Niccolò Machiavelli
Il conflitto sociale all'origine dello Stato
(Il principe, IX)
Machiavelli individua nel conflitto tra "grandi" e "populo" la radice prima che porta alla nascita dello Stato, visto come una sorta di compromesso tra la volontà dei signori di dominare la massa e il desiderio di questa di non essere tiranneggiata: da qui la preferenza accordata al principato non assoluto, in cui il sovrano si fonda sul favore dei sudditi e può prevenire in tal modo congiure e intrighi volti a rovesciarne il potere, tanto più probabili quando il principe si circonda di aristocratici ambiziosi e desiderosi di occupare la sua posizione. Corredano la trattazione gli esempi di Nabide, tiranno di Sparta nell'antichità, dei Gracchi e di Giorgio Scali, capo della plebe a Firenze durante il tumulto dei Ciompi.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► OPERA: Il principe
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► OPERA: Il principe
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CAPITOLO IX
De principatu civili. [1] Ma venendo all’altra parte, quando uno privato cittadino, non per scelleratezza o altra intollerabile violenzia, ma con il favore degli altri suoi cittadini diventa principe della sua patria (il quale si può chiamare principato civile; né a pervenirvi è necessario o tutta virtù o tutta fortuna, ma più presto una astuzia fortunata), dico che si ascende a questo principato o con il favore del populo o con quello de’ grandi. Perché in ogni città si trovono questi dua umori diversi [2]; e nasce da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effetti, o principato o libertà o licenzia. [3] El principato è causato o dal populo o da’ grandi, secondo che l’una o l’altra di queste parti ne ha la occasione. Perché, vedendo e’ grandi non potere resistere al populo, cominciano a voltare la reputazione a uno di loro [4], e fannolo principe per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appetito. El populo ancora, vedendo non potere resistere a’ grandi, volta la reputazione a uno, e lo fa principe, per essere con la autorità sua difeso. Colui che viene al principato con lo aiuto de’ grandi, si mantiene con più difficultà che quello che diventa con lo aiuto del populo; perché si truova principe con di molti intorno che li paiano essere sua equali [5], e per questo non li può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, e ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati [6] a obedire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a’ grandi e sanza iniuria d’altri, ma sì bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso. Praeterea [7] del populo inimico uno principe non si può mai assicurare, per essere troppi; de’ grandi si può assicurare, per essere pochi. El peggio che possa aspettare uno principe dal populo inimico, è lo essere abbandonato da lui, ma da’ grandi, inimici, non solo debbe temere di essere abbandonato, ma etiam [8] che loro li venghino contro; perché, sendo in quelli più vedere e più astuzia, avanzono sempre tempo per salvarsi, e cercono gradi con quello che sperano che vinca. [9] È necessitato ancora el principe vivere sempre con quello medesimo populo; ma può ben fare sanza quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dì, e tôrre e dare, a sua posta, reputazione loro. E per chiarire meglio questa parte dico come e’ grandi si debbano considerare in dua modi principalmente: o si governano in modo, col procedere loro, che si obligano in tutto alla tua fortuna, o no. [10] Quelli che si obligano, e non sieno rapaci, si debbono onorare ed amare; quelli che non si obligano, si hanno ad esaminare in dua modi. O fanno questo per pusillanimità e defetto naturale di animo; allora tu ti debbi servire di quelli massime che sono di buono consiglio [11], perché nelle prosperità te ne onori, e non hai nelle avversità da temerne; ma quando non si obligano ad arte e per cagione ambiziosa, è segno come pensano più a sé che a te; e da quelli si debbe el principe guardare, e temerli come se fussino scoperti inimici, perché sempre, nelle avversità, aiuteranno ruinarlo. Debbe, pertanto, uno che diventi principe mediante il favore del populo, mantenerselo amico; il che li fia facile [12], non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno che, contro al populo, diventi principe con il favore de’ grandi debbe innanzi a ogni altra cosa, cercare di guadagnarsi el populo; il che li fia facile, quando pigli la protezione sua. E perché gli uomini, quando hanno bene da chi credevano avere male, si obligano più al benificatore loro, diventa el populo, subito, più suo benivolo che se si fussi condotto al principato con li favori suoi. E puosselo el principe guadagnare in molti modi; li quali, perché variano secondo el subietto, non se ne può dare certa regola, e però si lasceranno indrieto. Concluderò solo che a uno principe è necessario avere el populo amico, altrimenti non ha, nelle avversità, remedio. Nabide [13], principe delli Spartani, sostenne la obsidione [14] di tutta Grecia e di uno esercito romano vittoriosissimo e difese contro a quelli la patria sua