Luigi Pulci
Incontro con Margutte
(Morgante, XVIII, 112-142)
Mentre sta facendo ritorno in Levante, Morgante incontra in modo fortuito Margutte, un bizzarro "mezzogigante" che si presenta come peccatore incallito e sciorina un improbabile "credo" culinario, in cui afferma di riporre la sua fede unicamente nel gioco d'azzardo e nel vino. Il passo, giustamente celebre in quanto tratteggia un personaggio deforme e paradossale, contiene vari elementi sacrileghi e blasfemi che hanno contribuito ad attirare sull'autore accuse di empietà, tali da farlo morire in odore di eresia e di negargli una sepoltura cristiana. In seguito Morgante e Margutte diverranno amici e compiranno assieme varie imprese, di segno beffardo (come gli scherzi ai danni di un povero oste) o di carattere nobile (come quando libereranno la giovane Florinetta).
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Luigi Pulci
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Luigi Pulci
112
Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio, uscito d’una valle in un gran bosco, vide venir di lungi, per ispicchio, un uom che in volto parea tutto fosco. Dètte del capo del battaglio un picchio in terra, e disse: «Costui non conosco»; e posesi a sedere in su ’n un sasso, tanto che questo capitòe al passo. 113 Morgante guata le sue membra tutte più e più volte dal capo alle piante, che gli pareano strane, orride e brutte: - Dimmi il tuo nome, - dicea - vïandante. - Colui rispose: - Il mio nome è Margutte; ed ebbi voglia anco io d’esser gigante, poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto: vedi che sette braccia sono appunto. - 114 Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto: ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato, che da due giorni in qua non ho beuto; e se con meco sarai accompagnato, io ti farò a camin quel che è dovuto. Dimmi più oltre: io non t’ho domandato se se’ cristiano o se se’ saracino, o se tu credi in Cristo o in Apollino. - 115 Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto, io non credo più al nero ch’a l’azzurro, ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto; e credo alcuna volta anco nel burro, nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto, e molto più nell’aspro che il mangurro; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli crede; 116 e credo nella torta e nel tortello: l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; e ’l vero paternostro è il fegatello, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello. E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo, se Macometto il mosto vieta e biasima, credo che sia il sogno o la fantasima; 117 ed Apollin debbe essere il farnetico, e Trivigante forse la tregenda. La fede è fatta come fa il solletico: per discrezion mi credo che tu intenda. Or tu potresti dir ch’io fussi eretico: acciò che invan parola non ci spenda, vedrai che la mia schiatta non traligna e ch’io non son terren da porvi vigna. 118 Questa fede è come l’uom se l’arreca. Vuoi tu veder che fede sia la mia?, che nato son d’una monaca greca e d’un papasso in Bursia, là in Turchia. E nel principio sonar la ribeca mi dilettai, perch’avea fantasia cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille, non una volta già, ma mille e mille. 119 Poi che m’increbbe il sonar la chitarra, io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso. Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra, e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso, mi posi allato questa scimitarra e cominciai pel mondo andare a spasso; e per compagni ne menai con meco tutti i peccati o di turco o di greco; 120 anzi quanti ne son giù nello inferno: io n’ho settanta e sette de’ mortali, che non mi lascian mai lo state o ’l verno; pensa quanti io n’ho poi de’ venïali! Non credo, se durassi il mondo etterno, si potessi commetter tanti mali quanti ho commessi io solo alla mia vita; ed ho per alfabeto ogni partita. 