Letteratura italiana
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Dante Alighieri


L'invettiva all'Italia
(Purgatorio, VI, 76-151)

Giunti alle soglie della valletta dei principi negligenti, Dante e Virgilio incontrano l'anima del trovatore mantovano Sordello da Goito, il quale non appena apprende che anche il poeta latino è originario della sua stessa città lo abbraccia festosamente, senza neppure sapere chi è: tale gesto colpisce molto Dante, che prorompe in una violenta invettiva contro l'Italia del Trecento in cui, al contrario, i cittadini sono perennemente in guerra tra loro e spesso le lotte divampano anche all'interno dello stesso Comune. Il poeta attribuisce tale situazione di instabilità politica e di anarchia all'assenza di un potere centrale, che secondo lui doveva essere occupato dall'imperatore, e parte del suo discorso accusa proprio i membri della casata degli Asburgo, colpevoli di trascurare l'Italia per "cupidigia" dei loro possessi tedeschi, mentre il frazionamento del potere comunale non assicura il rispetto delle leggi (che pure ci sono) e ciò è la fonte prima delle ingiustizie di cui Dante stesso è vittima in seguito al suo esilio. Il canto, come il sesto di ogni cantica, è di argomento politico e riguarda l'Italia, anticipando la rassegna dei principi negligenti nella valletta che farà Sordello nel canto seguente e che sarà anch'essa di argomento politico.

► AUTORE: Dante Alighieri
► OPERA: Divina Commedia




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Ahi serva Italia, di dolore ostello, 
nave sanza nocchiere in gran tempesta, 
non donna di province, ma bordello!

Quell’anima gentil fu così presta, 
sol per lo dolce suon de la sua terra, 
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra 
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode 
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode 
le tue marine, e poi ti guarda in seno, 
s’alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno 
Iustiniano, se la sella è vota? 
Sanz’esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota, 
e lasciar seder Cesare in la sella, 
se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella 
per non esser corretta da li sproni, 
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch’abbandoni 
costei ch’è fatta indomita e selvaggia, 
e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusto giudicio da le stelle caggia 
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto, 
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!

Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto, 
per cupidigia di costà distretti, 
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, 
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: 
color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura 
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; 
e vedrai Santafior com’è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne 
vedova e sola, e dì e notte chiama: 
«Cesare mio, perché non m’accompagne?». 

Vieni a veder la gente quanto s’ama! 
e se nulla di noi pietà ti move, 
a vergognar ti vien de la tua fama.

E se licito m’è, o sommo Giove 
che fosti in terra per noi crucifisso, 
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l’abisso 
del tuo consiglio fai per alcun bene 
in tutto de l’accorger nostro scisso?

Ché le città d’Italia tutte piene 
son di tiranni, e un Marcel diventa 
ogne villan che parteggiando viene.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta 
di questa digression che non ti tocca, 
mercé del popol tuo che si argomenta.

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca 
per non venir sanza consiglio a l’arco; 
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.

Molti rifiutan lo comune incarco; 
ma il popol tuo solicito risponde 
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: 
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno 
l’antiche leggi e furon sì civili, 
fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili 
provedimenti, ch’a mezzo novembre 
non giugne quel che tu d’ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre, 
legge, moneta, officio e costume 
hai tu mutato e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume, 
vedrai te somigliante a quella inferma 
che non può trovar posa in su le piume, 

ma con dar volta suo dolore scherma.

Ahimè, Italia schiava, sede del dolore, nave senza timoniere in una gran tempesta, non più signora delle province ma bordello!


Quell'anima nobile fu così sollecita a fare festa al suo concittadino, solo per il dolce suono della sua terra, e adesso i tuoi abitanti in vita non smettono di farsi la guerra, e anche quelli che abitano la stessa città si rodono l'un l'altro.




Cerca, o infelice, intorno alle tue coste e poi guarda nell'interno, se alcuna parte di te si trova in pace.


A che è servito che Giustiniano ti aggiustasse il freno [emanasse le leggi], se la sella è vuota [nessuno le fa rispettare]? Senza di esso [senza le leggi] la vergogna sarebbe minore.

Oh gente [di Chiesa], che dovresti essere devota e lasciare che Cesare [l'imperatore] sieda sulla sella, se capisci bene la parola di Dio, guarda come è diventata ribelle questa bestia per non essere tenuta a bada dagli sproni, dal momento che la conduci a mano per le briglie.



