineare. Tale equilibrio compositivo è una delle ragioni del successo dell'opera e della sua fama di capolavoro, mentre molto interessante è la tecnica usata dall'autore per tenere vivo l'interesse del pubblico è che è stata definita dell'intreccio o dell'entrelacement, in base alla quale i vari filoni narrativi si succedono paralleli e il poeta salta dall'uno all'altro lasciando i personaggi in situazioni incerte e dubbiose, creando suspence e attesa da parte del lettore (una simile tecnica si può paragonare a quella del cliffhanger, usata nella moderna cinematografia televisiva). Talvolta ciò è attuato insieme a delle anticipazioni della trama che non vengono del tutto svelate, come nell'episodio del canto XIX (ott. 42) in cui Angelica e Medoro, ormai sposati e in procinto di partire per l'Oriente, incontrano sul lido di Tarragona un "pazzo" che sta per aggredirli e la cui identità non viene ancora rivelata: solo in seguito, nel canto XXIX (ott. 57 ss.), ci verrà spiegato che si tratta di Orlando, il quale aveva saputo del tradimento della sua donna e aveva perso il senno, fatto che viene raccontato attraverso un flashback nei canti immediatamente precedenti (► TESTO: Orlando e Angelica a Tarragona). Questi artifici letterari non erano una novità assoluta nell'epica cavalleresca e qualcosa di simile era già stato usato da Boiardo, tuttavia con esiti artistici inferiori e un controllo della materia non paragonabile a quello dimostrato da Ariosto (forse anche per la non completezza del suo poema, rimasto interrotto al canto IX del libro III; ► AUTORE: Matteo Maria Boiardo).
Nel costruire l'opera Ariosto bada dunque a soddisfare in parte le attese del pubblico aristocratico che dalla lettura di un poema epico esigeva anzitutto intrattenimento, per cui era funzionale la grande varietà di personaggi e intermezzi romanzeschi, mentre le vicende fantastiche dei paladini vengono proiettate su uno sfondo storico che è solo minimamente rispettato e funge da "scenario" dove ambientare le mille peripezie che animano l'intreccio dell'opera, senza intenti di verisimiglianza (c'è chi ha parlato, giustamente, di "mitologia narrativa" creata da Ariosto sulla base della tradizione carolingia). Per questo vediamo i guerrieri dell'VIII sec. che indossano armature simili a quelle dei cavalieri del Quattrocento e che si comportano come gentiluomini rinascimentali, mentre alcuni fatti narrati (come la corte di Carlo Magno a Parigi, la guerra portata dai mori in Francia, l'assetto geopolitico dell'Europa...) non hanno alcun riscontro reale e rispondono unicamente all'esigenza di divertire i lettori, che certo non si aspettavano veridicità storica in questo tipo di narrazione. Sullo sfondo c'è anche la paura reale per l'avanzata dei Turchi nel Mediterraneo nel XVI sec. e il grandioso assedio di Parigi narrato nei canti centrali del poema riecheggia quello dei vichinghi dell'888, ma forse anche l'assedio di Vienna da parte degli Ottomani nel 1529, mentre la totale vittoria dei cristiani sui saraceni con cui si conclude il poema vuol essere l'auspicio di una nuova crociata da bandire contro il nemico musulmano che minacciava il cuore dell'Europa in quegli anni. Tali paure si intensificheranno negli ultimi anni del Cinquecento e saranno al centro anche della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, che tuttavia a differenza del Furioso narrerà la prima crociata in maniera più aderente al vero storico e con una narrazione più lineare grazie al ridotto numero di personaggi e vicende (► OPERA: Gerusalemme liberata).
Nel costruire l'opera Ariosto bada dunque a soddisfare in parte le attese del pubblico aristocratico che dalla lettura di un poema epico esigeva anzitutto intrattenimento, per cui era funzionale la grande varietà di personaggi e intermezzi romanzeschi, mentre le vicende fantastiche dei paladini vengono proiettate su uno sfondo storico che è solo minimamente rispettato e funge da "scenario" dove ambientare le mille peripezie che animano l'intreccio dell'opera, senza intenti di verisimiglianza (c'è chi ha parlato, giustamente, di "mitologia narrativa" creata da Ariosto sulla base della tradizione carolingia). Per questo vediamo i guerrieri dell'VIII sec. che indossano armature simili a quelle dei cavalieri del Quattrocento e che si comportano come gentiluomini rinascimentali, mentre alcuni fatti narrati (come la corte di Carlo Magno a Parigi, la guerra portata dai mori in Francia, l'assetto geopolitico dell'Europa...) non hanno alcun riscontro reale e rispondono unicamente all'esigenza di divertire i lettori, che certo non si aspettavano veridicità storica in questo tipo di narrazione. Sullo sfondo c'è anche la paura reale per l'avanzata dei Turchi nel Mediterraneo nel XVI sec. e il grandioso assedio di Parigi narrato nei canti centrali del poema riecheggia quello dei vichinghi dell'888, ma forse anche l'assedio di Vienna da parte degli Ottomani nel 1529, mentre la totale vittoria dei cristiani sui saraceni con cui si conclude il poema vuol essere l'auspicio di una nuova crociata da bandire contro il nemico musulmano che minacciava il cuore dell'Europa in quegli anni. Tali paure si intensificheranno negli ultimi anni del Cinquecento e saranno al centro anche della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, che tuttavia a differenza del Furioso narrerà la prima crociata in maniera più aderente al vero storico e con una narrazione più lineare grazie al ridotto numero di personaggi e vicende (► OPERA: Gerusalemme liberata).
La celebrazione della "cortesia"
Nel poema trova grande spazio la celebrazione del mondo cavalleresco e del suo sistema di valori, specie attraverso la narrazione delle avventure dei paladini che vanno per il mondo impegnati in una sorta di quête come nei romanzi cortesi del XII sec. e sono chiamati a dar prova del loro valore militare, lottando contro mostri e briganti oppure salvando qualche indifesa donzella da minacce più o meno incombenti. Tale rappresentazione è espressione di quel mondo cortese al quale l'opera era rivolta e al cui interno Ariosto stesso si era formato, tuttavia è chiaro che la posizione dell'autore è diversa da quella di Boiardo nell'Innamorato e la celebrazione della "cortesia" avviene in modo nostalgico, con la consapevolezza che le regole della cavalleria appartengono al passato e sono ormai inattuali nel mondo moderno, venendo relegate in una dimensione mitica quale appunto può essere solo quella dei poemi epici. Ariosto ha chiara coscienza del tramonto della figura del "cavaliere" nella società del XVI sec., in cui le guerre erano state stravolte dall'avvento delle armi da fuoco, inoltre si rende conto che la "corte" rinascimentale è un centro di potere dove hanno luogo intrighi politici e maneggi d'ogni sorta, lontanissima dal mondo incantato e un po' fiabesco narrato nell'epica francese (da questo punto di vista la visione dell'autore è altrettanto lucida di quella del contemporaneo Machiavelli, attento alla realtà "effettuale" della politica e ai suoi risvolti più negativi). Ciò non significa, naturalmente, che Ariosto intenda fare la parodia del genere cavalleresco o ridicolizzare i protagonisti del suo poema, ma è chiaro che egli guarda alle loro avventure con un distacco ironico che nasce appunto dalla consapevolezza che nel mondo moderno sarebbero impossibili e la cosa viene più volte sottolineata nei punti chiave della narrazione, come nel canto I in cui l'autore descrive l'incredibile atto di cortesia di Rinaldo e Ferraù che sospendono il duello per inseguire Angelica e commenta dicendo che questa era la "gran bontà de' cavallieri antiqui", assolutamente impensabile negli anni in cui il poema era scritto (► TESTO: La fuga di Angelica/1). Più volte rimarca il fatto che la parola data dai paladini del passato era sacra, contrariamente ai trattati moderni tra sovrani che invece vengono continuamente disattesi (cfr. ad es. XX.2: "La fede unqua non debbe esser corrotta, / o data a un solo, o data insieme a mille"), mentre va ricordato che gli esempi di cavalleria si trovano piuttosto tra i guerrieri cristiani e raramente fra i pagani che, con poche eccezioni, spesso mancano di parola e si comportano in modo bieco e feroce, come fa specialmente Rodomonte che non è certo un campione di rispetto delle regole e di correttezza (significativo soprattutto l'episodio in cui dopo aver rapito Isabella vuole abusare di lei ad ogni costo, forzandola al suicidio in quanto lei vuole restare fedele al defunto fidanzato Zerbino; ► TESTO: La morte di Isabella).