121 Non ti rincresca l’ascoltarmi un poco: tu udirai per ordine la trama. Mentre ch’io ho danar, s’io sono a giuoco, rispondo come amico a chiunque chiama; e giuoco d’ogni tempo e in ogni loco, tanto che al tutto e la roba e la fama io m’ho giucato, e’ pel già della barba: guarda se questo pel primo ti garba. 122 Non domandar quel ch’io so far d’un dado, o fiamma o traversin, testa o gattuccia, e lo spuntone, e va’ per parentado, ché tutti siàn d’un pelo e d’una buccia. E forse al camuffar ne incaco o bado o non so far la berta o la bertuccia, o in furba o in calca o in bestrica mi lodo? Io so di questo ogni malizia e frodo. 123 La gola ne vien poi drieto a questa arte. Qui si conviene aver gran discrezione, saper tutti i segreti, a quante carte, del fagian, della stama e del cappone, di tutte le vivande a parte a parte dove si truovi morvido il boccone; e non ti fallirei di ciò parola, come tener si debba unta la gola. 124 S’io ti dicessi in che modo io pillotto, o tu vedessi com’io fo col braccio, tu mi diresti certo ch’io sia ghiotto; o quante parte aver vuole un migliaccio, che non vuole essere arso, ma ben cotto, non molto caldo e non anco di ghiaccio, anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso (pàrti ch’i’ ’l sappi?), e non troppo alto o basso. 125 Del fegatello non ti dico niente: vuol cinque parte, fa’ ch’a la man tenga: vuole esser tondo, nota sanamente, acciò che ’l fuoco equal per tutto venga, e perché non ne caggia, tieni a mente, la gocciola che morvido il mantenga: dunque in due parte dividiàn la prima, ché l’una e l’altra si vuol farne stima. 126 Piccolo sia, questo è proverbio antico, e fa’ che non sia povero di panni, però che questo importa ch’io ti dico; non molto cotto, guarda non t’inganni! ché così verdemezzo, come un fico par che si strugga quando tu l’assanni; fa’ che sia caldo; e puoi sonar le nacchere, poi spezie e melarance e l’altre zacchere. 127 Io ti darei qui cento colpi netti; ma le cose sottil, vo’ che tu creda, consiston nelle torte e ne’ tocchetti: e’ ti fare’ paura una lampreda, in quanti modi si fanno i guazzetti; e pur chi l’ode poi convien che ceda: perché la gola ha settantadue punti, sanza molti altri poi ch’io ve n’ho aggiunti. 128 Un che ne manchi, è guasta la cucina: non vi potrebbe il Ciel poi rimediare. Quanti segreti insino a domattina ti potrei di questa arte rivelare! Io fui ostiere alcun tempo in Egina, e volli queste cose disputare. Or lasciàn questo, e d’udir non t’incresca un’altra mia virtù cardinalesca. 129 Ciò ch’io ti dico non va insino all’effe: pensa quand’io sarò condotto al rue! Sappi ch’io aro, e non dico da beffe, col cammello e coll’asino e col bue; e mille capannucci e mille gueffe ho meritato già per questo o piùe; dove il capo non va, metto la coda, e quel che più mi piace è ch’ognun l’oda. 130 Mettimi in ballo, mettimi in convito, ch’io fo il dover co’ piedi e colle mani; io son prosuntüoso, impronto, ardito, non guardo più i parenti che gli strani: della vergogna, io n’ho preso partito, e torno, chi mi caccia, come i cani; e dico ciò ch’io fo per ognun sette, e poi v’aggiungo mille novellette. 131 S’io ho tenute dell’oche in pastura non domandar, ch’io non te lo direi: s’io ti dicessi mille alla ventura, di poche credo ch’io ti fallirei; s’io uso a munister per isciagura, s’elle son cinque, io ne traggo fuor sei: ch’io le fo in modo diventar galante che non vi campa servigial né fante. 132 Or queste son tre virtù cardinale, la gola e ’l culo e ’l dado, ch’io t’ho detto; odi la quarta, ch’è la principale, acciò che ben si sgoccioli il barletto: non vi bisogna uncin né porre scale dove con mano aggiungo, ti prometto; e mitere da papi ho già portate, col segno in testa, e drieto le granate. 133 E trapani e paletti e lime sorde e succhi d’ogni fatta e grimaldelli e scale o vuoi di legno o vuoi di corde, e levane e calcetti di feltrelli che fanno, quand’io vo, ch’ognuno assorde, lavoro di mia man puliti e belli; e fuoco che per sé lume non rende, ma con lo sputo a mia posta s’accende. 134 S’ tu mi vedessi in una chiesa solo, io son più vago di spogliar gli altari che ’l messo di contado del paiuolo; poi corro alla cassetta de’ danari; ma sempre in sagrestia fo il primo volo, e se v’è croce o calici, io gli ho cari, e’ crucifissi scuopro tutti quanti, poi vo spogliando le Nunziate e’ santi. 