Francesco Petrarca
«Italia mia, benché 'l parlar sia indarno»
(Canzoniere, 128)
Composta probabilmente nell’inverno 1344-45 a Parma, durante la guerra tra Obizzo d'Este e i Gonzaga di Mantova, la canzone è un accorato lamento sulla frammentazione politica dell'Italia del Trecento, divisa in piccoli stati regionali perennemente in guerra tra loro, e sulla mancanza di pace che insanguinava la Penisola a causa dei continui scontri tra i signori (specie quelli del nord Italia) per le loro contese territoriali. Il testo è uno dei pochi componimenti petrarcheschi di argomento politico e da un lato si collega alla grande tradizione lirica del Duecento, soprattutto Guittone d'Arezzo e Dante, dall'altro affronta alcune problematiche emerse ai tempi dell'autore tra cui, per esempio, l'uso di mercenari stranieri da parte dei signori italiani, fatto che Petrarca deplora e che un secolo e mezzo dopo verrà aspramente criticato anche da scrittori del Rinascimento come Machiavelli. Certo l'autore mostra di aver abbandonato qualunque speranza di una utopistica restaurazione imperiale, quale ancora Dante coltivava all'inizio del secolo, e di comprendere lucidamente il processo storico in atto verso un'Italia dominata dalle signorie e dagli stati regionali, benché egli si renda conto in modo sconsolato che tale situazione è irrimediabile e che quello che può fare è invocare a gran voce il soccorso divino affinché riporti la pace tra gli uomini.
► PERCORSO: La lirica amorosa
► AUTORE: Francesco Petrarca
► OPERA: Canzoniere
► PERCORSO: La lirica amorosa
► AUTORE: Francesco Petrarca
► OPERA: Canzoniere
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Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sì spesse veggio, piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali spera ’l Tevero et l’Arno, e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio. Rettor del cielo, io cheggio che la pietà che Ti condusse in terra Ti volga al Tuo dilecto almo paese. Vedi, Segnor cortese, di che lievi cagion’ che crudel guerra; e i cor’, che ’ndura et serra Marte superbo et fero, apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda; ivi fa che ’l Tuo vero, qual io mi sia, per la mia lingua s’oda. Voi cui Fortuna à posto in mano il freno de le belle contrade, di che nulla pietà par che vi stringa, che fan qui tante pellegrine spade? perché ’l verde terreno del barbarico sangue si depinga? Vano error vi lusinga: poco vedete, et parvi veder molto, ché ’n cor venale amor cercate o fede. Qual piú gente possede, colui è piú da’ suoi nemici avolto. O diluvio raccolto di che deserti strani per inondar i nostri dolci campi! Se da le proprie mani questo n’avene, or chi fia che ne scampi? Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi et la tedesca rabbia; ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo, s’è poi tanto ingegnato, ch’al corpo sano à procurato scabbia. Or dentro ad una gabbia fiere selvagge et mansüete gregge s’annidan sí che sempre il miglior geme: et è questo del seme, per piú dolor, del popol senza legge, al qual, come si legge, Mario aperse sí ’l fianco, che memoria de l’opra ancho non langue, quando assetato et stanco non piú bevve del fiume acqua che sangue. Cesare taccio che per ogni piaggia fece l’erbe sanguigne di lor vene, ove ’l nostro ferro mise. Or par, non so per che stelle maligne, che ’l cielo in odio n’aggia: vostra mercé, cui tanto si commise. Vostre voglie divise guastan del mondo la piú bella parte. Qual colpa, qual giudicio o qual destino fastidire il vicino povero, et le fortune afflicte et sparte perseguire, e ’n disparte cercar gente et gradire, che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo? Io parlo per ver dire, non per odio d’altrui, né per disprezzo. Né v’accorgete anchor per tante prove del bavarico inganno ch’alzando il dito colla morte scherza? Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno; ma ’l vostro sangue piove piú largamente, ch’altr’ira vi sferza. Da la matina a terza di voi pensate, et vederete come tien caro altrui che tien sé cosí vile. Latin sangue gentile, sgombra da te queste dannose some; non far idolo un nome vano senza soggetto: ché ’l furor de lassú, gente ritrosa, vincerne d’intellecto, peccato è nostro, et non natural cosa. Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido ove nudrito fui sí dolcemente? Non è questa la patria in ch’io mi fido, madre benigna et pia, che copre l’un et l’altro mio parente? Perdio, questo la mente talor vi mova, et con pietà guardate le lagrime del popol doloroso, che sol da voi riposo dopo Dio spera; et pur che voi mostriate segno alcun di pietate, vertú contra furore prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: ché l’antiquo valore ne gli italici cor’ non è anchor morto. Signor’, mirate come ’l tempo vola, et sí come la vita fugge, et la morte n’è sovra le spalle. Voi siete or qui; pensate a la partita: ché l’alma ignuda et sola conven ch’arrive a quel dubbioso calle. Al passar questa valle piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno, vènti contrari a la vita serena; et quel che ’n altrui pena tempo si spende, in qualche acto piú degno o di mano o d’ingegno, in qualche bella lode, in qualche honesto studio si converta: cosí qua giú si gode, et la strada del ciel si trova aperta. Canzone, io t’ammonisco che tua ragion cortesemente dica, perché fra gente altera ir ti convene, et le voglie son piene già de l’usanza pessima et antica, del ver sempre nemica. Proverai tua ventura fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace. Di’ lor: - Chi m’assicura? I’ vo gridando: Pace, pace, pace. - |
Italia mia, anche se le parole sono inutili a sanare le piaghe mortali che vedo così numerose nel tuo bel corpo, voglio almeno che i miei sospiri siano quali il Tevere, l'Arno e il Po, dove ora mi trovo pieno di dolore e preoccupazione, si aspettano da me. O rettore del cielo [Dio], io chiedo che la pietà che ti portò in terra ti induca a rivolgerti al tuo amato e nobile paese. Vedi, o Signore cortese, quale guerra crudele nasca da cause tanto lievi; apri tu, Padre, e intenerisci e sciogli i cuori che sono induriti e chiusi dal fiero e superbo Marte; fa' in modo che la tua verità si senta in cielo attraverso le mie parole, qualunque sia la mia capacità.
Voi, ai quali la fortuna ha messo in mano la guida delle belle terre d'Italia, di cui non sembrate avere alcuna pietà, che ci fanno qui tante spade straniere? Volete che il terreno verde si sporchi di sangue barbarico? Nutrite false speranze: vedete poco e vi sembra di vedere molto, poiché cercate amore o fedeltà in cuori venali [nei soldati mercenari]. Chi ha ai suoi ordini più soldati, è maggiormente circondato da nemici. O diluvio proveniente dai paesi più orridi e lontani, per inondare i nostri dolci campi! Se ciò avviene per nostra stessa iniziativa, chi potrà mai salvarci? La natura provvide bene a nostro vantaggio, quando pose le Alpi come barriera tra noi e la rabbia tedesca; ma i ciechi desideri [dei signori italiani] rivolti al proprio danno si sono poi ingegnati al punto che hanno procurato una malattia al corpo sano [assoldando mercenari stranieri]. Ora nella stessa gabbia si annidano belve selvagge e greggi mansuete, in modo tale che è sempre il migliore ad avere la peggio: e per accrescere il nostro dolore, questo popolo è della stessa stirpe di quella gente senza civiltà a cui, come narra la storia, Gaio Mario squarciò il fianco al punto che la memoria di quel gesto ancora non si estingue, quando [Mario] assetato e stanco non bevve acqua dal fiume, ma solo sangue [dei nemici]. Non parlo di Cesare che in ogni luogo macchiò l'erba del sangue delle loro vene [dei Germani], in cui affondò la nostra spada [di Roma]. Ora sembra che il cielo ci abbia in odio, non so per quale malefica congiunzione astrale: per merito vostro [signori d'Italia], ai quali fu affidato l'alto incarico di governo. I vostri desideri contrapposti