Letteratura italiana
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Dante Alighieri


Papato e Impero
(Monarchia, III, 16)

È il capitolo conclusivo dell'opera, in cui l'autore tira del fila del ragionamento svolto nel III libro e afferma con decisione l'indipendenza dell'imperatore rispetto al papa, in quanto entrambi derivano la loro autorità direttamente da Dio (è la teoria "dei due soli" che Dante contrappone polemicamente a quella "del sole e della luna" sostenuta dai fautori della teocrazia). La divisione dei poteri trae origine dai due diversi fini cui Impero e Papato sono preordinati da Dio, in quanto all'imperatore spetta condurre gli uomini alla felicità terrena attraverso l'applicazione della giustizia, al papa spetta il compito di garantire la felicità eterna attraverso la diffusione del messaggio evangelico.

► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Dante Alighieri






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L'ineffabile Provvidenza ha posto dunque innanzi al l'uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, che consiste nell'esplicazione della propria specifica facoltà, ed è simboleggiata nel paradiso terrestre, e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio, e costituisce il paradiso celeste; ad essa quella facoltà specifica dell'uomo non può elevarsi senza il soccorso della luce divina. A queste [due] beatitudini, come a [due] fini diversi, occorre giungere con mezzi diversi. Alla prima infatti perveniamo per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li mettiamo in pratica operando secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda invece perveniamo per mezzo degli insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologiche della fede, speranza e carità. Sebbene quel fine e quei mezzi [naturali] ci siano stati additati dalla ragione umana, quale si è manifestata a noi compiutamente attraverso i filosofi, e sebbene quel fine e quei mezzi [soprannaturali] ci siano stati indicati dallo Spirito Santo, che ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria attraverso i profeti, gli scrittori ispirati, Gesù Cristo, figlio di Dio a lui coeterno, ed i suoi discepoli, tuttavia la cupidigia umana indurrebbe a dimenticarli, se gli uomini, come cavalli spinti dalla loro bestialità a percorrere vie traverse, non fossero trattenuti sulla retta strada «con la briglia e con il freno» [1]. Per questo l'uomo ebbe bisogno di una duplice guida, in corrispondenza del duplice fine, cioè del Sommo Pontefice, per condurre il genere umano alla vita eterna mediante la dottrina rivelata, e dell'Imperatore, per dirigere il genere umano alla felicità terrena attraverso gli insegnamenti della filosofia. E siccome a questo porto [della felicità terrena] nessuno o pochi, ed anche questi con eccessiva difficoltà, potrebbero approdare, se il genere umano — sedati i flutti della cupidigia esposta ad ogni seduzione — non riposasse libero nella tranquillità della pace, il governatore del mondo, detto Principe Romano [2], deve tendere con tutte le sue forze a questo scopo, cioè a far sì che in questa aiuola umana si possa vivere nella libertà e nella pace. E siccome la disposizione di questo mondo è conseguenza della disposizione propria dei moti celesti, affinché le utili iniziative [imperiali] di libertà e di pace possano trovare applicazione adatta ai luoghi e ai tempi, è necessario che quel governatore del mondo sia stabilito da chi ha una visione complessiva ed immediata della disposizione globale dei cieli. Ora questi è soltanto Colui che ha preordinato tale disposizione come mezzo per poter subordinare provvidenzialmente tutte le cose ai suoi piani. Ma se è così, solo Dio elegge, egli solo conferma, non avendo altri superiori a sé. Dal che si può ricavare questa ulteriore conseguenza, che né gli elettori attuali, né quelli che, in qualunque modo, sono stati detti «elettori» si possono chiamare con tale titolo, ma piuttosto vanno considerati come «annunciatori della scelta provvidenziale di Dio» [3]. Onde avviene che talvolta coloro, cui è stata conferita questa carica di annunciatori, sono travagliati da discordie, dovute al fatto che tutti o alcuni di essi, ottenebrati dalla nebbia della cupidigia, non riescono ad individuare chiaramente l'elezione fatta da Dio. Così dunque risulta evidente che l'autorità del monarca temporale gli deriva, senza intermediario alcuno, dalla fonte stessa di ogni autorità, fonte che, pur essendo tutta raccolta nella roccaforte della sua semplicità, si espande in molteplici ruscelli per la sovrabbondanza della sua bontà [4].
Mi pare ormai di aver raggiunto la meta che mi ero proposto. Difatti è stata dimostrata la vera soluzione della questione se al buon ordinamento del mondo sia necessario l'ufficio del Monarca, dell'altra questione se il popolo romano si sia appropriato di diritto dell'Impero, ed infine dell'ultima questione se l'autorità del monarca dipenda immediatamente da Dio o da qualcun altro. La soluzione data all'ultima questione non va però intesa in senso così stretto, da escludere che il Principe romano non sottostia in qualcosa al romano Pontefice, poiché la felicità di questa vita mortale è ordinata, in qualche modo, alla felicità immortale.
Cesare pertanto usi verso Pietro di quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre, affinché, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa illuminare con maggior efficacia la terra, al cui governo è stato preposto solo da Colui che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali. [5]