Per quanto riguarda la "mitizzazione" della figura del cavaliere, o meglio la sua "smitizzazione" nella società cinquecentesca, Ariosto imputa tale declino alla diffusione delle artiglierie che consentono di abbattere i nemici senza grande abilità e hanno annullato ogni concetto di sfida cavalleresca, come si evince nell'episodio del re-negromante Cimosco che grazie a un anacronistico archibugio spazza via tutti i nemici e conquista un territorio dopo l'altro: Orlando riesce a sconfiggerlo e, venuto in possesso della micidiale arma, la getta in fondo al mare maledicendo chi ha inventato una simile diavoleria, proprio in quanto non consente agli avversari di misurarsi sulla base del proprio valore (cfr. IX.91: "O maladetto, o abominoso ordigno, / che fabricato nel tartareo fondo / fosti per man di Belzebù maligno / che ruinar per te disegnò il mondo, / all’inferno, onde uscisti, ti rasigno"; ► TESTO: Orlando e l'archibugio). La posizione di Ariosto non nasce da una visione utopistica o ideale, ma dalla coscienza che le guerre del XVI sec. hanno molto poco a che fare con la "cavalleria" e si basano ormai sulla consistenza degli eserciti e delle armi possedute, per cui la rievocazione nostalgica del passato rivela una concezione molto pessimistica del presente e per certi versi più realistica ancora di quella di Machiavelli (► SCHEDA: Armi da fuoco e cavalleria). Altrettanto pessimistica e disincantata la descrizione del mondo delle corti, spesso oggetto di una critica impietosa che percorre un po' tutto il poema ed emerge in maggior misura in alcuni episodi, quale soprattutto quello di Astolfo sulla Luna che tra le cose perdute sulla Terra vede i simboli del "servir de le misere corti" (► TESTO: Astolfo sulla Luna; cfr. anche la Satira I, ► TESTO: La vita del cortigiano).
Per quanto riguarda la "mitizzazione" della figura del cavaliere, o meglio la sua "smitizzazione" nella società cinquecentesca, Ariosto imputa tale declino alla diffusione delle artiglierie che consentono di abbattere i nemici senza grande abilità e hanno annullato ogni concetto di sfida cavalleresca, come si evince nell'episodio del re-negromante Cimosco che grazie a un anacronistico archibugio spazza via tutti i nemici e conquista un territorio dopo l'altro: Orlando riesce a sconfiggerlo e, venuto in possesso della micidiale arma, la getta in fondo al mare maledicendo chi ha inventato una simile diavoleria, proprio in quanto non consente agli avversari di misurarsi sulla base del proprio valore (cfr. IX.91: "O maladetto, o abominoso ordigno, / che fabricato nel tartareo fondo / fosti per man di Belzebù maligno / che ruinar per te disegnò il mondo, / all’inferno, onde uscisti, ti rasigno"; ► TESTO: Orlando e l'archibugio). La posizione di Ariosto non nasce da una visione utopistica o ideale, ma dalla coscienza che le guerre del XVI sec. hanno molto poco a che fare con la "cavalleria" e si basano ormai sulla consistenza degli eserciti e delle armi possedute, per cui la rievocazione nostalgica del passato rivela una concezione molto pessimistica del presente e per certi versi più realistica ancora di quella di Machiavelli (► SCHEDA: Armi da fuoco e cavalleria). Altrettanto pessimistica e disincantata la descrizione del mondo delle corti, spesso oggetto di una critica impietosa che percorre un po' tutto il poema ed emerge in maggior misura in alcuni episodi, quale soprattutto quello di Astolfo sulla Luna che tra le cose perdute sulla Terra vede i simboli del "servir de le misere corti" (► TESTO: Astolfo sulla Luna; cfr. anche la Satira I, ► TESTO: La vita del cortigiano).
L'ironia di Ariosto e la sua visione del mondo
Il distacco ironico col quale Ariosto celebra la cavalleria è un atteggiamento che domina largamente nel poema ed è il filtro con cui l'autore presenta la sua particolare visione del mondo, caratterizzata dalla consapevolezza che la vita è troppo breve per sprecarla inseguendo cose vane o inconsistenti, come un amore non corrisposto oppure l'ambizione politica e le ricchezze: è l'ideale "oraziano" già espresso in molte delle Satire (cfr. soprattutto la III, ► TESTO: La felicità delle piccole cose) e che nel poema ritorna con la narrazione delle vicende dei paladini, che il poeta osserva dall'alto e commenta spesso con un sorriso bonario e indulgente. Il salto di qualità del Furioso rispetto ai poemi precedenti è appunto questo, poiché Ariosto non concepisce l'opera unicamente come elegante intrattenimento di un pubblico di corte ma esprime nei vari episodi la sua concezione della vita, per cui molte delle vicende narrate hanno una valenza metaforica che sottintende una "lezione morale", una riflessione su temi fondamentali quali appunto l'amore, l'ambizione, il rapporto coi potenti, ecc. (inutile dire che questa prospettiva è viziata dal suo essere uomo di corte, consapevole dell'evoluzione in senso negativo che tale ambiente stava subendo nel XVI sec.). Si ha un esempio di questo già nel canto iniziale, in cui molti personaggi si perdono in una selva dove tutti sono alla ricerca di qualcosa (Ferraù del suo elmo, Rinaldo del cavallo e poi di Angelica, la donna stessa di una via di fuga...) ma dove nessuno sembra raggiungere il proprio obiettivo, che in metafora allude alla vita umana come un eterno affannarsi dietro un oggetto del desiderio irraggiungibile; una descrizione simile ritorna nel secondo castello di Atlante, dove il mago attira molti paladini che ricercano qualcosa al suo interno (una donna, un oggetto) e poi li trattiene qui con una serie di inganni, per cui nessuno trova una via d'uscita. Identico l'atteggiamento del poeta verso l'amore, che viene, sì, celebrato come la forza in grado di muovere le azioni dei personaggi (in questo non diversamente da quanto faceva Boiardo), ma i cui limiti affiorano nel momento in cui il sentimento è ossessivo o non corrisposto, come nel caso emblematico di Orlando che, appreso del "tradimento" di Angelica, perde il senno e impazzisce completamente. La vicenda di Orlando "furioso" è paradossale anche perché il paladino ama la donna non essendo corrisposto e illudendosi che lei possa ricambiare il suo sentimento, per cui la gelosia da lui provata quando scopre la relazione con Medoro è in gran parte immotivata; la delusione del paladino è, fuor di metafora, quella che ognuno di noi prova quando non vede realizzarsi qualche eccessiva ambizione e che può avere effetti devastanti, proprio come nel caso di Orlando che si trasforma in un bruto che semina morte e distruzione per il mondo (narrazione i cui risvolti ironici fanno sorridere il lettore, ma lo ammoniscono sulle conseguenze che può portare il coltivare sogni irrealizzabili). Del resto il poeta usa l'ironia anche verso se stesso, poiché nel descrivere la follia per amore di Orlando allude anche al sentimento che lo lega alla sua donna, Alessandra Benucci, e afferma in modo beffardo che ne comprende gli effetti ora che è in un "lucido intervallo" della sua pazzia, ormai penetrata "infin all'osso" nel suo essere (XXIV.3, mentre già nel proemio ricordava come la donna lo avesse quasi simile al forsennato Orlando: I.2, "che 'l poco ingegno ad or ad or mi lima"; ► TESTO: Il proemio).