e il suo stato; e li bastò solo, sopravvenente il periculo, assicurarsi di pochi: che se egli avessi avuto el populo inimico, questo non li bastava. E non sia alcuno che repugni a questa mia opinione con quello proverbio trito, che chi fonda in sul populo, fonda in sul fango; perché quello è vero quando uno cittadino privato vi fa su fondamento e dassi a intendere che il populo lo liberi, quando e’ fussi oppresso da’ nimici o da’ magistrati (in questo caso si potrebbe trovare spesso ingannato, come a Roma e’ Gracchi e a Firenze messer Giorgio Scali [15]); ma sendo uno principe che vi fondi su, che possa comandare, e sia uomo di core, né si sbigottisca nelle avversità, e non manchi delle altre preparazioni, e tenga con lo animo e ordini suoi animato lo universale, mai si troverrà ingannato da lui, e li parrà avere fatti li suoi fondamenti buoni. Sogliono questi principati periclitare quando sono per salire dallo ordine civile allo assoluto. [16] Perché questi principi, o comandano per loro medesimi, o per mezzo de’ magistrati; nell’ultimo caso, è più debole e più periculoso lo stare loro, perché gli stanno al tutto con la voluntà di quelli cittadini che sono preposti a’ magistrati: li quali, massime ne’ tempi avversi, li possono tôrre con facilità grande lo stato, o con farli contro o con non lo obedire. [17] E el principe non è a tempo, ne’ periculi, a pigliare la autorità assoluta, perché li cittadini e sudditi, che sogliono avere e’ comandamenti da’ magistrati, non sono, in quelli frangenti, per obedire a’ suoi; e arà sempre, ne’ tempi dubii, penuria di chi lui si possa fidare. Perché simile principe non può fondarsi sopra quello che vede ne’ tempi quieti, quando e’ cittadini hanno bisogno dello stato; perché allora ognuno corre, ognuno promette, e ciascuno vuole morire per lui, quando la morte è discosto; ma ne’ tempi avversi, quando lo istato ha bisogno de’ cittadini, allora se ne trova pochi. E tanto più è questa esperienzia periculosa, quanto la non si può fare se non una volta. E però uno principe savio debba pensare uno modo per il quale li sua cittadini, sempre e in ogni qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui; e sempre poi li saranno fedeli. |
[1] Sul principato civile. [2] Si trovano queste due opposte tendenze. [3] Monarchia, regime popolare o anarchia. [4] Cominciano a dare il loro favore a uno di loro. [5] Che si sentono uguali a lui. [6] Che non siano preparati. [7] Inoltre. [8] Anche. [9] Perché, essendo in quelli maggior lungimiranza e astuzia, trovano sempre il modo di salvarsi e stringono alleanze con colui che sperano che prevalga. [10] L'autore si rivolge direttamente al principe. [11] Soprattutto di quelli che ti danno buoni consigli. [12] Il che gli sarà facile. [13] Tiranno di Sparta dal 205 al 192 a.C. [14] L'assedio. [15] Il capo della plebe durante il tumulto dei Ciompi a Firenze, nel 1378. [16] Questi principati iniziano a vacillare quando passano dall'ordinamento popolare a quello assoluto. [17] O contrastandolo o non obbedendogli. |
Interpretazione complessiva
- Il capitolo forma una specie di "dittico" con quello precedente, che trattava di coloro che ascendono al principato attraverso la violenza ed esercitano poi la tirannide, mentre in questo Machiavelli discute il caso opposto, cioè del principato nato grazie all'appoggio e al favore popolare: è interessante il fatto che l'autore individui quale radice di tale formazione politica il conflitto sociale esistente in ogni città, a suo dire, tra aristocrazia e "popolo", dove per "popolo" egli intende la piccola nobiltà e l'alta borghesia mercantile in rapida ascesa nel corso del XIV-XV sec. e reclamante diritti di rappresentanza contro i privilegi nobiliari, specie nel caso di Firenze che lo scrittore ben conosceva. Secondo Machiavelli il principato nasce appunto come compromesso tra i due opposti "umori" che determinano il conflitto, cioè il desiderio dei "grandi" di dominare e quello del "populo" che non vuol essere dominato, e secondo lui uno Stato che nasce su queste basi è più solido e destinato durare maggiormente rispetto a quello retto da un sovrano assoluto, a patto naturalmente che chi sta al potere cerchi di ottenere il favore del popolo e badi a non farselo nemico. Un ragionamento simile si trova anche nei Discorsi (I.2-4), relativamente al conflitto sociale tra patrizi e plebei nell'antica Roma che fu, secondo l'autore, all'origine del rafforzamento della Repubblica e che portò anche in quel caso a una soluzione di compromesso tra le due opposte fazioni in dissenso, mentre anche nell'altro trattato si trova la distinzione tra monarchia, aristocrazia e regime popolare che qui è accennata in modo marginale, col dire che dal conflitto nobili-popolo "nasce nelle città uno de’ tre effetti, o principato o libertà o licenzia" (► TESTO: L'evoluzione degli Stati). È appena il caso di ricordare come Machiavelli sia ancora lontanissimo dalla moderna concezione di Stato quale espressione della "sovranità popolare" attraverso il contratto sociale, idea che verrà elaborata solo molto più tardi dagli intellettuali illuministi.