135 Io ho scopato già forse un pollaio; s’ tu mi vedessi stendere un bucato, diresti che non è donna o massaio che l’abbi così presto rassettato: s’io dovessi spiccar, Morgante, il maio, io rubo sempre dove io sono usato; ch’io non istò a guardar più tuo che mio, perch’ogni cosa al principio è di Dio. 136 Ma innanzi ch’io rubassi di nascoso, io fui prima alle strade malandrino: arei spogliato un santo il più famoso, se santi son nel Ciel, per un quattrino; ma per istarmi in pace e in più riposo, non volli poi più essere assassino; non che la voglia non vi fussi pronta, ma perché il furto spesso vi si sconta. 137 Le virtù teologiche ci resta. S’io so falsare un libro, Iddio tel dica: d’uno iccase farotti un fio, ch’a sesta non si farebbe più bello a fatica; e traggone ogni carta, e poi con questa raccordo l’alfabeto e la rubrica, e scambiere’ti, e non vedresti come, il titol, la coverta e ’l segno e ’l nome. 138 I sacramenti falsi e gli spergiuri mi sdrucciolan giù proprio per la bocca come i fichi sampier, que’ ben maturi, o le lasagne, o qualche cosa sciocca; né vo’ che tu credessi ch’io mi curi contro a questo o colui: zara a chi tocca! ed ho commesso già scompiglio e scandolo, che mai non s’è poi ravvïato il bandolo. 139 Sempre le brighe compero a contanti. Bestemmiator, non vi fo ignun divario di bestemmiar più uomini che santi, e tutti appunto gli ho in sul calendario. Delle bugie nessun non se ne vanti, ché ciò ch’io dico fia sempre il contrario. Vorrei veder più fuoco ch’acqua o terra, e ’l mondo e ’l cielo in peste e ’n fame e ’n guerra. 140 E carità, limosina o digiuno, orazïon non creder ch’io ne faccia. Per non parer provàno, chieggo a ognuno, e sempre dico cosa che dispiaccia; superbo, invidïoso ed importuno: questo si scrisse nella prima faccia; ché i peccati mortal meco eran tutti e gli altri vizi scelerati e brutti. 141 Tanto è ch’io posso andar per tutto ’l mondo col cappello in su gli occhi, com’io voglio; com’una schianceria son netto e mondo; dovunque i’ vo, lasciarvi il segno soglio come fa la lumaca, e nol nascondo; e muto fede e legge, amici e scoglio di terra in terra, com’io veggo o truovo, però ch’io fu’ cattivo insin nell’uovo. 142 Io t’ho lasciato indrieto un gran capitolo di mille altri peccati in guazzabuglio; ché s’i’ volessi leggerti ogni titolo, e’ ti parrebbe troppo gran mescuglio; e cominciando a sciòrre ora il gomitolo, ci sarebbe faccenda insino a luglio; salvo che questo alla fine udirai: che tradimento ignun non feci mai. - |
Un giorno Morgante, giunto ad un incrocio dopo essere uscito da una valle in un gran bosco, vide venire da lontano con la coda dell'occhio un uomo, che sembrava avere il volto tutto nero. Diede un colpo con la punta del batacchio a terra, e disse: «Non conosco costui»; e si mise a sedere su una pietra, finché quell'altro non arrivò da lui. Morgante guarda tutte le sue fattezze più volte, dalla testa ai piedi, e gli sembravano deformi, orrende e brutte: - Dimmi il tuo nome, viandante - diceva. Quello rispose: - Il mio nome è Margutte e volli anch'io diventare un gigante, poi mi pentii a metà della trasformazione: vedi che, appunto, sono alto sette braccia [circa quattro metri]. Morgante disse: - Tu sia benvenuto: ecco che avrò al mio fianco un fiaschetto, visto che non bevo da due giorni; e se verrai insieme a me, durante il viaggio ti tratterò come meriti. Dimmi ancora: non ti ho chiesto se sei cristiano o saraceno, se credi in Cristo o in Apollo -. Allora Margutte rispose: - Per farla breve, io non credo all'azzurro più che al nero, ma credo nel cappone, lesso o arrosto; e qualche volta credo anche nel burro, nella birra e, quando ne ho, nel succo d'uva, e molto più nell'aspro che nel mangurro [due monete turche]; ma soprattutto ho fede nel vino, e credo che chi crede in esso sia salvo; e credo nella torta e nel tortello: uno è la madre e l'altro è suo figlio; e il vero padrenostro è il fegatello, e possono essere tre, due e uno