Il momento più felice di questo tipo di descrizione è poi ovviamente l'episodio di Astolfo sulla Luna, quando il guerriero vede tutto ciò che si perde sulla Terra e fra i molti simboli scorge soprattutto quelli relativi alla vita di corte, in cui ci si affanna per conquistare il favore dei signori ottenendo una posizione spesso precaria, mentre sulla Luna vi è anche il senno perso dagli uomini in occupazioni vane, tra cui il gioco d'azzardo, la magia, le ricchezze e gli onori (► TESTO: Astolfo sulla Luna). Il senno è descritto come un "liquor sottile e molle" racchiuso in ampolle di varia grandezza, ognuna con un cartiglio che indica il nome del possessore e che rivela ad Astolfo quanti uomini stimati saggi siano in realtà poco assennati, a cominciare da lui stesso che trova il contenitore che lo riguarda: l'ironia è rivolta ancora una volta contro l'autore medesimo, poiché sulla Luna vi è anche molto senno dei poeti che lo perdono, spesso, producendo versi encomiastici che celebrano i loro signori, come fa lui per primo dedicando il poema alla famiglia estense. Tale atteggiamento è solo in parte contraddittorio, poiché Ariosto critica gli aspetti negativi della corte pur accettandone a malincuore i vantaggi che essa può comunque assicurare, dunque il suo è un "adattarsi" a una situazione che non reputa ideale ma che è la condizione migliore a cui egli possa aspirare data la realtà del mondo, come lui stesso chiarisce (in termini altrettanto ironici) nella Satira III in cui ricorda di non essere ricco e che servire i potenti è comunque meglio che mendicare tra il volgo. Naturalmente questo atteggiamento serenamente distaccato è tra i caratteri distintivi della cultura rinascimentale, di cui Ariosto è uno degli interpreti principali, e nasce dalla consapevolezza dei limiti che quella civiltà stava ormai mostrando nella prima metà del XVI sec. e dal senso di precarietà di una società elegante e dorata, che però avvertiva la crisi politica e di valori che ne minava la sicurezza e che altri autori del tempo analizzarono in maniera più dettagliata, soprattutto Machiavelli e Guicciardini nei loro trattati. Se tutto è precario e instabile non conviene insomma sprecare tempo dietro ambizioni inconsistenti ed è preferibile godere la vita nei suoi piaceri più autentici e modesti, che è lo stesso messaggio al fondo delle Satire e che viene espresso compiutamente nella favola del poema, con un atteggiamento equilibrato che non scade mai nell'ipocrisia o nel cinismo; ben diverso sarà invece il travaglio interiore e il dissidio provato pochi anni dopo da Torquato Tasso, che nelle sue opere esprimerà il contrasto insanabile tra l'aspirazione alla libertà e al piacere da un lato e il senso del dovere e del decoro di corte dell'altro, contrasto dovuto sia ai disordini mentali di cui il poeta sarà vittima ma anche, soprattutto, al clima pesante della Controriforma che tramuterà la corte in un un luogo ben più asfittico di quanto non fosse ai tempi di Ariosto (► AUTORE: Torquato Tasso).
Il momento più felice di questo tipo di descrizione è poi ovviamente l'episodio di Astolfo sulla Luna, quando il guerriero vede tutto ciò che si perde sulla Terra e fra i molti simboli scorge soprattutto quelli relativi alla vita di corte, in cui ci si affanna per conquistare il favore dei signori ottenendo una posizione spesso precaria, mentre sulla Luna vi è anche il senno perso dagli uomini in occupazioni vane, tra cui il gioco d'azzardo, la magia, le ricchezze e gli onori (► TESTO: Astolfo sulla Luna). Il senno è descritto come un "liquor sottile e molle" racchiuso in ampolle di varia grandezza, ognuna con un cartiglio che indica il nome del possessore e che rivela ad Astolfo quanti uomini stimati saggi siano in realtà poco assennati, a cominciare da lui stesso che trova il contenitore che lo riguarda: l'ironia è rivolta ancora una volta contro l'autore medesimo, poiché sulla Luna vi è anche molto senno dei poeti che lo perdono, spesso, producendo versi encomiastici che celebrano i loro signori, come fa lui per primo dedicando il poema alla famiglia estense. Tale atteggiamento è solo in parte contraddittorio, poiché Ariosto critica gli aspetti negativi della corte pur accettandone a malincuore i vantaggi che essa può comunque assicurare, dunque il suo è un "adattarsi" a una situazione che non reputa ideale ma che è la condizione migliore a cui egli possa aspirare data la realtà del mondo, come lui stesso chiarisce (in termini altrettanto ironici) nella Satira III in cui ricorda di non essere ricco e che servire i potenti è comunque meglio che mendicare tra il volgo. Naturalmente questo atteggiamento serenamente distaccato è tra i caratteri distintivi della cultura rinascimentale, di cui Ariosto è uno degli interpreti principali, e nasce dalla consapevolezza dei limiti che quella civiltà stava ormai mostrando nella prima metà del XVI sec. e dal senso di precarietà di una società elegante e dorata, che però avvertiva la crisi politica e di valori che ne minava la sicurezza e che altri autori del tempo analizzarono in maniera più dettagliata, soprattutto Machiavelli e Guicciardini nei loro trattati. Se tutto è precario e instabile non conviene insomma sprecare tempo dietro ambizioni inconsistenti ed è preferibile godere la vita nei suoi piaceri più autentici e modesti, che è lo stesso messaggio al fondo delle Satire e che viene espresso compiutamente nella favola del poema, con un atteggiamento equilibrato che non scade mai nell'ipocrisia o nel cinismo; ben diverso sarà invece il travaglio interiore e il dissidio provato pochi anni dopo da Torquato Tasso, che nelle sue opere esprimerà il contrasto insanabile tra l'aspirazione alla libertà e al piacere da un lato e il senso del dovere e del decoro di corte dell'altro, contrasto dovuto sia ai disordini mentali di cui il poeta sarà vittima ma anche, soprattutto, al clima pesante della Controriforma che tramuterà la corte in un un luogo ben più asfittico di quanto non fosse ai tempi di Ariosto (► AUTORE: Torquato Tasso).