[Traduzione di Pio Gaja, UTET, Torino 1996]














[1]
L'espressione latina in camo et freno
deriva dai Salmi (31,9) e allude al fatto che l'uomo, come un animale selvaggio, deve essere tenuto a freno con le leggi.


[2] Si tratta ovviamente dell'imperatore germanico.







[3] Gli elettori erano i principi tedeschi che sceglievano l'imperatore e che per Dante sono semplici esecutori della volontà divina.

[4] L'autorità dell'imperatore deriva direttamente da Dio.








[5]
L'imperatore deve usare verso il papa una sorta di deferenza dovuta alla sua carica.


Interpretazione complessiva

  • Dante afferma con forza l'indipendenza del potere dell'imperatore da quello del papa, poiché entrambi derivano la loro autorità direttamente da Dio (anche il "Principe Romano", i cui elettori tedeschi non sono altro che intermediari della volontà divina) e dunque devono agire separatamente in quanto diverso è il fine a cui devono tendere le loro azioni, ovvero la felicità terrena per il monarca (simboleggiata dal Paradiso Terrestre) e quella eterna per il pontefice (simboleggiata dal Paradiso Celeste). La separazione è netta anche fra la giurisdizione temporale, che deve mirare all'applicazione delle leggi e ad assicurare pace e giustizia tra gli uomini, e quella spirituale che deve badare esclusivamente alla diffusione e spiegazione delle verità rivelate attraverso i testi sacri, dunque con un drastico ridimensionamento delle pretese teocratiche di papi come Bonifacio VIII e soprattutto Clemente V, forse al potere quando il testo fu scritto.
  • L'autore riafferma lo stesso principio in altri passi della sua opera e in particolare in Purg., XVI, in cui Marco Lombardo spiega a Dante che gli uomini tendono per loro natura a rincorrere i beni terreni e perciò esistono le leggi, che tuttavia nessuno fa rispettare; la colpa è del papa, che pretende di governare il mondo quando invece Roma aveva un tempo "due soli" (papa e imperatore) che si occupavano di cose diverse, mentre nel XIV sec. la commistione dei poteri ha generato ovunque corruzione. Discorso simile anche in Purg., VI, in cui il poeta nella sua invettiva all'Italia accusa la gente di Chiesa di non lasciare che Cesare sieda sulla sella della bestia "indomita e selvaggia" che è ormai l'Italia, ma pretende di condurla a mano con la "predella" causando disordine e anarchia (la bestia avrebbe il "freno" costituito dalle leggi dell'imperatore Giustiniano, ma ad esso nessuno pone mano poiché la "sella è vuota", ovvero l'imperatore non governa a Roma e lascia le cose temporali ai papi corrotti).
  • L'ultima affermazione del capitolo è un'attenuazione di quanto detto in precedenza col riconoscere che l'imperatore debba usare una qualche deferenza formale verso il papa e ad alcuni studiosi è parsa eccessiva e in contrasto con quanto dichiarato altrove (ad es. nel Purgatorio), per cui si è addirittura ipotizzato che Dante l'abbia aggiunta in seguito per mitigare l'asprezza delle prime conclusioni. È più probabile invece che Dante intendesse semplicemente abbracciare una posizione conciliante, che riconosceva la superiorità morale del pontefice pur relegando la sua autorità all'ambito spirituale ed escludendola da quella del governo legislativo.


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