solo, e almeno quello deriva dal fegato. E poiché io vorrei bere con un recipiente per il ghiaccio [assai capiente], se Maometto vieta e condanna il vino, credo che sia un sogno o un fantasma; e Apollo dev'essere un delirio, e Trivigante è forse una tregenda. La fede è come il solletico [c'è chi la sente e chi no]: se sei saggio, credo tu possa capirmi. Ora potresti dire che io sia un eretico: per non sprecare parole, vedrai che la mia stirpe non tradisce le sue origini e io non sono un terreno buono per piantarvi una vigna. Questa fede è fatta come l'uomo vuole. Vuoi sapere quale sia la mia fede? Io sono nato da una monaca greca e da un sacerdote islamico a Bursia, in Turchia. E all'inizio mi piaceva suonare la ribeca [strumento a corde], perché volevo cantare di Troia, Ettore e Achille, non solo una volta ma mille. Poi quando mi stancai di suonare la chitarra, iniziai a portare l'arco e la faretra. Uno giorno, poi, quando feci una rissa in moschea e vi uccisi il mio vecchio padre, mi misi al fianco questa scimitarra e cominciai ad andare a zonzo per il mondo; e come compagni portai con me tutti i peccati turchi e greci; anzi, tutti quelli che sono contenuti all'inferno: io ne ho settantasette dei mortali, che non mi lasciano mai né d'estate né d'inverno; pensa quanti peccati veniali possiedo! Non credo, se anche il mondo durasse in eterno, che si possano compiere tanti mali quanti quelli che ho commesso in vita mia; e me li ricordo in ordine alfabetico. Non ti dispiaccia ascoltarmi un momento: tu sentirai tutto il racconto in ordine. Se ho denari e sto giocando, rispondo in modo amichevole a chiunque mi chiami; e gioco ovunque e in ogni momento, tanto che spesso mi sono giocato tutti i miei averi e la mia fama, e anche i peli della barba: guarda se questa cosa per prima ti piace. Non chiedermi cosa so fare con un dado, fiamma o traversino, testa o gattuccia [termini gergali del gioco d'azzardo] e lo spuntone, va di conserva, poiché siamo tutti della stessa pasta. Forse che me ne infischio o ho degli scrupoli a truffare, o non so imbrogliare, o mi vanto senza merito per le mie doti tra i furbi, nelle calche o in una truffa? Io conosco ogni malizia e frode in questo. La gola segue poi questa arte. Qui bisogna essere molto esperti, conoscere tutti i segreti, sapere a quale pagina [di una ricetta] si trovi il boccone prelibato del fagiano, della starna, del cappone e di tutte le vivande in ogni loro parte; e in questo non sbaglierei una parola, su come si debba ungere la gola. Se ti dicessi in che modo ungo l'arrosto, o se vedessi come lo faccio girare col braccio, diresti certo che sono un ghiottone; così se ti dicessi quante parti deve avere un sanguinaccio, che non deve essere bruciato ma ben cotto, non troppo caldo e neppure freddo, anzi a una temperatura intermedia, ed unto ma non grasso (ti pare che io lo sappia?) e non alto o basso. Del fegatello ti dico poco [rispetto a quando dovrei]: richiede cinque accorgimenti, cerca di tenerli a mente: deve essere tondo, nota attentamente, perché il fuoco lo cuocia in modo uniforme, e perché non cada la goccia che lo tiene morbido, tienilo a mente: dunque dividiamo la prima regola in due, poiché bisogna tenere conto di entrambe. Deve essere piccolo, questo è un antico detto, e fa' in modo che sia ricco di budella, visto che questo che ti sto dicendo è essenziale; non dev'essere troppo cotto, non ti sbagliare! infatti così cotto al sangue, sembra che si sciolga come un fico quando lo addenti; fa' che sia caldo; e puoi suonare le nacchere [spargere il sale con le dita], poi mettere spezie, scorze d'arancia e altri sapori. Io saprei dirti cento precetti utilissimi; ma le cose in cui si mostra la bravura di un cuoco sono le torte e i bocconcini di pesce, devi credermi; ti farebbe paura sapere in quanti modi si può cucinare una lampreda in guazzetto; chi mi ascolta deve darmi ragione: perché la gola deve essere soddisfatta in moltissimi particolari, senza contare i molti altri che io ho aggiunto. Se ne manca uno, la cucina è guasta: neppure il Cielo potrebbe rimediare. Quanti