O Alberto d'Asburgo, che abbandoni questa bestia divenuta indomabile e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni [governare l'Italia], possa cadere dal cielo contro di te e la tua famiglia un giusto castigo, e sia straordinario ed evidente, così che il tuo successore [Arrigo VII] ne abbia timore!



Infatti tu e tuo padre [Rodolfo I] avete lasciato che il giardino dell'Impero [l'Italia] sia abbandonato, rimanendo in Germania per cupidigia.


Vieni [o Alberto] a vedere i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi, uomo negligente, i primi già in rovina e gli altri sul punto di cadervi!

Vieni, o crudele, e vedi le oppressioni compiute [o subìte] dai tuoi feudatari, e cura le loro colpe [o danni]; e vedrai come è oscura Santa Fiora!
Vieni a vedere la tua città di Roma che piange, vedova e abbandonata, e giorno e notte invoca: «Cesare mio, perché non hai qui la tua sede?»


Vieni a vedere quanto si amano gli Italiani! e se non hai alcuna pietà di noi, vieni almeno a vergognarti della tua reputazione.


E se mi è consentito, o altissimo Giove [Cristo], che fosti crocifisso per noi in Terra, i tuoi occhi giusti sono forse rivolti altrove?


Oppure nell'abisso della tua saggezza stai preparando un bene [per l'Italia] di cui non possiamo renderci conto?


Infatti tutte le città italiane sono piene di tiranni, e ogni contadino che si mette a capo di una fazione politica diventa un Marcello.

Firenze mia, puoi davvero esser contenta del fatto che questa digressione non ti tocca, grazie al tuo popolo che si ingegna.


Molti hanno la giustizia in cuore, ma questa si esprime tardi con le parole per non rischiare di non essere ponderata; ma il tuo popolo se ne riempie sempre la bocca.

Molti rifiutano le cariche pubbliche, ma il tuo popolo risponde sollecito senza essere chiamato, e grida: «Me ne incarico io!»


Ora rallegrati, visto che ne hai motivo: tu sei ricca, sei in pace, sei assennata! Se dico la verità, i fatti non lo nascondono.

Atene e Sparta, che scrissero le antiche leggi e furono così civili, diedero un piccolo contributo alla giustizia in confronto a te, che emani provvedimenti tanto sottili [elaborati, ma anche fragili] che quelli emessi a ottobre non arrivano a metà novembre.





Quante volte, a memoria d'uomo, hai tu mutato leggi, moneta e costumi, e rinnovato la popolazione (grazie agli esili)!


E se tu ti ricordi bene e vedi chiaramente, riconoscerai di esser simile a quell'ammalata che non può trovare riposo nel letto, ma rigirandosi di continuo cerca di alleviare il dolore.