Elementi magici e fantastici
La magia ha ovviamente larga parte nelle vicende del poema, in maniera simile all'Innamorato che a sua volta traeva gli elementi fiabeschi dalla tradizione arturiana dei romanzi cortesi, tuttavia nel Furioso questa parte non è solo funzionale a intrattenere il pubblico colto che apprezzava questi artifici narrativi, ma risponde anche all'esigenza di esprimere attraverso metafore la particolare concezione della vita da parte dell'autore, per cui le varie "favole" sono utilizzate per affrontare dei discorsi molto seri su temi quali amore, onore, ambizione (sul punto si veda sopra). Ariosto giudicava del resto con irrisione coloro che sprecavano energie dietro alle "magiche sciocchezze" (nella commedia Il negromante critica i ciarlatani che nella società del Cinquecento si spacciavano come guaritori o astrologi), perciò la presenza di maghi nell'intreccio del poema non rivela affatto un interesse per la stregoneria o l'occultismo e rientra in gran parte nella "maniera" dei poemi cavallereschi, forse con un velato intento ironico verso i lettori che talvolta, invece, nelle pratiche magiche credevano realmente. Tra i maghi protagonisti del Furioso vi sono infatti vari personaggi, a partire da Angelica la quale (in minor misura rispetto al poema di Boiardo) è in possesso di poteri sovrannaturali e di un anello in grado di rendere invisibili, che spesso funge da deus ex machina che le consente di trarsi d'impaccio e sfuggire a qualche paladino che la insegue; più complessa la figura del mago Atlante di Carena, un vero negromante impegnato nel tentativo vano di distogliere il figlio adottivo Ruggiero dal suo infausto destino e che per questo crea vari incanti, come i due castelli fatati in cui lo attira (► TESTO: Il castello di Atlante), oppure si serve dell'ippogrifo (il mitico cavallo alato invenzione originale dell'Ariosto) per sottrarlo a Bradamante e a sua volta protagonista di vicende fantastiche. Atlante ricopre un ruolo simile alle divinità pagane nell'epica classica, quando intervenivano per ostacolare il fato degli eroi ben sapendo che ciò era vano (ad es. Afrodite che protegge i troiani nell'Iliade, o Giunone che intralcia Enea nell'Eneide), mentre la maga Alcina ricorda più Circe che tratteneva Odisseo nel suo palazzo interrompendo il suo viaggio, poiché anche lei trasforma Astolfo in un mirto e lo tiene imprigionato sulla sua isola, salvo poi unirsi a Gano di Maganza per tramare contro i Franchi nei cosiddetti Cinque canti. Nel poema non mancano neppure maghe benevole, tra cui Melissa che aiuta Bradamante a trovare Ruggiero e le preannuncia il destino glorioso degli Este, oppure Logistilla che consegna ad Astolfo un corno magico e un libro di incantesimi di cui si servirà per lottare contro vari mostri.
Astolfo è in effetti il paladino che più di ogni altro usa la magia per affrontare le sue avventure (elemento che ricalca in parte il suo personaggio nell'Innamorato) e infatti a cavallo dell'ippogrifo compie viaggi mirabolanti sconfiggendo varie creature mostruose (Orrilo, Caligorante, le Arpie...), per giungere sino all'Inferno e al Paradiso Terrestre da dove, scortato dall'apostolo Giovanni, salirà sulla Luna (sul valore metaforico e ironico di questo episodio, di gran lunga il più celebre del poema, si veda il punto precedente). La lotta tra l'eroe e il mostro rientra del resto in un filone letterario assai antico e già ampiamente sfruttato da Boiardo nel suo poema, mentre anche nel Morgante di Pulci vi erano vari giganti affrontati dai paladini per mostrare il loro valore, benché tali figure avessero un intento parodistico e dissacrante che non si ritrova nei poemi successivi (eccesso e dismisura non appartengono all'universo culturale di Ariosto, che ricerca sempre il più assoluto equilibrio). Tra i mostri più celebri del Furioso vi è l'orca dell'isola di Ebuda, che divora le giovani donne incatenate a uno scoglio come Angelica e Olimpia e che viene uccisa da Orlando nell'episodio del canto XI, in cui l'eroe fa ricorso solo alla sua forza sovrumana per avere ragione della creatura (► TESTO: L'orca di Ebuda). Nel poema non manca neppure il sovrannaturale inteso come intervento delle forze celesti in favore dei cristiani, sulla scorta degli interventi degli dei nell'epica greco-latina, anche se Ariosto ha un atteggiamento decisamente ironico e mostra l'arcangelo Michele che, inviato da Dio, va in cerca della Discordia per scatenarla contro i pagani, trovandola però solo tra i monaci nei conventi da dove è invece stato bandito il Silenzio; in seguito la afferra per i capelli e le spezza una croce sulla testa, obbligandola a tornare nel campo dei pagani e a non uscirne prima di aver gettato scompiglio tra le loro file. Una simile descrizione è possibile solo nel clima relativamente libero del primo Rinascimento in cui la letteratura conserva un carattere laico che ammette critiche ironiche verso la Chiesa (si pensi alle commedie dell'Aretino), mentre sarà impensabile nell'età della Controriforma quando Tasso, nella Liberata, eliminerà ogni riferimento alla magia "fiabesca" e ricondurrà il sovrannaturale all'intervento di Dio e dei demoni a sostegno dei rispettivi eserciti in campo a Gerusalemme, con un atteggiamento serio e grave che sarà lontanissimo dall'ironia ariostesca (► OPERA: Gerusalemme liberata).