segreti potrei rivelarti di quest'arte, parlando fino a domattina! Io fui oste per qualche tempo nell'isola di Egina, e volli discutere di questi argomenti. Ora tralasciamo questo e non ti dispiaccia ascoltare di un'altra mia virtù cardinale. Ciò che ti ho detto non arriva alla "f" [non è nemmeno la metà]: pensa quando le avrò elencate tutte! Sappi che io, e non lo dico per scherzo, aro col cammello, con l'asino e col bue [compio peccati secondo e contro natura]; e per questo ho già meritato mille volte il fuoco e la prigione, o peggio ancora; dove non arrivo con la testa metto la coda, e soprattutto mi piace che tutti lo sappiano. Mettimi in un ballo, mettimi in un banchetto, io faccio quello che devo coi piedi e le mani; io son presuntuoso, insistente e coraggioso, non ho riguardi per i parenti più che gli estranei; mi sono adattato alla vergogna e se uno mi caccia, me ne vado come i cani; e racconto sempre molto più di quello che è vero, aggiungendo poi mille altre favole. Non domandarmi se ho tenuto delle oche al pascolo [se ho sfruttato delle donne], perché tanto non te lo direi: se io ti dicessi "mille", così a caso, non sbaglierei di molto; se per sfortuna frequento un monastero, se ci son cinque monache ne tiro fuori sei: infatti le faccio diventare inclini all'amore, tanto che non sfuggirebbe né una serva né una conversa. Ora queste sono tre virtù cardinali che ti ho detto, la gola, il culo e il dado; ascolta la quarta, che è la più importante, affinché il bariletto sia ben sgocciolato [per rivelare ogni segreto]: dove arrivo con la mano non serve porre uncini né scale, te l'assicuro; e ho già indossato le mitre dei papi [poste in testa ai condannati], col segno in capo, e dietro le scope [altro segno dei condannati]. E costruisco con le mie mani, belli e rifiniti, trapani, piedi di porco, lime che non fan rumore, succhielli di ogni tipo e grimaldelli, e scale, sia di legno sia di corda, e leve [per sconficcare] e calzature di feltro che fanno sì, quando cammino, che nessuno senta; e produco un fuoco che per sé non fa luce, ma con uno sputo lo posso accendere a mio piacimento. Se tu mi vedessi da solo in una chiesa, [vedresti che] son più desideroso di spogliare gli altari di quanto l'ufficiale del podestà non lo sia di pignorare il paiolo; poi corro alla cassetta delle elemosine; ma vado sempre per prima cosa in sagrestia, e se vi sono croci o calici li ho cari, e scopro tutti i crocifissi, poi spoglio le immagini della Vergine e i santi. Io ho già ripulito ben più di un pollaio: se tu mi vedessi ripiegare un bucato [dopo averlo rubato], diresti che nessuna donna o fattore lo rassetterebbe più in fretta; se anche dovessi rubare cose di nessun valore, io lo faccio sempre nei posti conosciuti; infatti non bado al tuo o al mio, perché ogni cosa in linea di principio è di Dio. Ma prima di rubare di nascosto, io fu brigante in strada: per un quattrino avrei spogliato il santo più famoso, se ce ne sono in Cielo; ma per stare in pace e a riposo non volli più fare l'assassino; non che non avessi il desiderio, ma il furto spesso lo si deve scontare [si viene scoperti]. Ci restano da vedere le virtù teologali. Se io so falsificare un libro, te lo dica Dio: di una "ics" ti farò una "phi" che nemmeno col compasso si farebbe uguale, e con gran fatica; e tolgo da un libro qualsiasi pagina, e poi modifico l'indice alfabetico e i titoli, e ti saprei alterare, e tu non vedresti come, il titolo, la copertina, il segno e il nome. I sacramenti falsi e gli spergiuri mi scivolano giù nella bocca come i fichi sampieri [che maturano a S. Pietro], o le lasagne o qualche altra sciocchezza; e non credere che io abbia riguardo a questo o a quello, guai a chi tocca; e ho giù suscitato scompiglio e scandalo, a tal punto che nessuno ha ritrovato il bandolo della matassa. Vado sempre a cercare i guai. Bestemmiatore come sono, non faccio distinzioni nel bestemmiare contro gli uomini più che i santi, e li ho tutti sul calendario. Nessuno si vanti di dir bugie più di me, poiché ciò che dico è sempre il contrario del vero. Vorrei vedere