Interpretazione complessiva

  • Il canto, di argomento politico come il sesto di ogni cantica, è dedicato all'Italia e segue il VI dell'Inferno che trattava della situazione di Firenze, mentre il VI del Paradiso tratterà dell'Impero nel suo complesso (dunque con un climax tematico): l'invettiva di Dante scaturisce dal saluto affettuoso che Sordello ha riservato a Virgilio in quanto mantovano come lui, senza neppure sapere chi sia, mentre i cittadini dell'Italia del XIV sec. sono in perenne guerra tra loro e anche gli abitanti di uno stesso Comune sono divisi da lotte interne (come a Firenze), per cui nessuna parte della Penisola è in pace e stabile politicamente. Dante propone un raffronto tra la miseria della condizione presente in cui l'Italia è un "bordello", un luogo di corruzione e di sfrenatezza morale, e lo splendore dell'antica Roma in cui essa era "donna di province", paragone che acquista valore alla luce della causa da lui individuata nell'assenza di un potere centrale che assicuri il rispetto delle leggi e la giustizia, ovvero dell'imperatore che dovrebbe regnare a Roma e non in Germania come fanno gli Asburgo. Il poeta accusa apertamente Alberto I di trascurare il "giardin de lo 'mperio" per "cupidigia" dei suoi possedimenti tedeschi, come già aveva fatto il padre Rodolfo, e si augura che Dio colpisca lui e la sua famiglia con un giudizio esemplare, così da indurre il successore (che sarà Arrigo VII di Lussemburgo) a non imitarlo e a riportare l'Italia sotto la sua sovranità, cosa che in effetti tenterà di fare negli anni 1310-1313 pur senza successo (è discusso al momento della composizione del canto Arrigo fosse già sul trono o meno). Il tono è molto simile a quello usato da Dante nell'Epistola VII indirizzata proprio ad Arrigo VII, in cui lo esortava a vincere la resistenza dei Comuni guelfi capeggiati da Firenze (► TESTO: Dante ad Arrigo VII di Lussemburgo).
  • L'assenza di un potere centrale rappresentato dall'imperatore è causa soprattutto del mancato rispetto delle leggi, che pure ci sono ma che non vengono fatte rispettare provocando ingiustizie: Dante fa riferimento al Corpus iuris civilis emanato da Giustiniano nel VI sec. che costituiva la base del diritto medievale e che qui viene paragonato al "freno" che deve tenere a bada l'Italia come se fosse una "fiera" selvaggia e indomita, che è la stessa immagine usata nelle pagine finali del trattato sulla Monarchia (► TESTO: Papato e Impero). Nella visione dantesca il potere temporale deve essere nelle mani dell'imperatore, il cui scopo è appunto garantire la giustizia, mentre il papa deve occuparsi del potere spirituale e non ingerire nelle questioni politiche, come invece hanno fatto vari pontefici mettendo "mano a la predella", guidando cioè la "fiera" da terra e non lasciando che il sovrano ne inforchi gli arcioni e monti in sella. L'attacco di Dante è quindi rivolto sia all'imperatore Alberto I che trascura il proprio dovere e che viene invitato con la quadruplice anafora "Vieni" (vv. 106-115) a vedere di persona le miserie dei suoi sudditi italiani, sia ai papi corrotti e alla Chiesa che in nome della teocrazia impedisce un governo centrale della Penisola, fonte di corruzione politica e di ingiustizie come l'esilio patito da Dante negli anni precedenti.
  • I vv. 118-123 sono un'invocazione a Dio (indicato con la perifrasi "sommo Giove") affinché rivolga il Suo sguardo alle vicende italiane e non tolleri oltre questa situazione ingovernabile, pur nella speranza che la giustizia divina colpirà presto i responsabili proprio come poco prima Dante ha auspicato un giudizio "novo e aperto" contro gli Asburgo, perché cessino di lasciare il trono imperiale vacante in Italia. Il lamento del poeta è rivolto alla presenza nelle varie città di "tiranni" e di politici di basso profilo che si atteggiano a salvatori della patria (è il riferimento è probabilmente a Marco Claudio Marcello, il console che espugnò Siracusa nella seconda guerra punica), quindi sia ai Comuni come Firenze in cui i Neri hanno preso violentemente il potere, sia alle molte città del Nord Italia che all'inizio del Trecento oscillavano tra "tirannia e stato franco", essendo nate già molte signorie territoriali che poi si sarebbero ulteriormente consolidate. Il tema della libertà politica dell'Italia e della pace sarà ripreso da Petrarca nella canzone 128 del Canzoniere, rivolta appunto ai signori d'Italia (► TESTO: Italia mia, benché 'l parlar sia indarno).
  • L'ultima parte dell'invettiva è riservata a Firenze, accusata da Dante soprattutto di non avere stabilità politica e di non emanare delle leggi che durino nel tempo, cosa che alla lunga provoca ingiustizie e declino morale: il riferimento personale è ovviamente all'esilio ingiustamente subìto dal poeta nel 1302 e il poeta sottolinea soprattutto la smania con cui la città rinnova continuamente i suoi costumi e i suoi stessi abitanti, proprio attraverso le condanne all'esilio con cui i "tiranni" al potere si liberano dei loro avversari politici. Dante usa qui un tono sarcastico e ironico, affermando che la digressione non tocca la sua città in quanto prospera e felice (naturalmente è il contrario) e paragonando Firenze in modo beffardo all'antica Atene o a Sparta, città esemplari del mondo antico per essere state patria dei primi legislatori, Dracone e Licurgo (Firenze era di frequente accostata ad Atene nel Medioevo, proprio per la sua nobiltà e il prestigio culturale). La città è paragonata nei versi finali a una ammalata che non riesce a star ferma nel letto e si rigira continuamente, nel tentativo vano di trovare sollievo alle sue sofferenze.


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