Astolfo è in effetti il paladino che più di ogni altro usa la magia per affrontare le sue avventure (elemento che ricalca in parte il suo personaggio nell'Innamorato) e infatti a cavallo dell'ippogrifo compie viaggi mirabolanti sconfiggendo varie creature mostruose (Orrilo, Caligorante, le Arpie...), per giungere sino all'Inferno e al Paradiso Terrestre da dove, scortato dall'apostolo Giovanni, salirà sulla Luna (sul valore metaforico e ironico di questo episodio, di gran lunga il più celebre del poema, si veda il punto precedente). La lotta tra l'eroe e il mostro rientra del resto in un filone letterario assai antico e già ampiamente sfruttato da Boiardo nel suo poema, mentre anche nel Morgante di Pulci vi erano vari giganti affrontati dai paladini per mostrare il loro valore, benché tali figure avessero un intento parodistico e dissacrante che non si ritrova nei poemi successivi (eccesso e dismisura non appartengono all'universo culturale di Ariosto, che ricerca sempre il più assoluto equilibrio). Tra i mostri più celebri del Furioso vi è l'orca dell'isola di Ebuda, che divora le giovani donne incatenate a uno scoglio come Angelica e Olimpia e che viene uccisa da Orlando nell'episodio del canto XI, in cui l'eroe fa ricorso solo alla sua forza sovrumana per avere ragione della creatura (► TESTO: L'orca di Ebuda). Nel poema non manca neppure il sovrannaturale inteso come intervento delle forze celesti in favore dei cristiani, sulla scorta degli interventi degli dei nell'epica greco-latina, anche se Ariosto ha un atteggiamento decisamente ironico e mostra l'arcangelo Michele che, inviato da Dio, va in cerca della Discordia per scatenarla contro i pagani, trovandola però solo tra i monaci nei conventi da dove è invece stato bandito il Silenzio; in seguito la afferra per i capelli e le spezza una croce sulla testa, obbligandola a tornare nel campo dei pagani e a non uscirne prima di aver gettato scompiglio tra le loro file. Una simile descrizione è possibile solo nel clima relativamente libero del primo Rinascimento in cui la letteratura conserva un carattere laico che ammette critiche ironiche verso la Chiesa (si pensi alle commedie dell'Aretino), mentre sarà impensabile nell'età della Controriforma quando Tasso, nella Liberata, eliminerà ogni riferimento alla magia "fiabesca" e ricondurrà il sovrannaturale all'intervento di Dio e dei demoni a sostegno dei rispettivi eserciti in campo a Gerusalemme, con un atteggiamento serio e grave che sarà lontanissimo dall'ironia ariostesca (► OPERA: Gerusalemme liberata).
La figura femminile nel poema
Moltissimi sono i personaggi femminili nel Furioso e si può dire che sotto questo aspetto il poema rifletta pienamente il carattere aperto della società aristocratica del Rinascimento, in cui sappiamo che la donna conquistò una relativa indipendenza e una sorta di "emancipazione" dimostrata dal suo ruolo di primo piano negli ambienti di corte e dalla ricca produzione poetica ad opera di cortigiane colte (► PERCORSO: Il Rinascimento; ► SCHEDA: La figura femminile nel '500). Nel poema infatti le donne sono personaggi variamente sfaccettati e non più riconducibili alle sole tipologie della donna-angelo e della donna-demone entrambe sottomesse all'uomo, come avveniva ancora nel Decameron di Boccaccio che, in questo, era opera profondamente medievale (► OPERA: Decameron): nel Furioso vi sono donne di tutti i tipi e questa varietà si ritrova anzitutto in Angelica, la protagonista della parte iniziale dell'opera, che dapprima veste i panni dell'incantatrice e della donna astuta che manipola gli uomini a suo vantaggio, poi si innamora di Medoro e cambia completamente, arrivando a sposare un umile fante in spregio del suo essere figlia del re del Catai. La figura della seduttrice è largamente presente nel poema (Alcina è un altro esempio importante), ma l'amore è anche visto in maniera positiva attraverso donne pronte a lottare e a sacrificarsi per il proprio uomo, come fa Bradamante con Ruggiero riuscendo a sposarlo nonostante mille difficoltà, e come fa Olimpia che rischia la vita per Bireno salvo poi esserne crudelmente abbandonata, episodio che ricalca quello di Arianna e Teseo del mito classico (► TESTO: L'abbandono di Olimpia). Bradamante è anche la donna-guerriera della tradizione epica, derivata dall'analogo personaggio dell'Innamorato (in cui non aveva grande spazio) e, più indietro, dalla figura di Camilla nell'Eneide, con la differenza che lei non è votata alla castità come la regina dei Volsci; non manca neppure un esempio in tal senso di guerriera che rinuncia all'amore, ovvero Marfisa (la sorella gemella di Ruggiero) che dimostra un eccezionale valore e che come il fratello si convertirà al Cristianesimo, mentre la stessa Bradamante è una guerriera di grande coraggio e che affronta in modo impavido vari pericoli, specie quando deve sottrarre l'amato Ruggiero al mago Atlante. Molto coraggiosa e addirittura eroica è anche Isabella, la fidanzata di Zerbino che dopo averlo visto morire nel duello con Mandricardo viene catturata dal feroce Rodomonte che ha deciso di abusare di lei, nonostante le sue suppliche di voler restare fedele alla memoria del suo uomo: la giovane arriva a elaborare un complesso inganno per indurre il saraceno a ucciderla, per cui il suo gesto si qualifica come estremo sacrificio in nome dell'amore e viene celebrato dall'autore in un episodio dai toni solenni e tragici (XXIX.26 ss., in cui Ariosto parla di "atto incomparabile e stupendo" ed esalta il gesto di Isabella come eroina della castità, paragonandola addirittura alla Lucrezia della mitologia romana; ► TESTO: La morte di Isabella). Tra i molti personaggi minori vi sono anche donne malvagie che sono quasi caricaturali nella loro cattiveria, tra cui spicca soprattutto Gabrina, una vecchia dall'oscuro passato che prima è complice dei briganti che hanno rapito Isabella, poi inizia a tormentare il povero Zerbino cacciandolo in seri guai, finché viene impiccata senza troppe cerimonie da un suo ex-complice di scelleratezze; non molto diversa anche Orrigille, la bellissima donna di Battra già comparsa nell'Innamorato e che nel Furioso è autrice di imbrogli e tradimenti, anche lei destinata ad essere punita per le sue malefatte. Merita una citazione anche Doralice, la figlia del re di Granata promessa sposa di Rodomonte che viene rapita da Mandricardo e, lusingata dall'ammirazione che il saraceno ha per lei, finisce per concederglisi, con un comportamento dunque affatto opposto a quello casto ed eroico di Isabella (► TESTO: Mandricardo e Doralice).