guastano il più bel paese del mondo. Quale colpa, quale giudizio o destino vi spinge a infastidire il cittadino povero, a perseguitare le fortune afflitte e disperse, a cercare e apprezzare fuori d'Italia delle genti che spargano il sangue e vendano la loro anima in cambio di denaro? Io parlo per dire la verità, non per odio verso gli altri o per disprezzo. Non avete ancora capito da tante prove l'inganno dei Bavari [dei mercenari tedeschi] che scherzano con la morte alzando il dito [in segno di resa]? A mio parere, lo scherno è peggiore del danno; ma il vostro sangue è sparso più largamente, poiché siete animati da altra ira [combattete davvero]. Nelle prime ore del mattino pensate a voi e capirete quanto questi mercenari, che stimano se stessi così poco, possano stimare voi. O nobile sangue latino, allontana da te questi pesi fastidiosi; non trasformare in idolo una fama vana, senza costrutto: poiché il fatto che il furore di quelle terre lassù, che una gente barbara ci superi in intelletto, è un nostro peccato e non una disposizione naturale. Non è forse questa la terra dove sono nato? Non è questo il nido dove sono stato dolcemente nutrito? Non è questa la patria a cui mi affido, madre benevola e devota, dove sono sepolti entrambi i miei genitori? Per Dio, questi pensieri vi smuovano talvolta la mente e guardate in modo pietoso le lacrime del vostro popolo addolorato, che spera solo da voi dopo Dio la pace; e purché voi mostriate un qualche segno di pietà, la virtù impugnerà le armi contro il furore e la lotta sarà breve: poiché l'antico valore non è ancora morto nei cuori degli Italiani. O signori, osservate come il tempo vola e come la vita fugge, e la morte ci incalza alle spalle. Voi ora siete qui; pensate a quando morirete: infatti è inevitabile che l'anima nuda e sola giunga a quel cammino dubbioso [alla morte]. Nel passaggio in questo mondo vogliate deporre l'odio e lo sdegno, che sono venti contrari alla vita serena; e quel tempo che spendete per dare pena agli altri, possa convertirsi in qualche atto più degno di mano o d'intelletto, in qualche lodevole attività, o in qualche studio decoroso: così si è felici in terra e si trova poi aperta la strada per il cielo. Canzone, io ti ammonisco a dire le tue ragioni in modo cortese, visto che dovrai andare tra gente sprezzante, e i loro desideri sono pieni dell'antica e pessima usanza [l'adulazione], sempre nemica della verità. Troverai la tua fortuna tra pochi uomini magnanimi a cui piace il bene. Di' loro: "Chi mi protegge? Io vado gridando: Pace, pace, pace". |
Interpretazione complessiva
- Metro: canzone formata da sette stanze di sedici versi ciascuna (endecasillabi e settenari), con schema della rima AbCBaCcDEeDdfGfG e un congedo di dieci versi il cui schema riprende la sirma (cDEeDdfGfG). La lingua presenta i consueti latinismi, tra cui "et" (v. 5 e altrove), "dilecto" (v. 9), "afflicte" (v. 59), "anchor" (vv. 65, 96, di tipo grafico), "intellecto" (v. 79), "acto" (v. 107), "honesto" (v. 110). Estremamente ricercata la costruzione retorica, ad es. già nella prima stanza con la personificazione dei tre fiumi principali dell'Italia (Tevere, Arno e Po) a indicare gli italiani che si lamentano, e con l'invocazione a Dio sottolineata dall'allitterazione della "t" (vv. 7 ss.: "Rettor del cielo", "pietà", "Ti condusse in terra", "Ti volga al tuo dilecto"), mentre ai vv. 11 ss. c'è l'allitterazione della "c" velare e della "r" in corrispondenza della descrizione della guerra ("di che lievi cagion' che crudel guerra", "e i cor', che 'ndura e serra"...). Chiasmo al v. 24 ("Poco vedete... veder molto") e al v. 40 ("fiere selvagge et mansüete gregge", con assonanza del secondo e quarto membro). Nella sesta stanza anafora di "Non" e replicazione di domande retoriche; anafora di "in qualche" ai vv. 109-110. Nel congedo l'autore si rivolge alla canzone e le rivolge raccomandazioni sul pubblico cui rivolgersi, secondo la tradizione due-trecentesca.
