Dante Alighieri
Dante ad Arrigo VII di Lussemburgo
(Epistole, VII)
È il passo finale della lettera (scritta probabilmente intorno al 1311) in cui Dante si rivolge all'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo durante la sua discesa in Italia e lo esorta a rompere gli indugi che sino a quel momento lo hanno trattenuto, stroncando finalmente la resistenza di Firenze, il Comune a capo della resistenza guelfa contro la sua autorità che viene paragonato da Dante a una "pestifera idra" dalle molte teste. L'Epistola, in cui Dante vibra di sdegno e si scaglia contro i suoi avversari con furore quasi biblico, nell'originale latino è un bell'esempio di retorica medievale e testimonia la grande speranza nutrita da Dante nel tentativo di Arrigo di ristabilire l'autorità imperiale sul nord Italia, tentativo poi andato fallito.
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Dante Alighieri
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Dante Alighieri
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Tu resti a Milano passandovi dopo l'inverno la primavera, e credi di uccidere l'idra pestifera [1] con l'amputarle le teste? Che se ricordassi le grandi imprese del glorioso Alcide, capiresti di sbagliare come lui, contro il quale la bestia pestifera, rinascendo le molte teste, per i colpi cresceva, finché quel magnanimo impetuosamente non attaccò la radice stessa della vita. Per estirpare alberi, infatti, non vale il taglio dei rami, che anzi di nuovo ramificano vigorosamente più numerosi, fin quando siano rimaste indenni le radici che forniscano nutrimento. Che cosa, o unico Signore del mondo, credi di aver compiuto quando avrai piegato il collo di Cremona ribelle? Forse che allora non si gonfierà inaspettata la rabbia o di Brescia o di Pavia? Anzi, quando questa rabbia anche flagellata sarà abbattuta, subito l'altra di Vercelli o di Bergamo o altrove scoppierà di nuovo, finché non si elimini alla radice la causa di questo tumore purulento e, strappata la radice di così grave errore, i rami pungenti insieme col tronco inaridiscano. [2] O forse ignori, eccellentissimo fra i principi, e non scorgi dalla specola [3] della somma altezza dove si rintani la piccola volpe di codesto fetore, noncurante dei cacciatori? Certo la scellerata non si abbevera alle acque precipiti del Po, né al tuo Tevere, ma le sue fauci infettano ancora la corrente dell'Arno impetuoso, e si chiama Firenze, forse non sai?, questo crudele flagello. Questa è la vipera avventatasi contro le viscere della madre; questa è la pecora malata che infetta col suo contagio il gregge del suo pastore [4]; questa la scellerata ed empia Mirra che arde per gli amplessi del padre Cinira; questa è quella Amata furiosa che, rifiutate le nozze fatali, non ebbe paura di prendersi per genero colui che i fati vietavano, anzi lo eccitò furibonda alla guerra e infine, pagando il fio delle audacie malvagie, si impiccò. [5] Invero cerca di dilaniare la madre sua con viperina ferocia quando aguzza le corna della ribellione contro Roma, che la fece a immagine e somiglianza sua. Invero, evaporando l'umore corrotto esala fumi pestilenziali e i greggi vicini, ignari, ne sono contagiati, quando seducendoli con false blandizie e menzogne si associa i confinanti e associatili li dissenna. Invero arde per gli amplessi paterni quando con malvagia procacità tenta di far violenza al consenso nei tuoi riguardi del sommo pontefice, che padre è dei padri. Invero resiste al comandamento di Dio col venerare l'idolo della propria volontà, quando disprezzando il re legittimo non arrossisce la folle di patteggiare con un re non suo [6] diritti non suoi per aver facoltà di far male. Ma badi alla corda con cui si lega, la forsennata