La rappresentazione dell'eros
La modernità del Furioso si esprime anche attraverso la rappresentazione del tema amoroso che viene indagato, si può dire, in tutti i suoi aspetti ed è al centro di vicende di segno diametralmente opposto, in cui trova spazio sia l'amore puro e "celestiale" della tradizione lirica precedente (gli esempi di Bradamente e Ruggiero, di Zerbino e Isabella sono significativi) sia quello materiale e sensuale che si rifà piuttosto alla poesia comico-realistica, in episodi che richiamano volutamente il Boccaccio del Decameron e si inseriscono nel complesso panorama della letteratura rinascimentale (qualcosa di simile, del resto, avviene anche nelle commedie di Ariosto, specie nella Lena). La novità consiste, semmai, nel fatto che una vera e propria distinzione tra amore "platonico" e amore fisico non esiste più e il sesso viene rappresentato quale aspetto naturale dell'esistenza come nell'intera civiltà del XV-XVI sec., motivo per cui nel poema viene meno quella rigida distinzione ancora presente nel Decameron tra novelle più "liriche" e altre licenziose, affidate spesso alla narrazione di Dioneo (► OPERA: Decameron). Un primo esempio di questo è offerto dalla descrizione degli splendidi corpi di alcune protagoniste femminili, tra cui Alcina e Olimpia che non compaiono certo in episodi comici e la cui bellezza viene esaltata per l'armonia delle forme, secondo i dettami dell'estetica rinascimentale: Alcina è descritta come una bellissima donna bionda, dagli occhi neri, col "petto colmo e largo" in cui "due pome acerbe, e pur d'avorio fatte, / vengono e van, come onda al primo margo" (VII.14), mentre il corpo di Olimpia viene ammirato dal re d'Irlanda Oberto per i suoi dettagli fisici tra cui "I rilevati fianchi e le belle anche, / e netto più che specchio il ventre piano, / pareano fatti, e quelle coscie bianche, / da Fidia a torno, o da più dotta mano" (XI.69, con un riferimento non certo casuale alla scultura greca classica). Tali descrizioni, non nuove nella tradizione letteraria e simili in parte a quelle della Laura petrarchesca, si inseriscono tuttavia in una visione serena dell'amore fisico e delle sue implicazioni, senza cioè quelle remore religiose o morali che ancora erano presenti nell'autore del Canzoniere per il quale l'attrazione sensuale per la donna era causa di rimorso e tormento interiore (► OPERA: Canzoniere). Qualcosa di simile avviene anche con Angelica, il cui splendido corpo scuote i sensi di un negromante che tenta di approfittare di lei dopo averla stordita, ma a causa dell'età non riesce a dar compimento ai suoi desideri (VIII.49: "Egli l’abbraccia et a piacer la tocca, / et ella dorme e non può fare ischermo; / or le bacia il bel petto, ora la bocca...", mentre nei versi seguenti l'autore ricorre alla metafora del "destriero" dell'uomo che per i troppi anni non può tenere "la testa alta"); in seguito la giovane, nuda ed esposta sullo scoglio all'orca di Ebuda, affascina persino Ruggiero dimentico nell'occasione dell'amata Bradamante (X.96: "Creduto avria che fosse statua finta / o d’alabastro o d’altri marmi illustri", ancora con un rimando all'arte classica). La stessa Angelica vivrà il suo amore per Medoro con un gioioso abbandono al piacere dei sensi, come descritto dal fante saraceno nell'iscrizione all'entrata della grotta in cui afferma che "...la bella Angelica che nacque / di Galafron, da molti invano amata, / spesso ne le mie braccia nuda giacque" (XXIII.108), mentre in precedenza era stato detto che "Angelica a Medor la prima rosa / coglier lasciò, non ancor tocca inante", alludendo al fatto che la giovane, ancora intatta, si era concessa per la prima volta al suo amato (XIX.33).
Non manca poi una lunga serie di episodi, per lo più intermezzi narrativi secondari, in cui le allusioni di tipo erotico si inseriscono in un contesto più comico-realistico e con un'ironia superiore da parte del poeta, che ammicca maliziosamente al lettore: tra i molti esempi si può citare anzitutto la lunga storia di Iocondo e Astolfo (si tratta del re longobardo) raccontata da un oste a Rodomonte, in cui i due personaggi compiono un viaggio attraverso l'Europa in cui si danno a innumerevoli avventure galanti dopo aver scoperto che le rispettive mogli sono infedeli, in particolare quella del re che ha addirittura per amante un nano; alla fine del loro tour giungono alla conclusione che l'appetito sessuale delle donne è insaziabile e che un solo uomo non è in grado di soddisfarle, per cui "alle mogli lor se ne tornaro, / di ch’affanno mai più non si pigliaro" (XXVIII.3-74, racconto in cui numerosi sono i riferimenti al Decameron). Significativo anche l'episodio di Ricciardetto e Fiordispina, raccontato dal primo a Ruggiero dopo un incontro fortuito: Ricciardetto è il fratello gemello di Bradamante, tanto somigliante a lei da essere quasi indistinguibile, fatto di cui approfitta per unirsi a Fiordispina che è perdutamente innamorata della sorella pur sapendola una donna. L'uomo si presenta dalla ragazza fingendosi appunto Bradamante e le racconta falsamente di essersi tramutato in maschio grazie a un intervento di magia, infilandosi subito dopo nel letto di Fiordispina: questa crede ingenuamente alla bugia e si concede felice a Ricciardetto, il quale dal canto suo è lesto ad approfittare dell'occasione (XXV.68: "Io senza scale in su la rocca salto / e lo stendardo piantovi di botto, / e la nimica mia mi caccio sotto", in cui è evidente la terminologia guerresca adattata all'atto sessuale). Lo scambio di persona tra i gemelli di sesso opposto non è una novità in letteratura e se ne ha un esempio anche nella Calandria, la commedia del Bibbiena i cui protagonisti (Lidio e Santilla) invertono spesso i rispettivi ruoli, mentre la beffa erotica è al centro anche della Mandragola di Machiavelli, in cui Callimaco ricorre a un inganno per ottenere le grazie della bella Lucrezia. Va detto infine che queste narrazioni in Ariosto non sono mai oscene o provocatorie ed hanno quindi una funzione diversa dalle pagine di altri scrittori del cosiddetto "Antirinascimento", soprattutto di Pietro Aretino che nei Ragionamenti descrive le attività delle cortigiane in una maniera che rasenta la pornografia ed è molto lontano dall'arte sempre equilibrata e mai volgare del Furioso (► PERCORSO: Il Rinascimento).
Non manca poi una lunga serie di episodi, per lo più intermezzi narrativi secondari, in cui le allusioni di tipo erotico si inseriscono in un contesto più comico-realistico e con un'ironia superiore da parte del poeta, che ammicca maliziosamente al lettore: tra i molti esempi si può citare anzitutto la lunga storia di Iocondo e Astolfo (si tratta del re longobardo) raccontata da un oste a Rodomonte, in cui i due personaggi compiono un viaggio attraverso l'Europa in cui si danno a innumerevoli avventure galanti dopo aver scoperto che le rispettive mogli sono infedeli, in particolare quella del re che ha addirittura per amante un nano; alla fine del loro tour giungono alla conclusione che l'appetito sessuale delle donne è insaziabile e che un solo uomo non è in grado di soddisfarle, per cui "alle mogli lor se ne tornaro, / di ch’affanno mai più non si pigliaro" (XXVIII.3-74, racconto in cui numerosi sono i riferimenti al Decameron). Significativo anche l'episodio di Ricciardetto e Fiordispina, raccontato dal primo a Ruggiero dopo un incontro fortuito: Ricciardetto è il fratello gemello di Bradamante, tanto somigliante a lei da essere quasi indistinguibile, fatto di cui approfitta per unirsi a Fiordispina che è perdutamente innamorata della sorella pur sapendola una donna. L'uomo si presenta dalla ragazza fingendosi appunto Bradamante e le racconta falsamente di essersi tramutato in maschio grazie a un intervento di magia, infilandosi subito dopo nel letto di Fiordispina: questa crede ingenuamente alla bugia e si concede felice a Ricciardetto, il quale dal canto suo è lesto ad approfittare dell'occasione (XXV.68: "Io senza scale in su la rocca salto / e lo stendardo piantovi di botto, / e la nimica mia mi caccio sotto", in cui è evidente la terminologia guerresca adattata all'atto sessuale). Lo scambio di persona tra i gemelli di sesso opposto non è una novità in letteratura e se ne ha un esempio anche nella Calandria, la commedia del Bibbiena i cui protagonisti (Lidio e Santilla) invertono spesso i rispettivi ruoli, mentre la beffa erotica è al centro anche della Mandragola di Machiavelli, in cui Callimaco ricorre a un inganno per ottenere le grazie della bella Lucrezia. Va detto infine che queste narrazioni in Ariosto non sono mai oscene o provocatorie ed hanno quindi una funzione diversa dalle pagine di altri scrittori del cosiddetto "Antirinascimento", soprattutto di Pietro Aretino che nei Ragionamenti descrive le attività delle cortigiane in una maniera che rasenta la pornografia ed è molto lontano dall'arte sempre equilibrata e mai volgare del Furioso (► PERCORSO: Il Rinascimento).