- La canzone, unico componimento di tema politico del Canzoniere, trae spunto dalla "vendita" della città di Parma da parte di Azzo da Correggio ad Obizzo d'Este e dalla guerra che ne seguì tra questo e il signore di Mantova Filippino Gonzaga, conflitto che coinvolse anche altre città del Nord Italia: Petrarca si trovava appunto a Parma nel 1344-45 quando scoppiò la crisi (sulle sponde del Po, come detto al v. 6) e il testo nasce come lamento della triste situazione politica italiana, lacerata da sanguinosi conflitti interni tra i signori contrapposti e priva perciò di pace e stabilità, secondo una consuetudine ormai consolidata dall'inizio del secolo. La canzone vuol essere un'invocazione a Dio affinché tocchi il cuore dei signori d'Italia e li induca a cessare dalle loro ambizioni, e anche un'apostrofe agli stessi signori affinché la smettano di farsi la guerra e pensino alla salvezza dell'anima, nell'imminenza della morte quale passo inevitabile. L'autore si collega alla tradizione della grande canzone politica della lirica volgare del Due-Trecento, ad es. a Guittone d'Arezzo che lamentava la sconfitta di Firenze a Montaperti (► TESTO: Ahi lasso, or è stagion de doler tanto), ma soprattutto si rifà a Dante che in Purg., VI lanciava una forte invettiva all'Italia, in cui esprimeva il suo dolore per la frammentazione politica e lo stato di guerra permanente tra i Comuni a inizio Trecento e invocava anch'egli l'intervento divino, auspicando un "giudizio" severo nei confronti dell'imperatore asburgico che, a suo dire, trascurava l'Italia per "cupidigia" dei suoi possessi tedeschi (► TESTO: L'invettiva all'Italia). A differenza di Dante, tuttavia, Petrarca non nutre più alcuna speranza utopistica nella restaurazione del potere imperiale e, più che un'invettiva, la sua è un'amara considerazione circa il declino politico dell'Italia, nonché un auspicio di pace che viene espresso malinconicamente nei versi conclusivi.
- L'autore paragona implicitamente la decadenza politica dell'Italia del Trecento alla grandezza della civiltà di Roma antica, quando l'Italia era centro del mondo e i Romani infliggevano dure sconfitte ai popoli germanici (visti come rozzi e inferiori culturalmente) tra cui ora, colpevolmente, vengono arruolate le truppe mercenarie al servizio dei signori italiani: Petrarca cita gli esempi illustri di Gaio Mario che debellò i Teutoni nella battaglia di Aquae Sextiae, nel 102 a.C., bevendo poi nel fiume Arc acqua mista al sangue dei nemici, e Giulio Cesare (citato attraverso una preterizione) che sconfisse più volte i Germani, mentre ora questi popoli (paragonati a belve selvagge) convivono con gli italiani inermi e vengono arruolati come mercenari dai signori, che farebbero meglio invece a lasciarli in Germania da cui l'Italia è opportunamente divisa dalle Alpi. Petrarca anticipa un tema che sarà più volte toccato dagli scrittori dell'età successiva e soprattutto dagli autori del Risorgimento, ovvero il declino dell'Italia frammentata politicamente e sottoposta al governo di altri popoli che stride col passato glorioso di Roma, tema trattato anche da Dante in Purg., VI.
- La critica all'uso delle milizie mercenarie è racchiusa nelle strofe centrali della canzone e si basa su vari argomenti, tra cui anzitutto la rozzezza e l'inciviltà di questi soldati tedeschi che un tempo vennero dominati da Roma, e poi la loro scarsa efficacia e fedeltà militare, in quanto guerrieri prezzolati che combattono per interesse e non sono motivati a difendere il loro paese, per cui essi scherzano con la morte "alzando il dito" (il gesto convenzionale in segno di resa) e approfittano dei loro signori, arricchendosi alle loro spalle con grave danno delle terre italiche. Petrarca tocca qui un tema che diverrà di drammatica attualità nei primi anni del Cinquecento e sarà ripreso dai principali scrittori del Rinascimento, tra cui soprattutto Niccolò Machiavelli (► VAI ALL'AUTORE) in vari passi della sua opera, specie nei capp. XII-XIV del Principe in cui parla proprio delle milizie e afferma che queste debbano essere civili e non mercenarie, adducendo argomentazioni analoghe a quelle usate nella canzone da Petrarca (► TESTO: Le milizie mercenarie). Lo scrittore del Cinquecento cita esplicitamente i vv. 93-96 della canzone nel cap. conclusivo del Principe, in cui esorta i Medici a prendere la testa di un ipotetico movimento di riscossa nazionale che dovrà scacciare il "barbaro dominio" degli stranieri dall'Italia (► TESTO: L'esortazione finale ai Medici).