donna. Ché spesso, uno si consegna al reprobo senno per fare, così consegnato, le cose che non dovrebbe fare; e sebbene siano azioni ingiuste, giusti tuttavia i castighi sono riconosciuti. [7] Su dunque, rompi gli indugi, nuova prole di Iesse [8], trai la tua fede dagli occhi del Signore Dio degli eserciti, al cui cospetto tu operi e abbatti questo Golia con la fionda della tua saggezza e con il sasso della tua forza; poiché con la sua caduta la notte e l'ombra della paura coprirà il campo dei Filistei; fuggiranno i Filistei e sarà liberato Israele. Allora la nostra eredità, che, a noi tolta, incessantemente piangiamo, ci sarà restituita per intero; e come ora, memori della sacrosanta Gerusalemme, esuli gemiamo in Babilonia, così allora cittadini e respirando nella pace ricorderemo nella gioia le miserie della confusione. [Traduzione di E. Pistelli, Firenze 1960] |
[1] L'Idra di Lerna era un mostro dotato di molte teste, che invano Ercole (l'Alcide) tentò di uccidere tagliandole una ad una, finché non appiccò il fuoco all'unico collo. [2] Le città lombarde nominate da Dante si erano ribellate all'autorità di Arrigo, il quale è esortato dall'autore ad attaccare Firenze quale epicentro della ribellione. [3] Dalla vedetta, dalla rocca. [4] L'immagine è evangelica. [5] Mirra è l'eroina tragica che si era innamorata del padre Ciniro, mentre la regina Amata, moglie del re Latino, si era opposta alle nozze della figlia Lavinia con Enea (Eneide, VII). [6] Roberto d'Angiò, il re di Napoli con cui Firenze era alleata contro Arrigo. [7] Il paragone è ancora con Amata, che si impiccò dopo aver invano scatenato la guerra contro Enea. [8] David, figlio di Iesse e destinato a diventare re d'Israele. |
Interpretazione complessiva
- Nella lettera Dante si rivolge all'imperatore con deferenza ma anche con insolita fermezza, esortandolo a non indugiare a Milano nel tentativo di reprimere la ribellione di alcune città lombarde (Cremona, Brescia, Pavia...) ma a scendere subito in Toscana per espugnare Firenze, vero centro secondo il poeta della ribellione guelfa contro il sovrano e da lui paragonata a una "idra pestifera" dalle molte teste (la similitudine è col mostro mitologico sconfitto da Ercole, che impreziosisce il tono già elevato del testo). L'ira biblica di Dante si scaglia proprio contro la sua città, definita una "piccola volpe" che si abbevera all'Arno e una "pecora malata" che diffonde il contagio all'intero gregge, mentre più avanti è paragonata alle scellerate donne del mito classico Mirra e Amata, colpevole la prima di incesto, la seconda di essersi vanamente opposta al fato e alle nozze di Enea e Lavinia. Firenze è anche accostata a una vipera che tenta di mordere la propria madre (Roma, da cui essa secondo una leggenda era stata fondata) ed è ancora descritta come una novella Mirra che blandisce il proprio padre (il papa), eccitando lui e re Roberto d'Angiò contro Arrigo, definito invece novello David chiamato ad abbattere questo Golia che, ovviamente, è ancora la città di Firenze.
- Dante nutriva grandi speranze nel tentativo di "restaurazione imperiale" operato da Arrigo VII, anche se poi esso fallirà per la morte improvvisa del sovrano a Buonconvento nel 1313: la stima per lui rimarrà tuttavia intatta, al punto che in Par., XXX Beatrice mostrerà a Dante il seggio della "candida rosa" dell'Empireo già destinato ad Arrigo, sul quale è deposta una corona; la donna colpirà poi l'ambiguità di papa Clemente V, "che palese e coverto / non anderà con lui per un cammino" (allusione alla politica del pontefice che prima si fingerà alleato di Arrigo, poi gli volterà le spalle), predicendone la futura dannazione tra i simoniaci della III bolgia, come già detto da Niccolò III in Inf., XIX.