Lingua e stile
Ariosto lavorò al poema per circa un trentennio e le molte correzioni apportate riguardarono soprattutto la lingua, che passò dal volgare emiliano e padano delle prime due edizioni (1516, 1521) al fiorentino letterario della terza (1532), modellato sull'esempio di Petrarca secondo la proposta di Pietro Bembo: va detto che la lingua della prima edizione era già meno "locale" dell'Innamorato di Boiardo, tuttavia erano ancora presenti settentrionalismi del tipo "annonzio", "mostrarò", "boscarecci", "giaccio" (in luogo di "ghiaccio"), i pronomi atoni "me", "te", "se", forme verbali come "semo", "potemo", quando non addirittura forme dialettali come "naranci" (aranci) e "biastemmiare", mentre numerosi erano i latinismi come "nece" (morte), "tuto" (sicuro) e altri, tutte voci eliminate o corrette nella redazione definitiva. L'edizione del 1521 presentava ancora scarse varianti rispetto alla prima e diversi errori tipografici e di lingua, tanto che Ariosto dovette accompagnare la stampa con un nutrito errata corrige, mentre la pubblicazione nel 1525 delle Prose della volgar lingua dell'amico Bembo gli offrì un punto di riferimento con cui apportare le correzioni decisive. Va detto peraltro che il "bembismo" di Ariosto non è del tutto acritico e la lingua del Furioso accoglie espressioni popolari estranee alla lingua letteraria (come "fermare il chiodo" nel senso di decidere con fermezza, "cader de la padella ne le brage", ecc.) e forme tipiche del lessico cavalleresco, mentre un influsso notevole è esercitato dall'opera dantesca e non solo da quella petrarchesca come prescriveva Bembo in ossequio al suo rigore normativo. Il risultato fu comunque un testo che rispecchiava in larga parte le indicazioni delle Prose e ciò determinò il successo della soluzione "bembiana" alla questione della lingua, destinata a influenzare profondamente il successivo sviluppo della letteratura in Italia.
Per quanto riguarda lo stile, il poema presenta una notevole varietà pur mantenendo un tono sostanzialmente uniforme ed evitando bruschi abbassamenti o innalzamenti improvvisi, secondo la lezione del modello petrarchesco e in accordo con la concezione della mediocritas oraziana: Ariosto passa da un registro più solenne e tragico ad uno più basso ed elegiaco o tendente al comico, senza tuttavia grandi variazioni nel lessico e modificando piuttosto l'atteggiamento verso il lettore, al quale talvolta ammicca con la consueta ironia mentre in altre occasioni lo rende compartecipe delle emozioni dei personaggi. Tra i momenti più elevati vi sono la descrizione del grandioso assedio di Parigi e in generale le scene di guerra, come la morte tragica di Cloridano nel tentativo di salvare Medoro (► TESTO: Cloridano e Medoro), oppure il racconto dell'eroica morte di Isabella alla quale scioglie un commosso inno mostrandola in Paradiso assieme al suo Zerbino (in queste parti molto evidente è l'imitazione dell'epica classica, specie dell'Eneide). L'elegia amorosa invece è usata a larga mano nell'episodio di Olimpia abbandonata da Bireno in modo simile ad Arianna, con la donna che si abbandona a un pianto disperato e pronuncia parole di condanna verso l'uomo che l'ha tradita (X.20 ss., in cui il riferimento letterario è il lamento di Didone nel libro IV dell'Eneide; ► TESTO: L'abbandono di Olimpia), così come nel lungo monologo di Bradamante che, ignara di quale sia il destino dell'amato Ruggiero, si strugge d'amore per lui e ne invoca disperata il ritorno (XLV.31 ss., dove la donna si abbandona a un intenso lirismo che riecheggia la poesia petrarchesca, forse non senza un velato intento ironico). Moltissimi i passi in cui Ariosto usa in modo sapiente la sua ironia per commentare le vicende dei personaggi, specie in episodi dalla trama più lieve in cui è la situazione, più che lo stile o il lessico, a suscitare il sorriso del lettore e in cui la fonte di ispirazione, più che la poesia comica del XIII-XIV sec., è il Decameron di Boccaccio: tra le pagine più significative a riguardo vi è la vicenda di Zerbino alle prese con Gabrina, la terribile vecchia che lui è costretto a proteggere per un giuramento e che lo tormenta senza tregua, ed anche le affannose ricerche dell'arcangelo Michele che vuole trovare il Silenzio e la Discordia, e apprende che il primo è stato bandito dai conventi e la seconda vi regna sovrana; decisamente leggero anche l'intermezzo narrativo di Iocondo narrato da un oste a Rodomonte, episodio il cui tema è erotico e che contiene, forse, una lieve critica dal sapore misogino (la morale è che tutte le donne sono, chi più chi meno, infedeli). Grottesco e paradossale è poi l'episodio centrale del poema, la follia di Orlando che si scatena quando il paladino apprende dell'amore di Angelica e Medoro in modo bizzarro (il pastore che vuole consolarlo gli racconta il matrimonio dei due, gettandolo nello sconforto) e che lo trasforma in un bruto che semina morte e distruzione nel mondo, compiendo imprese al limite del sovrumano (il guerriero spazza via intere orde di contadini inermi, rei solo di essersi trovati sulla sua strada, poi si impossessa della cavalla di Angelica e la trascina con sé fino a farla morire; ► TESTO: La follia di Orlando). La leggerezza e l'eleganza con cui sono raccontate queste vicende è molto lontana dalla parodia e dalla dismisura che si trovavano invece in certe pagine del Pulci e non intaccano il saldo controllo della materia narrativa che è propria dell'arte ariostesca, per cui l'apparente varietà dei toni si riconduce a una sostanziale unità dell'opera i cui caratteri fondamentali sono quelli fondanti l'estetica rinascimentale, ovvero l'equilibrio delle forme e l'armonia (cfr. a questo riguardo anche le pagine critiche di B. Croce nel saggio Ariosto, Shakespeare e Corneille, del 1920).