più il fuoco che l'acqua o la terra [amo le discordie] e vorrei vedere il mondo e il cielo afflitti da peste, fame, guerra. E non credere che io osservi la carità, le elemosine, il digiuno, le preghiere. Per non sembrare caparbio, chiedo a ognuno e dico sempre cose spiacevoli; che io sia superbo, invidioso e inopportuno è scritto nella prima pagina del libro [della mia vita]; infatti alla mia nascita erano con me tutti i peccati mortali e gli altri vizi scellerati e infami. Cosicché io posso andare per il mondo dove voglio, senza vergogna; sono pulito e netto come un asse da cucina; dovunque vado sono solito lasciare un segno, come fa la lumaca, e non lo nascondo; e cambio fede e legge, amici e pelle, di terra in terra, a seconda delle circostanze, poiché sono stato cattivo ancora prima di nascere. Io ho tralasciato di raccontare un gran capitolo di altri peccati alla rinfusa, poiché se volessi leggerti ogni titolo ti sembrerebbe un resoconto troppo confuso; e se cominciassi a narrare ora, non finiremmo prima di luglio; ma alla fine sentiresti questo, che non ho mai tradito nessuno -. |
Interpretazione complessiva
- Il passo descrive il primo incontro tra Morgante e Margutte, un bizzarro "mezzogigante" che diventerà suo amico e compare in più di una impresa nei cantari seguenti: Margutte (il nome era quello dato ai fantocci di legno usati nelle giostre) si presenta come un personaggio empio e malvagio, che si vanta dei peccati commessi sciorinando uno scombinato "credo" (fatto soprattutto di termini culinari) e che incarna in un certo senso la "dismisura" largamente presente nel poema, a cominciare dal fatto di essere un gigante a metà. Margutte infatti ha interrotto il processo di "crescita" fermandosi all'altezza di quattro metri, circa la metà di quella che si riteneva la statura "normale" dei giganti, figure assai presenti nella letteratura medievale e alla cui esistenza si credeva storicamente (in passato erano state ritrovate ossa di animali preistorici, attribuite erroneamente a questi esseri mostruosi). Margutte rappresenta il "complemento" di Morgante, poiché non è affatto un gigante buono e non crede in alcuna religione, al contrario dello scudiero di Orlando convertito al Cristianesimo.
- Margutte si presenta come peccatore incallito e descrive se stesso come un personaggio paradossale, abnorme nella sua malvagità: anzitutto è scuro in volto, in modo conforme alla rappresentazione popolare dei giganti (affine a quella dei demoni), poi lui stesso ci dice di essere nato da un "papasso" turco, una specie di ministro di culto islamico, e da una monaca greco-ortodossa, quindi figlio di un'unione sacrilega che accosta due popoli tradizionalmente ostili al Cristianesimo (i greci erano malvisti in Occidente e accusati di essere individui fraudolenti). Il "mezzogigante" ha ereditato i peggiori peccati di entrambi i gruppi etnici, infatti dice di aver ucciso il padre e di essere partito alla ventura per il mondo in cerca di guai, portando con sé una scimitarra che è un'arma tipica degli Ottomani; alla domanda di Morgante se sia cristiano o islamico dichiara di non credere in alcuna religione e aggiunge alcuni commenti ironici sulla fede musulmana, affermando di amare il vino (i precetti coranici vietano il consumo di alcool) e di considerare per questo Maometto una specie di fantasma, citando anche Apollo e Trivigante. Le conoscenze sull'Islam in Occidente nei secc. XV-XVI erano assai labili e si pensava erroneamente che esso fosse un culto pagano, dedito alla venerazione di idoli tra cui Apollo e Tervagante o Trivigante, divinità di cui si parla anche nelle chansons de geste. Margutte ha parole blasfeme e sacrileghe anche verso il Cristianesimo, di cui irride la Trinità paragonandola a delle pietanze (la torta, il tortello e il fegatello, poiché quest'ultimo veniva cucinato avvolto da una foglia di alloro interposta nei vari strati), mentre più avanti dissuade Morgante dal tentare di convertirlo dichiarandosi un terreno inadatto a "porvi vigna", parodiando la parabola evangelica dei vignaioli (Matth., 20.1-16).