- Il conflitto tra "grandi" e "populo" delineato in questa pagina trae spunto dalla situazione storica della Firenze del XIV-XV sec., in cui il "popolo" (inteso come l'insieme dei ceti mercantili e delle forze produttive borghesi della città, con esclusione dei salariati più poveri) è protagonista di una ascesa sociale e reclama più diritti contro i privilegi della vecchia aristocrazia feudale, determinando la "crisi" che per Machiavelli aveva causato il rovesciamento dei Medici dopo la discesa in Italia di Carlo VIII nel 1494. Il ritorno dei Medici nel 1512 non deve, secondo lui, riproporre la situazione precedente ma, al contrario, i signori di Firenze devono cercare il favore del popolo, ossia dei ceti mercantili cui vanno garantiti diritti essenziali a tutto svantaggio dei "grandi" della città, perché solo in questo modo la signoria medicea ha speranze di consolidare il proprio potere e di durare nel tempo (mai come in questo caso è trasparente la volontà dell'autore di rivolgersi ai Medici per dare loro consigli su come governare concretamente la città). Il capitolo vuol essere una ferma condanna della tirannide e della monarchia assoluta, e anche un'esortazione ai Medici a non fidarsi troppo dei nobili fiorentini che affollano la loro corte, poiché da essi possono venire le insidie più pericolose al loro potere (come nel caso, recentissimo, della fallita congiura di P. P. Boscoli), mentre molto più saggio è cercare il favore del popolo, che secondo l'autore è più ingenuo e pertanto assai più facile da manovrare, il che dimostra anche la visione elitaria e sostanzialmente non democratica di Machiavelli.
- Machiavelli cita a sostegno delle sue argomentazioni l'esempio antico di Nabide, il tiranno di Sparta che tra III-II sec. a.C. fu fautore di una politica di redistribuzione delle terre e fronteggiò l'attacco nel 195 a.C. della Lega Achea e dei Romani, perdendo il dominio sulle città sottomesse ma non su Sparta che gli rimase fedele: secondo l'autore egli fu la dimostrazione di come un leader che fonda il suo potere sul favore popolare ha basi solide e non perde il sostegno dei concittadini nel momento del bisogno, ma a patto di portare avanti una politica concreta e di non "sbigottire" nelle difficoltà, a differenza di quanto avvenne ai Gracchi (i due tribuni della plebe del II sec. a.C. fautori anch'essi di riforme filo-popolari, ma finiti male perché persero entrambi il consenso della plebe) e a Giorgio Scali, il capo popolare del tumulto dei Ciompi a Firenze nel 1378 e ucciso nel 1382. Gli esempi proposti sono un po' semplicistici e la vera discriminante sembra essere riposta non già in concreti atti politici volti a garantirsi il sostegno popolare, ma alla capacità personale del condottiero di essere l'anima della sua cittadinanza, senza tuttavia che venga spiegato in che modo ottenere tale fine (nel caso dei Gracchi, inoltre, essi furono uccisi perché il senato di Roma fu abile a screditare la loro immagine con una campagna diffamatoria, aspetto che sembra sfuggire alla trattazione di Machiavelli).