Per quanto riguarda lo stile, il poema presenta una notevole varietà pur mantenendo un tono sostanzialmente uniforme ed evitando bruschi abbassamenti o innalzamenti improvvisi, secondo la lezione del modello petrarchesco e in accordo con la concezione della mediocritas oraziana: Ariosto passa da un registro più solenne e tragico ad uno più basso ed elegiaco o tendente al comico, senza tuttavia grandi variazioni nel lessico e modificando piuttosto l'atteggiamento verso il lettore, al quale talvolta ammicca con la consueta ironia mentre in altre occasioni lo rende compartecipe delle emozioni dei personaggi. Tra i momenti più elevati vi sono la descrizione del grandioso assedio di Parigi e in generale le scene di guerra, come la morte tragica di Cloridano nel tentativo di salvare Medoro (► TESTO: Cloridano e Medoro), oppure il racconto dell'eroica morte di Isabella alla quale scioglie un commosso inno mostrandola in Paradiso assieme al suo Zerbino (in queste parti molto evidente è l'imitazione dell'epica classica, specie dell'Eneide). L'elegia amorosa invece è usata a larga mano nell'episodio di Olimpia abbandonata da Bireno in modo simile ad Arianna, con la donna che si abbandona a un pianto disperato e pronuncia parole di condanna verso l'uomo che l'ha tradita (X.20 ss., in cui il riferimento letterario è il lamento di Didone nel libro IV dell'Eneide; ► TESTO: L'abbandono di Olimpia), così come nel lungo monologo di Bradamante che, ignara di quale sia il destino dell'amato Ruggiero, si strugge d'amore per lui e ne invoca disperata il ritorno (XLV.31 ss., dove la donna si abbandona a un intenso lirismo che riecheggia la poesia petrarchesca, forse non senza un velato intento ironico). Moltissimi i passi in cui Ariosto usa in modo sapiente la sua ironia per commentare le vicende dei personaggi, specie in episodi dalla trama più lieve in cui è la situazione, più che lo stile o il lessico, a suscitare il sorriso del lettore e in cui la fonte di ispirazione, più che la poesia comica del XIII-XIV sec., è il Decameron di Boccaccio: tra le pagine più significative a riguardo vi è la vicenda di Zerbino alle prese con Gabrina, la terribile vecchia che lui è costretto a proteggere per un giuramento e che lo tormenta senza tregua, ed anche le affannose ricerche dell'arcangelo Michele che vuole trovare il Silenzio e la Discordia, e apprende che il primo è stato bandito dai conventi e la seconda vi regna sovrana; decisamente leggero anche l'intermezzo narrativo di Iocondo narrato da un oste a Rodomonte, episodio il cui tema è erotico e che contiene, forse, una lieve critica dal sapore misogino (la morale è che tutte le donne sono, chi più chi meno, infedeli). Grottesco e paradossale è poi l'episodio centrale del poema, la follia di Orlando che si scatena quando il paladino apprende dell'amore di Angelica e Medoro in modo bizzarro (il pastore che vuole consolarlo gli racconta il matrimonio dei due, gettandolo nello sconforto) e che lo trasforma in un bruto che semina morte e distruzione nel mondo, compiendo imprese al limite del sovrumano (il guerriero spazza via intere orde di contadini inermi, rei solo di essersi trovati sulla sua strada, poi si impossessa della cavalla di Angelica e la trascina con sé fino a farla morire; ► TESTO: La follia di Orlando). La leggerezza e l'eleganza con cui sono raccontate queste vicende è molto lontana dalla parodia e dalla dismisura che si trovavano invece in certe pagine del Pulci e non intaccano il saldo controllo della materia narrativa che è propria dell'arte ariostesca, per cui l'apparente varietà dei toni si riconduce a una sostanziale unità dell'opera i cui caratteri fondamentali sono quelli fondanti l'estetica rinascimentale, ovvero l'equilibrio delle forme e l'armonia (cfr. a questo riguardo anche le pagine critiche di B. Croce nel saggio Ariosto, Shakespeare e Corneille, del 1920).
Adattamenti per il teatro e la televisione
Nel 1969 il regista Luca Ronconi realizzò una trasposizione teatrale del poema, concepita come uno spettacolo in cui i molti personaggi agivano simultaneamente in diversi "quadri" e in spazi scenici separati, con il pubblico che poteva scegliere quali segmenti narrativi osservare e con la libertà di spostarsi dall'uno all'altro in qualunque momento e di interagire addirittura con gli attori: l'idea venne dal romanzo Il gioco dell'oca dello scrittore d'avanguardia Edoardo Sanguineti che era concepito in modo analogo (il lettore poteva leggere saltando da un capitolo all'altro) e così, anche con l'aiuto dello stesso autore che adattò il testo dell'opera, venne allestita una rappresentazione senza precedenti e che riscosse un notevole successo di pubblico, apprezzata anche dalla critica che vide elementi "avanguardistici" e di rottura rispetto al teatro tradizionale. L'Orlando furioso di Ronconi andò in scena per la prima volta al al Festival dei Due Mondi di Spoleto e vide impegnati ben quarantacinque attori, tra cui Massimo Foschi (nel ruolo di Orlando), Ottavia Piccolo (Angelica), Mariangela Melato (Olimpia e Fiordispina), Maurizio Merli (Ricciardetto). Lo stesso Ronconi diresse nel 1975 una versione televisiva in cinque puntate dello stesso spettacolo, andata in onda in prima serata sul primo canale RAI, che però non poteva avere la stessa simultaneità del teatro e dovette proporre una trama più lineare e tradizionale (in un primo momento si era pensato a una messa in onda in contemporanea di parti diverse su entrambi i canali della TV pubblica, possibilità poi scartata). Il progetto iniziale prevedeva la trasmissione nel 1974, in occasione del cinquecentesimo anniversario della nascita di Ariosto, poi difficoltà organizzative costrinsero a rimandare il programma di un anno. Le riprese furono tutte realizzate in interni, tra cui le Terme di Caracalla a Roma, e rispetto al testo originale (che pure viene riprodotto in maniera molto fedele dal regista) la narrazione perde inevitabilmente molta della vivacità che aveva lo spettacolo teatrale e l'atmosfera risulta spesso un po' stralunata, senza la leggerezza della narrazione ariostesca (► TELEVISIONE: Orlando furioso). Nel 2015 RAI 5 ha replicato lo sceneggiato televisivo come omaggio al regista Ronconi, da poco scomparso.
L'Orlando furioso di Italo Calvino
Nel 1967 il grande scrittore Italo Calvino (1923-1985) fu protagonista di una personale rilettura e commento del poema ariostesco in alcune trasmissioni radiofoniche, sulla scorta del grande interesse da lui sempre dimostrato per la materia cavalleresca ed espresso a suo tempo nella Trilogia dei nostri antenati: il programma riscosse un certo successo e Calvino decise di raccogliere il materiale in un libro, edito nel 1970 col titolo Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino che propone una scelta degli episodi più significativi del poema di cui sono riportati ampi stralci, preceduti e seguiti da una spiegazione e da un commento in prosa del grande romanziere del Novecento. Tra le pagine antologizzate vi sono la fuga di Angelica, l'ippogrifo, l'isola di Alcina, la vicenda di Olimpia e Bireno, l'assedio di Parigi, i vari castelli incantati di Atlante, la follia di Orlando, la morte di Zerbino e Isabella, Astolfo sulla Luna, per citare solo i principali. Va detto che Calvino non si limita certo a una "parafrasi" e a una spiegazione scolastica del capolavoro del Cinquecento, ma ne offre una personale "riscrittura" in termini spesso ironici e umoristici, in linea con lo spirito e l'atmosfera degli episodi da lui analizzati (che vengono resi con una certa aderenza agli intenti dell'Ariosto e grande rispetto per l'arte del poema). Calvino offre anche un'interpretazione del valore storico-sociale del genere cavalleresco e riassume la storia editoriale del Furioso nel capitolo introduttivo iniziale, ricco di spunti interessanti di critica letteraria. Il libro riscosse un notevole successo di pubblico e critica e fu spesso proposto come lettura nelle scuole, specie in quelle di grado inferiore come introduzione al grande poema del Rinascimento.