- I peccati elencati da Margutte si possono raggruppare nelle tre attività del gioco d'azzardo, della gola e del sesso, in modo simile alla poesia comica del Due-Trecento (► TESTO: Tre cose solamente) cui Pulci si ispira e con una notevole dose di ironia: afferma di essere un giocatore incallito di dadi e di avere spesso perduto ogni suo avere, mostrando poi una profonda conoscenza dei termini gergali del gioco e dicendosi pronto a barare; confessa di essere un ghiottone e vanta una maestria non da poco nell'arte culinaria, spiegando come va cucinato il "migliaccio" (una specie di sanguinaccio di maiale) e il fegatello, così come la lampreda in guazzetto; infine ammette di essere stato uno sfruttatore di donne e di aver sedotto addirittura delle monache, definendo questi peccati come tre virtù cardinali, "la gola e 'l culo e 'l dado", cui aggiungerà una quarta e cioè l'abilità come ladro. La metafora sacrilega prosegue quando Margutte si vanta anche di avere le virtù teologali, ovvero di essere un falsario, un mentitore, uno spergiuro, un bestemmiatore, di non osservare alcun sacramento liturgico. L'enormità dei peccati del personaggio è volutamente paradossale e ricorda quella di Ciappelletto nel Decameron, con la differenza che il protagonista della novella di Boccaccio rendeva una falsa confessione per ottenere l'assoluzione dal santo frate (► TESTO: Ser Ciappelletto).
- Il testo presenta un linguaggio composito, ricco di termini gergali e popolari dovuti allo sperimentalismo dell'autore: Margutte usa tecnicismi propri del gioco dei dadi (122.2-3: "o fiamma o traversin, testa o gattuccia, / e lo spuntone", il cui senso non ci è del tutto chiaro), parole del gergo dei ladri (122.5-7: "ne incaco o bado", "far la berta o la bertuccia", "in bestrica"), vocaboli attinenti alla cucina (124.1, "io pillotto", ungo l'arrosto sullo spiedo; 126.5, "verdemezzo", cotto al sangue; 126.7, "sonar le nacchere", spargere il sale con le dita come suonando lo strumento musicale). Le voci proverbiali e popolaresche non si contano, a cominciare da 129.1, "Ciò ch’io ti dico non va insino all’effe" (ti dico poco rispetto a quando dovrei); 129.3-4, "io aro... / col cammello e coll’asino e col bue" (compio peccati secondo e contro natura); 131.1, tenere "dell’oche in pastura" (sfruttare la prostituzione); 138.6, "zara a chi tocca" (guai a chi tocca, dall'arabo "zahr", dado, gioco d'azzardo); 141.2, andare "col cappello in su gli occhi" (senza la minima vergogna).
- Morgante e Margutte formeranno da qui in avanti un bizzarro sodalizio, compiendo alcune imprese eroicomiche tra cui la gara di beffe a un povero oste, vittima degli scherzi dei due (► TESTO: Morgante e Margutte all'osteria), finché lo stesso Margutte morirà a causa dello scherzo del compare, che ruberà i suoi stivali facendoglieli trovare indosso a una scimmia (il "mezzogigante" morirà per le convulsioni a causa del riso irrefrenabile, ► TESTO: Morte di Margutte). Alla fine del poema Margutte comparirà all'inferno come araldo di Belzebù, quindi con un destino conforme alla sua tremenda vita di peccatore.